L’industria europea deve cambiare la sua struttura. Macchinari, aerospazio, difesa e software sono i settori chiave. Si deve accelerare e smettere di perdere tempo». Daniel Gros, direttore dell Institute for European policymking dell’Università Bocconi, analizza la crisi industriale che sta vivendo il Vecchio continente: «Bisognava investire di più in passato ma c’è ancora spazio per competere, specie puntando sulla qualità invece che sulla quantità».
La manifattura europea, in particolare in Germania, è in difficoltà.
«Il punto chiave oggi non è la componente energetica. Questo era vero nel 2022 e in buona parte nel 2023, ma oramai siamo tornati a livelli accettabili. Non quelli precrisi, ovviamente. Sono più alti, ma comunque gestibili. Le imprese già avevano scontato questa situazione. Non si tratta di un fattore aggiuntivo, quindi».
Come mai?
«Alcune industrie tradizionali adesso hanno nuova concorrenza globale. E vale anche per gli Usa. Le vere vittime di questa situazione sono le cosiddette “mid-tech”».
Cosa fare?
«La struttura industriale europea deve cambiare. Il caso più evidente è quello del settore automobilistico. Da un lato si è in mezzo al guado, fra il vecchio modello imprenditoriale legato al motore a scoppio e quello nuovo dettato dall’elettrico. Il quale richiede meno manodopera e meno pezzi di ricambio. I costruttori europei si sono preparati per vendere moltissime vetture elettriche senza incontrare il favore dei consumatori».
Perché?
«Non tanto per la presenza delle auto cinesi a basso costo, ma perché i clienti si attendono che la stessa vettura costi di meno fra un anno. E questo vale anche per altri segmenti dell’industria europea».
Si rimandano gli acquisti.
«Non solo. A incidere sono anche gli incentivi alle vendite. Quando sono stati tolti, l’effetto è stato immediato».
C’è solo questo?
«No. L’industria europea, in particolar modo quella italiana e quella tedesca, dipendono molto dalla Cina. Il rallentamento di Pechino è stato netto e non ne si conosce a pieno la profondità. A patire di più sono componentistica, macchinari e lusso».
Quanto è grave il ritardo?
«Se prendiamo l’industria europea al netto di software e information technology, I’Ue è allo stesso livello degli Stati Uniti. E più o meno Usa ed Europa hanno fatto lo stesso percorso per circa 25 anni. La differenza è che gli Usa hanno sviluppato una seconda sorgente industriale, il tech»
Perché non è stato possibile in Europa?
«le nostre industrie hanno preferito investire nei settori che già conoscevano. Si sono fatte piccole innovazioni, ma non si è rischiato come si è fatto altrove».
Su quali i settori puntare?
«Tutti quelli in cui non ci sono economie di scala. Dove si tratta di produzioni di massa, la Cina avrà sempre la meglio.
Noi possiamo vincere sui macchinari, come quelli per produrre chip e semiconduttori».
Poi?
«L’aerospazio, gli armamenti e il settore della Difesa. Ma anche il software per le imprese, come il backoffice».
Molti osservatori invocano campioni paneuropei dell’industria, citando Airbus.
Può funzionare?
«Non avrebbe nemmeno senso provarci. Tesla non è nata attraverso un programma governativo o una politica industriale nazionale, no? Airbus è un caso a sé stante»
Quindi?
«La priorità è avere un ecosistema di startup europee in grado di crescere e competere. Quindi con capitali privati di rischio e con una burocrazia favorevole. La velocità è la chiave di tutto».
*da La Stampa, 08/11/2024