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Cinque riflessioni sull’enciclica Laudato si’

La lettera enciclica Laudato si’ di papa Francesco sulla cura della casa comune presenta alcune caratteristiche che balzano immediate agli occhi del lettore “laico”. Ne sottolinea alcune.

1. La prima, a mio avviso, consiste nell’intento dichiaratamente rivoluzionario impresso alla lettera: “Mai abbiamo maltrattato e offeso la nostra casa comune come negli ultimi due secoli” (53). “Ciò che sta accadendo ci pone di fronte all’urgenza di procedere in una coraggiosa rivoluzione culturale” (114). “Ogni aspirazione a curare e migliorare il mondo richiede di cambiare profondamente gli stili di vita, i modelli di produzione e di consumo, le strutture consolidate di potere che oggi reggono le società” (5). All’intento si aggiunge la fiducia nell’esito rivoluzionario dell’operazione: “Spero che questa Lettera enciclica, che si aggiunge al Magistero sociale della Chiesa, ci aiuti a riconoscere la grandezza, l’urgenza e la bellezza della sfida che ci si presenta” (15). 

Quando parlo di “operazione” intendo la modalità con cui tutta la scrittura e il lancio dell’enciclica sono state attentamente condotte. Si pensi all’idea geniale di far firmare a Carlo Petrini una “guida alla lettura” per l’edizione italiana e a Leonardo Boff un’analoga guida per l’edizione brasiliana. 

 

2. La seconda caratteristica che balza agli occhi è la concezione unitaria e interconnessa che papa Francesco ha dell’universo e dell’umanità. “Tutto è in relazione… La cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti degli altri” (70). “Ogni creatura ha una funzione e nessuna è superflua” (84). “Tutto è collegato. Per questo si richiede una preoccupazione per l’ambiente unita al sincero amore per gli esseri umani e un costante impegno riguardo ai problemi della società” (91).  “Bisogna rafforzare la consapevolezza che siamo una sola famiglia umana. Non ci sono frontiere e barriere politiche o sociali che ci permettano di isolarci, e per ciò stesso non c’è nemmeno spazio per la globalizzazione dell’indifferenza” (52).

La stessa interconnessione che Francesco scorge nell’universo, egli imprime anche alla struttura e allo stile della sua lettera enciclica: “Ogni capitolo, sebbene abbia una sua tematica propria e una metodologia specifica, riprende a sua volta, da una nuova prospettiva, questioni importanti affrontate nei capitoli precedenti. Questo riguarda specialmente alcuni assi portanti che attraversano tutta l’Enciclica. Per esempio: l’intima relazione tra i poveri e la fragilità del pianeta; la convinzione che tutto nel mondo è intimamente connesso; la critica al nuovo paradigma e alle forme di potere che derivano dalla tecnologia; l’invito a cercare altri modi di intendere l’economia e il progresso; il valore proprio di ogni creatura; il senso umano dell’ecologia; la necessità di dibattiti sinceri e onesti; la grave responsabilità della politica internazionale e locale; la cultura dello scarto e la proposta di un nuovo stile di vita. Questi temi non vengono mai chiusi o abbandonati, ma anzi costantemente ripresi e arricchiti” (16).

Tutto ciò porterebbe al panteismo, se prima del creato e sopra il creato non ci fosse un creatore e trascendente. Nel libro VI, il più bello dell’Eneide, così Virgilio sintetizza magistralmente il panteismo: “In principio uno spirito e cielo e terre e spianate d’acqua – e lo splendente globo della luna e l’astro figlio del Titano – vivifica di dentro; e, infuso per le membra, esso spirito – seminale anima tutta la massa fondendosi nel grande corpo”. Ma per papa Francesco “il modo migliore per collocare l’essere umano al suo posto e mettere fine alla sua pretesa di essere un dominatore assoluto della terra, è ritornare a proporre la figura di un Padre creatore e unico padrone del mondo, perché altrimenti l’essere umano tenderà sempre a voler imporre alla realtà le proprie leggi e i propri interessi”(75). “L’universo non è sorto come risultato di un’onnipotenza arbitraria, di una dimostrazione di forza o di un desiderio di autoaffermazione. La creazione appartiene all’ordine dell’amore” (77). “Tutto è carezza di Dio” (84). “L’interdipendenza delle creature è voluta da Dio. Il sole e la luna, il cedro e il piccolo fiore, l’aquila e il passero: le innumerevoli diversità e disuguaglianze stanno a significare che nessuna creatura basta a se stessa, che esse esistono solo in dipendenza le une dalle altre, per completarsi vicendevolmente, al servizio le une delle altre” (86). “Essendo stati creati dallo stesso Padre, noi tutti esseri dell’universo siamo uniti da legami invisibili e formiamo una sorta di famiglia universale, una comunione sublime che ci spinge ad un rispetto sacro, amorevole e umile… Possiamo lamentare l’estinzione di una specie come fosse una mutilazione” (89).

 

3. In un mondo dove gli 85 personaggi più ricchi accumulano la ricchezza di tre miliardi e mezzo di poveri, ovviamente un papa, per di più argentino e di nome Francesco, non poteva non mettere i poveri e gli esclusi al centro della sua lettera enciclica: “Il deterioramento dell’ambiente e quello della società colpiscono in modo speciale i più deboli del pianeta… Gli effetti più gravi di tutte le aggressioni ambientali li subisce la gente più povera” (84). “Il riscaldamento causato dall’enorme consumo di alcuni Paesi ricchi ha ripercussioni nei luoghi più poveri della terra, specialmente in Africa, dove l’aumento della temperatura unito alla siccità ha effetti disastrosi sul rendimento delle coltivazioni. A questo si uniscono i danni causati dall’esportazione verso i Paesi in via di sviluppo di rifiuti solidi e liquidi tossici e dall’attività inquinante di imprese che fanno nei Paesi meno sviluppati ciò che non possono fare nei Paesi che apportano loro capitale: «Constatiamo che spesso le imprese che operano così sono multinazionali, che fanno qui quello che non è loro permesso nei Paesi sviluppati o del cosiddetto primo mondo. Generalmente, quando cessano le loro attività e si ritirano, lasciano grandi danni umani e ambientali, come la disoccupazione, villaggi senza vita, esaurimento di alcune riserve naturali, deforestazione, impoverimento dell’agricoltura e dell’allevamento locale, crateri, colline devastate, fiumi inquinati e qualche opera sociale che non si può più sostenere»“ (51).  “Spesso non si ha chiara consapevolezza dei problemi che colpiscono particolarmente gli esclusi… sembra che i loro problemi si pongano come un’appendice, come una questione che si aggiunga quasi per obbligo o in maniera periferica, se non li si considera un mero danno collaterale. Di fatto, al momento dell’attuazione concreta, rimangono frequentemente all’ultimo posto. Questo si deve in parte al fatto che tanti professionisti, opinionisti, mezzi di comunicazione e centri di potere sono ubicati lontani da loro, in aree urbane isolate, senza contatto diretto con i loro problemi. Vivono e riflettono a partire dalla comodità di uno sviluppo e di una qualità di vita che non sono alla portata della maggior parte della popolazione mondiale” (49). 

4. Ma l’aspetto che stupisce maggiormente il lettore laico è la capacità di ascolto che, attraverso la sua enciclica, papa Francesco dimostra nei confronti delle acquisizioni scientifiche che sull’ecologia provengono da scienziati laici e dalle lotte che i movimenti ecologici vanno combattendo da decenni: “Desidero esprimere riconoscenza, incoraggiare e ringraziare tutti coloro che, nei più svariati settori dell’attività umana, stanno lavorando per garantire la protezione della casa che condividiamo. Meritano una gratitudine speciale quanti lottano con vigore per risolvere le drammatiche conseguenze del degrado ambientale nella vita dei più poveri del mondo” (13). “Il movimento ecologico mondiale ha già percorso un lungo e ricco cammino, e ha dato vita a numerose aggregazioni di cittadini che hanno favorito una presa di coscienza. Purtroppo, molti sforzi per cercare soluzioni concrete alla crisi ambientale sono spesso frustrati non solo dal rifiuto dei potenti, ma anche dal disinteresse degli altri. Gli atteggiamenti che ostacolano le vie di soluzione, anche fra i credenti, vanno dalla negazione del problema all’indifferenza, alla rassegnazione comoda, o alla fiducia cieca nelle soluzioni tecniche. Abbiamo bisogno di nuova solidarietà universale” (14). 

Molti contenuti dell’enciclica di papa Francesco vengono dal pensiero laico che il papa argentino ha introiettato con francescana umiltà. Mi piace ricordare in questa sede due scuole di pensiero: in Francia, quella che esplora la necessità di una decrescita equilibrata; in Italia, quella che rivendica il primato della lentezza sulla velocità, della qualità sulla quantità, del locale sul globale. 

La “scuola” francese, che fa capo a Serge Latouche e affonda le sue radici nel pensiero di studiosi come Ivan Illich, André Gorz, Nicholas Georgescu-Roegen, Jacques Grinevald o Paul Ariès, adotta un’ottica politica e planetaria partendo dal presupposto che occorre modificare radicalmente i nostri stili di vita se si vuole evitare che l’attuale sistema precipiti nell’esito catastrofico che esso stesso ha già predisposto. Secondo questo movimento è pura follia comportarsi come se le risorse del pianeta fossero infinite e lo spreco economico potesse continuare in eterno. Kennet Building dice senza mezzi termini che “chi crede possibile la crescita infinita in un mondo finito, o è un pazzo o è un economista”. Serge Latouche chiosa: “Il dramma è che ormai siamo tutti più o meno economisti”. E poi aggiunge: “Dove stiamo andando? Dritti contro un muro. Siamo a bordo di un bolide senza pilota, senza marcia indietro e senza freni, che sta andando a fracassarsi contro i limiti del pianeta”. 

Dunque non si tratta più – dice Latouche – di rallentare la crescita, di renderla sostenibile, come se il limite non fosse stato già ampiamente superato. Si tratta di fare una rapida retromarcia per ridurre i danni di una catastrofe ormai inevitabile, provocata da “un sistema economico fondato sulla credenza secondo cui la crescita è normale, necessaria e può durare indefinitamente” come dice ancora Heinberg. 

Quando l’enciclica di papa Francesco dice: “Già si sono superati certi limiti massimi di sfruttamento del pianeta, senza che sia stato risolto il problema della povertà” (27), questa affermazione coincide con il pensiero dei teorici della decrescita secondo cui qualunque sviluppo, per il fatto stesso di essere sviluppo, comporta ulteriore consumo di risorse limitate e quindi prosegue in una direzione comunque sbagliata perché irreversibilmente distruttiva. Ma l’accordo finisce qui perché papa Francesco parla più volte e propone l’idea di uno sviluppo sostenibile attraverso una ecologia integrale mentre, per questi scienziati, l’idea di “sviluppo sostenibile” è un ossimoro e un inganno perché non esiste uno sviluppo buono e uno cattivo: lo sviluppo è dannoso comunque, proprio in quanto sviluppo: “Sviluppo come crescita è una parola tossica quale che sia l’aggettivo che gli si vuole accoppiare” dice Latouche. Una parola che tende a nascondere gli interessi di un capitalismo rifondato, solo apparentemente etico e responsabile, drogato con gli ormoni dell’eco-business, “dietro l’illusione di un interesse generale, paralizzando in questo modo la resistenza delle vittime”. 

Per invertire la marcia in tutto il mondo si è mobilitato un gruppo sempre più folto di sociologi, economisti, filosofi e una massa crescente di militanti. In Italia è molto attivo il Movimento per la Decrescita Serena animato dai libri e dalle iniziative di Maurizio Pallante. Tutti questi studiosi sostengono con Latouche che “l’obiettivo della decrescita serena e conviviale è una società nella quale si vivrà meglio lavorando e consumando meno”. 

Tutto ciò comporterebbe la guarigione da malattie sociali come l’alienazione, l’allentamento dei legami interpersonali, la mercificazione dei beni, dei servizi, dei rapporti e della cultura; la spinta a recuperare alcune dimensioni perdute della nostra vita, iniziando dall’amore per la terra. Queste dimensioni perdute e da recuperare, secondo Latouche, sono “il tempo per fare il proprio dovere di cittadino, il piacere della produzione libera, artistica o artigianale, la sensazione del tempo ritrovato, il gioco, la contemplazione, la meditazione, la conversazione, o semplicemente la gioia di vivere”. E Cornelis Castoriadis vi aggiunge l’amore della verità, il senso della giustizia, la responsabilità, il rispetto della democrazia, l’elogio della differenza, il dovere della solidarietà, l’uso dell’intelligenza. In poche parole, l’incanto della vita.

Se alla Francia va il merito di avere avviato il movimento per la decrescita, all’Italia va il merito di avere recuperato il concetto di slow e di avere innescato la proliferazione di una miriade di movimenti per la sua difesa.

Rispetto al movimento della decrescita, che rifiuta sia il concetto di sostenibilità, sia l’attuale modello economico preso in blocco, i movimenti Slow sono meno allarmisti, meno avversi all’economia di mercato, più mirati su singoli aspetti come il cibo o il turismo. Parlano piuttosto di qualità della vita e, a differenza dei teorici della decrescita, non rifiutano il concetto di sviluppo sostenibile. Difendono il diritto al piacere, alla diversità, alla convivialità. Sono contrari al consumismo, alla standardizzazione e all’accelerazione. Rifiutano il liberismo ma sono convinti che si possa arrivare a un nuovo modello di società migliorando quello attuale e rivalutando la frugalità. Per i movimenti Slow “vivere e pensare slow significa adeguare il proprio stile di vita ai ritmi naturali, essere sensibili alle stagioni, riacquisire la consapevolezza delle distanze, sviluppare una conoscenza dei prodotti e dell’ambiente nel quale viviamo” come dicono Menétrey e SzerMan. 

Il primo e il più imponente dei movimenti slow è Slow Food, presente in 130 nazioni con oltre 120.000 associati, nato nel 1986 per opera di Carlo Petrini che ne resta l’ispiratore e il leader. Per Petrini “Slow Food”, con le iniziative consorelle di “Terra Madre” e dell’Università del Gusto, rappresenta una proposta e un esperimento per contribuire a colmare il vuoto di modello che disorienta la società postindustriale. 

 

5. Se Petrini Scrive in Terra Madre: “Noi dobbiamo imparare ad aprire la mente al non esatto – al non spiegato del tutto, al buono e al bello, concetti che non sempre possono trovare una codifica universale”, papa Bergoglio, rifacendosi al poverello d’Assisi, dice nella sua enciclica: “Credo che Francesco sia l’esempio per eccellenza della cura per ciò che è debole e di una ecologia integrale, vissuta con gioia e autenticità… In lui si riscontra fino a che punto sono inseparabili la preoccupazione per la natura, la giustizia verso i poveri, l’impegno nella società e la pace interiore” (10). Di qui il metodo interdisciplinare e interculturale che papa Francesco propone: 

“Se teniamo conto della complessità della crisi ecologica e delle sue molteplici cause, dovremmo riconoscere che le soluzioni non possono venire da un unico modo di interpretare e trasformare la realtà. È necessario ricorrere anche alle diverse ricchezze culturali dei popoli, all’arte e alla poesia, alla vita interiore e alla spiritualità. Se si vuole veramente costruire un’ecologia che ci permetta di riparare tutto ciò che abbiamo distrutto, allora nessun ramo delle scienze e nessuna forma di saggezza può essere trascurata, nemmeno quella religiosa con il suo linguaggio proprio” (63).

 (*) Sociologo. Professore emerito di Sociologia del lavoro presso l’Università “La Sapienza” di Roma.

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