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E’ la rimessa in gioco del pensiero critico

E’ un testo complesso e impegnativo anche se la tesi è semplice. Il mondo non è proprietà dell’uomo, che non ha diritto di manometterlo perché, oltre che non esserne il padrone, non è il fine di tutto: “noi non siamo Dio, la terra ci precede e ci è stata data”(par. 66). Questa tesi semplice, affondata con le sue radici nelle tradizioni più antiche   e messa in discussione dalla modernità, è la forza dell’enciclica. Il Cantico delle Creature che le dà il titolo è in fondo l’elegia dell’umiltà umana, e quindi della semplicità del sentire e del vivere.

Ma è un testo  impegnativo, perché mette un punto fermo non scontato su alcune cose importanti. La principale, che poi sottende quasi tutta l’enciclica è che “la preoccupazione per la natura, la giustizia verso i poveri, l’impegno nella società e la pace interiore” sono inseparabili  (10). Difesa dell’ambiente e diritti dei più deboli sono tutt’uno.  Il che basta per fare di questa enciclica dedicata all’ambiente un testo niente affatto pacificatorio, buono per tutti i gusti.  

Lamenta l’enciclica, a un certo punto, che “la consapevolezza dei problemi che colpiscono particolarmente gli esclusi”, che secondo il Papa deve essere tutt’uno con la coscienza ecologica autentica,  non ci sia, non sia abbastanza diffusa: la spiegazione che ne dà  è che “tanti professionisti, opinionisti, mezzi di comunicazione sono ubicati (…) senza contatto con i loro problemi (degli esclusi)”. E che “questa mancanza di contatto fisico, a volte favorita dalla frammentazione delle nostre città, aiuta a cauterizzare la coscienza e a ignorare parte della realtà in analisi parziali. Ciò a volte convive con un approccio “verde”. Ma oggi non possiamo fare a meno di riconoscere che un vero approccio ecologico diventa un approccio sociale che deve integrare la giustizia nella discussioni sull’ambiente, per ascoltare tanto il grido della terra che è il grido dei poveri” (49).   

Torna qui  l’appello contro la “globalizzazione dell’indifferenza” (messaggio del 27 gennaio 2015). L’ambientalismo dell’enciclica non è insomma del tipo: occupiamoci dell’ambiente, è un problema di tutti,  ognuno nel suo piccolo può fare qualcosa di buono, diamoci da fare anche senza porsi grandi problemi generali. E’ agli antipodi di questa cultura  così diffusa, ed è, in questo, controcorrente, anche rispetto a quei vaghi “nuovi umanesimi” di cui tanto si parla quando non si sa che cosa dire, che cauterizzano le coscienze  e che non mettono in discussione nessuno.  Mette in guardia, il Papa, contro “proclami superficiali, azioni filantropiche isolate, e anche sforzi per mostrare sensibilità verso l’ambiente” (54). 

E che la lettura dell’enciclica non debba essere consolatoria, lo dice l’enciclica stessa all’inizio, enunciando l’obiettivo di far “prendere dolorosa coscienza, osare trasformare in sofferenza personale quello che accade al mondo, e così riconoscere qual è il contributo che ciascuno può portare” (19).

Al centro dell’enciclica di Papa Francesco sull’ambiente c’è dunque l’ingiustizia, e l’esclusione di una parte del mondo. Colpisce, mentre la questione dei debiti delle nazioni pesa nella cronaca europea per la sua materialità monetaria, e produce tensione al confine fra debitori e creditori di denaro, il fatto che venga enunciata dal Papa la necessità di un’”etica delle relazioni internazionali” attorno alla questione del debito non monetario, del “debito ecologico”, appunto.  Perché “il debito estero dei paesi poveri si è trasformato in uno strumento di controllo, ma non accade la stessa cosa con il debito ecologico.  In diversi modi, i popoli in via di sviluppo, dove si trovano le riserve più importanti della biosfera, continuano ad alimentare lo sviluppo dei paesi più ricchi a prezzo del loro presente e del loro futuro” (52). 

Concetto semplice e crudo: “Il riscaldamento causato dall’enorme consumo di alcuni paesi ricchi ha ripercussioni nei luoghi più poveri della terra, specialmente in Africa, dove l’aumento della temperatura unito alla siccità ha effetti disastrosi sul rendimento delle coltivazioni”. Il mondo ricco ha inquinato il pianeta per diventare ricco, e vuole che i poveri restino tali, per non compromettere la sua quiete e la sua ricchezza. Riconoscere il debito ecologico del Nord del mondo è un passo per attenuare le pretese di chi ha fatto credito contro chi fatica a rimborsare i debiti. Da qualche parte, il danno monetario e non, per quanto mal registrato dalle statistiche e dagli accordi, subito dai deboli della terra dovrà essere riconosciuto: è appunto la nuova “etica delle relazioni internazionali”, invocata dall’enciclica di fronte all’”iniquità che non colpisce  solo gli individui, ma paesi interi” (51).  

E’ contro le ineguaglianze, ma non è un’enciclica contro la crescita, né contro la tecnologia.  Non sposa gli anatemi di alcuni contro gli OGM (133), né assume la decrescita come valore. Distingue, approfondisce, a volte sospende i giudizi. 

Sulle terapie per rimediare all’aver “maltrattato e offeso la nostra casa comune” l’enciclica è tuttavia netta: riconosce che “non disponiamo ancora della cultura necessaria per affrontare questa crisi”, ma le sue conclusioni non sono riconducibili all’alveo dei rassicuranti paradigmi del  nostro riformismo europeo. Qui il messaggio papale segna anzi un ulteriore distacco, mi pare, dalle culture egemoni nella nostra parte di mondo. 

Alla base di esse, e dei paradigmi rassicuranti che portano consciamente o meno alla globalizzazione dell’indifferenza,  c’è la convinzione di un mondo destinato ad autoaggiustarsi per le virtù del mercato, o meglio in virtù degli incentivi che dal mercato derivano e che, alla bisogna, produrrebbero senza interventi dall’alto  le  soluzioni tecnologiche in grado di volta in volta di risolvere anche i problemi che oggi appaiono più drammatici. 

E’ ritenuta catastrofista  e a-scientifica l’idea che la diffusione del benessere sia incompatibile con la scarsità delle risorse idriche ed alimentari del pianeta. La storia di questi duecento anni, il continuo superamento dei limiti allo sviluppo, lo dimostrerebbe.  Quando sarà necessario, la moltiplicazione della produttività, come è successo dalla rivoluzione industriale, provvederà a soddisfare i nuovi bisogni. Ci saranno danni collaterali, vincitori e vinti, ma così va il mondo.  E quindi sarebbe tempo perso pensare a nuovi modelli di crescita e progresso.

L’enciclica non ignora questo punto di vista,  ma lo contrasta. “Da qui si passa facilmente all’idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia. Ciò suppone la menzogna circa la disponibilità infinita dei beni del pianeta, che conduce a “spremerlo” fino al limite e oltre il limite” (106). 

L’appello è alla politica, a una politica che non si sottometta all’economia, che a sua volta non si sottometta “ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia” (189). “La sottomissione della politica alla tecnologia e alla finanza si dimostra nel fallimento dei Vertici mondiali sull’ambiente. Ci sono troppi interessi particolari e molto facilmente l’interesse economico arriva a prevalere sul bene comune e a manipolare l’informazione per vedere colpiti i suoi progetti” (54).”L’economia assume ogni sviluppo tecnologico in funzione del profitto, senza prestare attenzione a eventuali conseguenze negative per l’essere umano. La finanza soffoca l’economia reale” (189). L’occasione della crisi finanziaria  del 2007-2008 per avviare una riflessione collettiva sul superamento di quel paradigma è stata perduta, dice l’enciclica (189). 

L’enciclica insomma rimette in gioco il pensiero critico, non lascia tranquilli coloro che si compiacciono di vecchi tabù. Disturba chi si compiace di un’ortodossia che si è fatta senso comune che dovrebbe fare i conti con la necessità che “sorgano nuovi modelli di progresso” e si possa “cambiare il modello di sviluppo globale”,  “la qualcosa implica riflettere responsabilmente sul senso dell’economia e sulla sua finalità, per correggere le sue disfunzioni e distorsioni” (194).

Bisogna fare i conti, di fronte alla radicalità di questo pensiero,  con il vago timore che si tratti di una “vox clamans in deserto”, sia pure autorevolissima e accompagnata da cori di ammirazione e rispetto, che è poi il modo con cui da noi in particolare, dico in Italia e nell’Europa cattolica, mi pare che si accolgano molte parole di questo Papa. 

Spero non sia così. Anche perché,  mi dico,  l’Europa, questa come altre  volte, oggi non è il banco di prova più avanzato dei pensieri critici.  E torno in conclusione alla finanza e al suo ruolo, che me in particolare interessano. E’ un tema che l’enciclica evoca in modo estremamente critico (“…un dominio assoluto della finanza che non ha futuro e che potrà solo generare  nuove crisi dopo una lunga, costosa e apparente cura”. 189). Su questo tema, l’Europa assomiglia ad un caso-limite della conservazione, o della pigrizia culturale. Un po’ per atavico autocompiacimento delle sue classi dirigenti. Un po’ per un fatto materiale. In questa parte di mondo la crisi del debito pubblico di alcuni paesi, contrapposta alle virtù tedesche, ha fermato e deviato, dal 2011, quella riflessione critica sulla finanza, il suo mercato,  e il suo governo  che negli Stati Uniti è stata vivace e produttiva dopo la crisi del 2008 e continua ad esserlo. 

Da noi invece non è mai stata davvero messa in discussione, in nome dell’ortodossia del pensiero e dei comportamenti,  l’idea che i mercati finanziari devono stare al centro delle scelte, anche politiche, anche democratiche, perché sarebbero in linea di massima efficienti, e i loro prezzi con le loro oscillazioni sono il giusto metro di giudizio dei comportamenti degli agenti economici, delle nazioni, dei popoli. E si va avanti così.  Negli Stati Uniti la discussione c’è, invece, molti tabù sono stati abbattuti.   Certo, quello della finanza e della sua riforma resta un santuario difficile da espugnare. E anche negli Stati Uniti non molto si è riusciti a fare. Ma almeno lì ci si prova, e c’è consenso nel provarci, e si discute senza anatemi  (penso non solo alla sinistra di Krugman e Stiglitz, ma anche agli economisti comportamentali, come Schiller). Comunque, uno dei tanti  temi non eludibili posti da questa enciclica. 

 (*) Presidente Sea

 

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