Qual è la sua natura? Cerchiamo di approfondirlo, in questa intervista, con il filosofo Luigi Alici, Direttore della Scuola di Studi Superiori “Giacomo Leopardi”all’Università di Macerata.
Professore, incominciamo questa nostra conversazione cercando, nel limiti di una intervista, di definire il termine “populismo “. Il filosofo liberale Isaiah Berlin, in un convegno del 1967 della London School of Economics, parlava di un rischio, per gli studiosi, nel cercare una definizione “pura” di populismo. Il rischio, secondo Berlin, è quello di cadere nel “Cinderella complex” (complesso di Cenerentola), ovvero di non trovare nella realtà oggetti perfettamente corrispondenti alla teoria. Eppure bisogna cercare di liberarsi da questo “complesso “. Allora le chiedo cos’è il populismo: una ideologia, uno “stile” politico oppure una mentalità?
Berlin aveva ragione: nel caso del populismo non si trova mai il piede – un unico piede – che possa calzare perfettamente la scarpetta di Cenerentola. Egli stesso, del resto, seguito da altri studiosi, ha tentato di elaborare un’interessante “sintomatologia” del fenomeno, che qui non possiamo analizzare. Restando dentro questo lessico, si potrebbe dire che il populismo è un sintomo e nello stesso tempo una malattia: un sintomo, in quanto segnala un malessere generale della democrazia, che non riesce più a far fronte in termini politici alle sfide sociali della convivenza; una malattia, anzi una epidemia latente, che in condizioni propizie dilaga come una vera e propria pandemia (dal greco pan-demos, tutto il popolo). Nasce da qui il carattere equivoco del fenomeno, che intercetta una sorta di pulsione viscerale, sempre pronta ad esplodere in forme complesse e pervasive: quello che spesso insorge come un meccanismo reattivo di autodifesa, che sfrutta in modo parassitario paure, smarrimenti e risentimenti, può assumere ben presto forme opportunistiche e camaleontiche, fino a irrigidirsi in una vera e propria mistificazione ideologica. In questo senso, nessuno ne è per principio autoimmune: è il populismo in me, più che il populismo in sé, che io devo temere di più.
Quali sono le condizioni “strutturali” in cui si può sviluppare il populismo?
Se distinguiamo condizioni “congiunturali” e “strutturali”, fra queste ultime segnalerei soprattutto una concezione distorta del rapporto tra popolo e comunità, da un lato, e del rapporto tra politica e democrazia, dall’altro. Nel primo caso, il popolo è mitizzato come un vero e proprio organismo vivente, omogeneo, compattato in profondità da un legame vitale, immediato, che si traduce in una deriva plebiscitaria, alimentando un immaginario collettivo in cui contano solo i collanti identitari “caldi” di tipo emozionale. La comunità è sempre pura, il nemico è solo esterno. A questo primitivismo comunitario corrisponde, sul piano politico, una strisciante delegittimazione istituzionale e un appello ambiguo a una “democrazia alternativa”: la cosiddetta antipolitica nasce come una reazione di rigetto nei confronti di un parlamentarismo ritenuto folcloristico e inconcludente, all’ombra del quale sarebbe entrato in stallo il meccanismo fisiologico della rappresentanza e si sarebbero consolidate elitarie rendite di posizione. Ma la denuncia della democrazia tradita può degenerare in un tradimento ancora peggiore, che si manifesta nella retorica del nemico, nella celebrazione di una comunità chiusa, in atteggiamenti antimoderni di isolazionismo e soprattutto nel rifiuto della politica come articolazione e mediazione delle differenze. Prima o poi sorgerà un “uomo della provvidenza”, capace di intercettare queste spinte populiste, presentandosi come colui che parla direttamente alla “pancia” del popolo, senza alcuna fastidiosa intermediazione. Come ha dichiarato Trump, appena insediato: “Ora il potere torna al popolo”.
Quali sono gli “strumenti” di diffusione del populismo?
Ci sono anche fattori “congiunturali”, che offrono condizioni favorevoli per la crescita rapida dei fenomeni populisti: in passato, possono essere stati fattori di drammatica conflittualità interna (come negli Stati Uniti la guerra di secessione) o di grave crisi economica (come negli anni Trenta), o un mix di povertà endemica, instabilità politica e tentazioni autoritarie (come nei paesi sudamericani). Nel nostro tempo, gli effetti della recente crisi economica sono stati esasperati da una serie di gravi fenomeni concomitanti, che si chiamano globalizzazione, corruzione, immigrazione, paralisi dei grandi organismi rappresentativi, dall’Onu all’Europa.
In tutti questi casi, il populismo è un “parassita dell’antipolitica”, che può crescere come un vero “partito trasversale”: nelle culture politiche di destra tende ad assumere un volto corporativo e autoritario; in alcuni regimi militari celebra ordine e gerarchia; a sinistra si nasconde spesso dietro le bandiere dell’egualitarismo e del radicalismo rivoluzionario; in ambito socialista può assumere forme etnonazionaliste; quando colonizza alcune culture cristiane, alimenta forme identitarie di reazione antimoderna, usandone la simbologia religiosa e la domanda salvifica, ma di fatto trasformandola in una forma di neopaganesimo idolatrico.
Si parla molto di democrazia della Rete (Casaleggio-Grilllo). A vedere certe vicende dei 5Stelle, Genova, si usa la Rete e poi si fa tutto il contrario della decisione della Rete. Insomma la “democrazia” della Rete è una menzogna?
Il fenomeno del M5S è troppo recente e ancora in fieri; manca un minimo di distanza storica, per poter esprimere una valutazione ponderata e non ideologica. La sua nascita, tuttavia, contiene in sé alcuni germi populisti: la divisione manichea tra Noi e Loro, senza sfumature o mezze misure, che ha legittimato il M5S come alternativa radicale al sistema dei partiti tradizionali, contrassegnata da forme di purismo (quasi un rifiuto di contaminarsi…) che, già ora, cominciano a scolorire; il leader carismatico che, a dispetto di alcuni slogan (“Uno vale uno”), di fatto incarna, gestisce e protegge l’anima profonda del movimento, promettendo risposte radicali e finalmente risolutive ai problemi di sempre; la rete come vera e propria “terra promessa”, quasi un luogo salvifico che consente di bypassare la fatica (e la problematicità) della elaborazione politica, sostituendo l’immediatezza alla mediazione. “Sta nascendo una comunità”: disse il leader del movimento, a margine della grande manifestazione di Roma del 2013; tuttavia, di recente, quando il sondaggio in rete per le elezioni comunali di Genova ha dato un risultato sgradito, lo stesso Grillo ha giustificato l’esclusione in ultima analisi con queste parole: “Fidatevi di me”. Un atteggiamento, questo, inequivocabilmente populista. Il vero populista non riesce ad accettare queste parole: “È la democrazia, bellezza!”.
Parliamo della visione di società del “populismo”. L’esempio dei muri ungheresi e di Trump sono eclatanti, c’è un primitivismo pericoloso in questo. Le comunità “pure” nella storia politica europea hanno combinato disastri e tragedie enormi. E’ così Professore?
Il populismo intende il popolo come un organismo indifferenziato. Per questo teme le differenze e, non avendo gli strumenti per articolarle, s’illude di proteggere la propria purezza con strumenti peggio che primitivi. Anche perché un muro di missili non è come un muro di pietre: tecnologicamente e culturalmente, mortifica l’intelligenza anziché promuoverla, e spesso trasforma la difesa in aggressione. L’incapacità di distinguere fra un “noi” esclusivo, quasi sempre identificato in termini nazionalisti (o “sovranisti” che dir si voglia), e un “noi” inclusivo, che vede in ogni muro una porta, è la madre di tutti i conflitti. Anche Hannah Arendt ci ha ricordato che la pluralità umana, intesa come “la paradossale pluralità di esseri unici”, è l’essenza stessa della condizione umana e di ogni autentica vita politica. La responsabilità dell’uomo politico si misura dalla sua capacità di governare le differenze, non di cavalcare la paura.
A guardare la “fenomenologia” politica italiana c’è un senso di delusione forte nei confronti della classe politica. E questo senso di delusione esprime anche un desiderio di autenticità. Ovvero di credibilità. Ma c’è anche il rovescio della medaglia: che il desiderio di autenticità si trasformi in una rabbia “villana” senza progetto per cui la soluzione autoritaria (che ha molte sfaccettature) è l’unica possibile. Non vede questo rischio in Italia?
Il rischio esiste ed è concreto. Esso nasce – credo – dalla riduzione dei luoghi di elaborazione e progettualità, cui corrisponde fatalmente un deficit di partecipazione, che non può essere subappaltata alla rete. L’antipolitica non è una risposta alla crisi della politica. Nessuno, arrivando con una patologia acuta in un Pronto soccorso, chiederebbe di farsi curare da un operatore che non sia un medico, perché l’ospedale non funziona: eppure, nella precaria situazione politica italiana, non essere un politico – e nemmeno un sincero democratico – sta diventando paradossalmente un requisito vincente! Come ho scritto in un mio libro (I cattolici e il paese. Provocazioni per la politica, 2013), il “tempo lungo” della semina, più che il “tempo corto” del raccolto, è ciò di cui oggi la politica ha più bisogno. Per questo dobbiamo restituire alla scuola quella centralità strategica che le compete, come agenzia formativa dove si acquistano senso critico e senso storico, indispensabili per contrastare il mito dell’immediatezza e la seduzione delle scorciatoie, e dove s’apprende il tirocinio lento della partecipazione e la fatica straordinaria e benedetta della progettualità.
Giunti a questo punto dell’intervista bisogna lanciare un messaggio “ricostruttivo”. Allora vengono alla mente i grandi maestri del personalismo comunitario degli anni 30 del secolo scorso, Mounier in primis. Ecco su quali basi ripartire per ricostruire?
In effetti la stagione personalista ha prodotto in questo campo i suoi risultati migliori. Due grandi opere di Emmanuel Mounier, in particolare, meritano di essere ricordate: Rivoluzione personalista e comunitaria (1935) e Manifesto al servizio del personalismo (1936). Sullo sfondo è la crisi del ’29, l’affermarsi del nazionalsocialismo in Germania e delle tentazioni nazionaliste che avrebbero condotto a un altro conflitto mondiale. Mounier, in particolare, denuncia il pericolo di una “società di massa” che può riscattarsi nella “mistica” del capo carismatico, in cui una maggioranza silenziosa può incarnarsi ciecamente, come una sorta di coscienza collettiva personificata. Denuncia altresì il pericolo di una “società vitale”, costituita da un legame diretto, quasi viscerale, tra compagni di avventura, cementati da comuni esperienze e comuni interessi; in queste comunità effimere e superficiali, gli egoismi corporativi prendono il posto del bene comune e la dignità della persona naufraga nel culto della personalità del capo. Ma prima ancora, anche se in un contesto non propriamente personalista, merita di essere ricordata la grande opera di Henry Bergson, Le due fonti della morale e delle religione (1932), in cui viene messa a fuoco la differenza fondamentale fra società chiusa e società aperta: la prima è frutto di una regressione a uno stadio istintuale e quasi biologico, che tende sempre a compattarsi contro un nemico, in quanto manca di un’autentica apertura all’idea universale di umanità. Parole profetiche e inascoltate, proprio come il suo impegno per la pace nell’ambito dell’Assemblea delle Nazioni. Ci vorrà il bagno di sangue della seconda guerra mondiale per far aprire gli occhi sul pericolo mortale del populismo. È il caso di ricordarcene anche oggi.
Dal sito: http://confini.blog.rainews.it/2017/04/18/venti-di-populismo-il-miraggio-dellantipolitica-intervista-a-luigi-alici/