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La questione salariale a braccetto con quella per l’occupazione

E’ ripresa la discussione nel nostro paese sul salario orario minimo legale a seguito della presentazione di due disegni di legge incardinati al Senato da parte di parlamentari del Partito Democratico e del Movimento 5 Stelle. La prima proposta è stata già ridimensionata dal segretario del Pd, Nicola Zingaretti, che si è pronunciato sulla necessità di innovare la proposta, evitando di frammentare la posizione del Pd, e si è aperto al confronto con le parti sociali – cosi come è avvenuto nell’incontro del 2 aprile scorso con le Segreterie di Cgil Cisl e Uil – sapendo ascoltare le posizioni di chi rappresenta lavoratori e imprese.

La seconda proposta, quella del Movimento 5 S, ha finito via via col coincidere sempre più con la posizione della loro delegazione al governo, presentata come il completamento del decreto dignità e del reddito di cittadinanza. Ciò nell’intenzione di conferire al provvedimento la dimensione di un completamento strategico volto a tutelare i più poveri, precari e bisognosi.

Tale scelta è stata inizialmente presentata con spirito polemico verso le organizzazioni sindacali, come tesa a dare copertura a quella percentuale di lavoratori non ricompresa nei contratti nazionali. Una quota di lavoro quindi non rappresentata dai firmatari di quegli stessi contratti che valuta, secondo le fonti utilizzate a questo fine, i lavoratori non tutelati intorno al 12 % del totale. La cifra lorda indicata è quella di 9 euro orari e anche su questo valore è partita una polemica dovuta al fatto che molti dei contratti in vigore prevederebbero, secondo i proponenti ed il loro modo di calcolare il salario minimo dei contratti, una cifra oraria dei minimi inferiore a tale soglia.

Una lettura più attenta dell’articolato del testo del M5S permette di cogliere alcune sfaccettature che meritano di essere messe in evidenza. Queste sono essenzialmente riconducibili al tentativo di definire quali siano i contratti applicabili (quelli sottoscritti dalle organizzazioni sindacali più rappresentative) prima di indicare il salario orario minimo legale. Una misura che avrebbe la duplice funzione di applicarsi agli esclusi dai contratti nazionali di lavoro e di fungere da valore sotto il quale gli stessi contratti non possono scendere.

A conferma di questa attenzione al lavoro contrattuale delle parti sociali viene definito nei successivi articoli che, in presenza di più contratti, si applicano quelli sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative e che, al fine di misurarne la rappresentatività, per quelle dei lavoratori si adotterebbero i riferimenti del Testo Unico Confindustria-Sindacati del 2014, mentre, per quelle delle imprese, si adotterebbe solo il criterio associativo e quello degli occupati presso le imprese stesse.

La cornice costituzionale di questo disegno di legge sarebbe l’art. 36 della Costituzione mentre resterebbe esclusa qualsiasi applicazione dell’art.39. In sintesi, mentre non viene affrontato il tema annoso dell’erga omnes dei contratti, si propone una via salariale legale, con il paradosso che essa dovrebbe garantire l’applicazione dei Ccnl, al netto dei settori esclusi dalla contrattazione nazionale, per un valore che non può essere inferiore ai 9 euro.

Cosa hanno proposto invece le organizzazioni sindacali confederali con il documento unitario del gennaio 2016? Proprio quello che qui manca: dare un valore legale ai minimi contrattuali attraverso la certificazione della rappresentanza delle parti e quindi col recepimento dei contenuti del Testo unico. Per questa via, si potrebbe garantire, con un intervento legislativo di sostegno, l’applicazione dei Ccnl a tutti i lavoratori con valore erga omnes. Una posizione confederale, questa, ribadita peraltro nella memoria unitaria presentata all’audizione del 12 marzo 2019 in Senato.

Cosa aggiunge la posizione del Movimento 5S al quadro giurisprudenziale sull’art.36 della Costituzione? Potremmo dire nulla. Forse persino meno di quanto attestato dalla magistratura che da decenni conferma che la retribuzione dell’art.36 Cost, proporzionata e sufficiente, è quella dei contratti nazionali di lavoro, sia per la parte minima che per quella più complessiva, lasciando purtuttavia aperta e insoluta l’applicazione della parte normativa dei Ccnl.

Lo stesso riferimento al quadro europeo per giustificare la scelta del salario minimo non può guardare solo a quei paesi che hanno o non hanno il salario orario e mensile per legge senza guardare all’applicazione complessiva delle norme contrattuali a tutti i lavoratori e, quindi, all’erga omnes.

I due temi non sono separabili e la presenza del salario minimo legale in assenza dell’istituto dell’erga omnes dei contratti – e quindi la sua convivenza con i contratti di diritto comune che si applicano solo agli associati – avrebbe la possibile conseguenza di un indebolimento delle organizzazioni di rappresentanza e quindi un possibile mutamento dei nostri assetti democratici. Del resto quella della disintermediazione delle organizzazioni di rappresentanza è una scelta già operata da più parti che però non sembra aver portato il nostro paese fuori dai problemi seri che lo attanagliano.

Non si capisce quindi l’attenzione che la proposta del Movimento 5S ha riscontrato in settori del mondo giuridico vicini al sindacato.

Resta da affrontare ancora un altro aspetto, e cioè gli effetti sociali e redistributivi che questa misura comporterebbe o andrebbe a determinare. Qui la discussione ha bisogno di prendere confidenza con alcune statistiche recenti e alcuni commenti che l’hanno riguardata.

Prestiamo bene attenzione.

La situazione italiana è caratterizzata da una serie di paradossi e contraddizioni dal punto di vista dei redditi e del fisco che forse, nel momento in cui si motiva la proposta del salario minimo orario anche sul piano redistributivo, occorre tenere presenti.

Dagli ultimi dati Mef, Inps, Istat, risulta infatti che in Italia 12,9 milioni di persone non pagano l’Irpef perché non arrivano alla soglia sopra la quale l’imposta è dovuta. Anche le pensioni sono sotto la soglia di povertà in quanto gli assegni mensili sotto i 1000 euro rappresentano il 70% del totale e vengono incassati da 12,6 mln di persone, una piccola parte dei quali è titolare di più prestazioni.

Questi dati descrivono un paese di poveri.

L’Italia resta anche il paese dell’economia sommersa che è stimata intorno ai 210 miliardi, con una evasione fiscale che supera la meta di questa cifra, pari a 108 mld.

Se le sacche di povertà sono ampie e in crescita, fanno anche riflettere le adesioni al reddito di cittadinanza stimate ad oggi a 700 mila, a fronte di una platea potenzialmente interessata di 4,5 mln.

I numeri che non tornano sono confermati dai dati sulla ricchezza immobiliare e finanziaria pari a, rispettivamente, 6.300 mld e 4.400 mld.

Se la realtà sembrerebbe non coincidere con quella fotografata dalle statistiche, forse servirebbe una riflessione congiunta sulle scelte in materia fiscale ed assistenziale.

Basti ancora qualche esempio: se i dati dei sottoposti all’Irpef sono quelli disponibili, se vi sono dichiarazioni in calo per 5 mld, se cala del’1,3% l’imponibile Irpef, allora c’è da fermarsi a riflettere. Già dal 2017 è iniziata la fuga dall’Irpef, ancor prima della nuova flat tax.

Tra l’altro, va segnalata la crescita di chi aderisce al regime forfettario aumentata del 40,9% pari a 680 mila, a cui vanno aggiunti quelli rimasti nel regime dei minimi con 1,5 mln complessivi.

A questo dato va aggiunta da quest’anno la possibile grande fuga dall’Irpef per effetto dell’ampliamento della soglia dei ricavi o compensi portata a 65 mila euro.

Insomma il governo non può predicare bene e razzolare male. Non può cioè da un lato dire di volersi occupare dei più deboli e, dall’altro, ampliare la fuga dall’Irpef e dalla sua progressività senza leggere la situazione italiana in tutta la sua articolazione e scegliendo i temi che risultano funzionali e strumentali solamente alle politiche decise a freddo.

Il punto riguarda anche noi, che abbiamo una storia e una posizione chiara sul tema del salario e del salario orario minimo legale, e proprio in virtù di questa non possiamo isolare questa discussione dalla realtà dei dati economici, rinchiudendola negli aspetti contrattuali o giuridici, per quanto importanti.

Le posizioni unitarie sul salario minimo legale presentate in audizione al Senato devono entrare in maniera più forte dentro le proposte confederali già definite e sostenute con la manifestazione del 9 febbraio. Devono cioè essere sempre più presenti nella discussione degli esecutivi unitari del 10 aprile, così come nelle mobilitazioni annunciate, a partire da quella sul Mezzogiorno.

Dobbiamo rendere ancora più chiaro che le nostre scelte contrattuali e salariali sono parte integrante della battaglia sindacale unitaria per risollevare il nostro paese sul piano economico e dell’occupazione. Perché ciò avvenga occorre un cambiamento reale delle politiche economiche e sociali del governo. A tal fine, le proposte e il terreno culturale avanzato dal sindacato confederale unitario, in generale e su salari e contratti, risultano la base su cui provare a sancire un nuovo modello di confronto e di partecipazione per sconfiggere la disintermediazione e affermare una maggiore democrazia nel nostro Paese.   

*Vice Segretario Generale della CGIL 

 

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