A quanti mi hanno chiesto in questi giorni di unirmi a chi vuole fare la predica alla CISL, ho ricordato che Carniti ha sempre seguito la regola del parroco che va via dalla sua parrocchia: non deve tornare neanche a confessare. Questo non mi ha impedito di dire la mia sulle prospettive del sindacalismo confederale nel suo insieme. E così farò ora.
Dopo lo sciopero generale indetto da CGIL e UIL il 29 novembre, sarebbe auspicabile una riflessione senza pregiudizi sul ruolo del sindacato confederale nel nostro Paese. Per almeno tre motivi.
Il primo riguarda l’efficacia della sua azione. Divisi non si vince. Al meglio ci si può accontentare. Stando alle dichiarazioni della CISL, che pure non ha reputato necessaria la mobilitazione, questa legge di bilancio non soddisfa tutte le sue richieste. Esprime consenso per alcuni contenuti, ma l’elenco delle riserve per le quali fa appello al Parlamento per trovare risposta (sapendo già che è impresa pressochè impossibile) non è meno lungo e con molte sintonie di quello di CGIL e UIL.
Invece, queste ultime hanno ritenuto che non bastava dichiarare di essere scontente sia del trattamento ricevuto dal Governo che volutamente ha convocato le parti sociali a ridosso della presentazione dell’articolato di legge al Parlamento, sia del merito delle soluzioni in esso contenuto. Con lo sciopero, CGIL e UIL hanno sancito, con un gesto di forza, la loro riluttanza a dare credito al Governo, facendo volare parole grosse, proporzionate – a loro parere – allo stato di tensione esistente tra i lavoratori e le lavoratrici.
Con la distinzione di comportamento, la CISL è la più esposta al giudizio del tempo, che è sempre galantuomo. Non tanto a riguardo dello sciopero, circa il quale è stucchevole che da parte del Governo si giochi a dare i numeri della partecipazione all’astensione dei lavoratori e delle lavoratrici. Né vale la pena contrapporre a questa contabilità, le piazze piene. Tanto nessuno può pensare di trarre vantaggi di rappresentanza sia verso chi ha scioperato, sia tra quelli che non hanno aderito allo sciopero.
Ciò che varrà in prospettiva, è la qualità delle risposte che la legge di bilancio offre ai disagi sociali, alle insofferenze verso le disuguaglianze, ai bisogni dei penultimi e degli ultimi. Premesso che l’Unione Europea ha espresso un giudizio positivo sulla manovra di bilancio, in base alle risultanze finali tra il dare e l’avere, il problema socialmente rilevante è su chi è cascato l’onere più gravoso. Basta dare un’occhiata al fisco e alla sanità per capire che la quadratura del cerchio per far bella figura in Europa è stata chiesta a chi ha un reddito tra i 30.000 euro e i 50.000 euro e ai malati, senza escludere anziani e bambini.
La deriva privatistica che riguarda la sanità è sancita dalla posta di bilancio – tra l’altro considerata da chi ne capisce, alquanto fiacca – per trasferire alle strutture cliniche, poliambulatoriali, ospedaliere fuori dallo schema pubblico, il compito di alleggerire le “liste di attesa”. Inoltre, il collasso di quel che resta di pubblico in questo settore è sottolineato dalla carenza di dottori e infermieri e dal ricorso alle assunzioni “à la carte” per tenere aperti i reparti. Rapidamente, avremo le Regioni con il cappello in mano per ottenere ulteriori finanziamenti per far fronte all’ordinaria amministrazione. Eppure, come ha dimostrato la vicenda Covid, di sanità pubblica, presente soprattutto nel territorio, c’è sempre un gran bisogno.
Ma per corrispondere all’esigenza di un vero diritto universale alla prevenzione e cura del proprio corpo, ci vogliono molti soldi freschi. E il nostro fisco non è in grado di raccoglierli. Anzi, si assiste ad una fuga dall’IRPEF di quote consistenti di lavoratori autonomi e professionisti, con la flat tax e i condoni espliciti e camuffati. Per chi la paga – una manciata di autonomi e professionisti e la totalità dei lavoratori dipendenti e pensionati – l’IRPEF è un guazzabuglio di soluzioni, man mano che si sono fatte modifiche ad un impianto non più corrispondente ai tempi. E’ vero che si è resa strutturale l’una tantum degli ultimi due anni, ma con effetti differenziati e sgradevoli tra retribuzione lorda e retribuzione netta comprese tra i 30.000 e i 40.000 euro, per tutti quelli che avranno aumenti salariali nei prossimi anni (vedere M. Benetti in questo numero della newsletter e Ruggiero Paladini su Etica ed Economia 01/12/2024).
Una brutta gatta da pelare per sindacalisti che si sono dati da fare, contrattando e scioperando, per ottenere salari più dignitosi e che invece scopriranno di aver fatto da gabelliere per uno Stato che non riesce neanche a far scemare la montagna di evasione ed elusione che nessun condono riuscirà mai a radere al suolo.
L’IRPEF va completamente ripensata, soprattutto perché non assicura più il rispetto del criterio costituzionale della progressività del prelievo. Essa, non il Paese, va rivoltata come un calzino, unificando le forme e i livelli del prelievo, facendo a meno della flat tax e introducendo forti incentivi al conflitto d’interessi (almeno sulle spese per la manutenzione della casa, per l’educazione in ogni grado formativo e anche a carattere permanente, per la prevenzione sanitaria che consentirebbe la riduzione di cure ed assistenza).
Il terzo motivo riguarda l’identità del sindacalismo confederale. O si presenta unito di fronte ai lavoratori ed alle controparti private e pubbliche oppure dovrà accettare che la concorrenza diventi sempre più ossessiva, che la frammentazione della rappresentanza sia ingombrante e che crescono le convenienze economiche e politiche a ridimensionare i portatori di una visione collettiva e solidaristica, aprendo così i varchi alle spinte corporative e individualistiche.
Al tavolo dell’ultimo incontro tra sindacati e Governo non c’erano soltanto CGIL, CISL e UIL. Ce ne erano altre quattro, invitate per fare uno sgarbo alle tre storiche sigle ma anche perché cresce la loro capacità di mobilitazione. Altro indizio. Scrive Lucia Valente, professoressa di diritto del lavoro alla Sapienza in un articolo riportato in questa newsletter: “Il 19 settembre, alla presenza della ministra del Lavoro Marina Calderone, è stato presentato il nuovo contratto collettivo nazionale intersettoriale di lavoro (Ccnil) stipulato a marzo. Una novità assoluta nel panorama delle relazioni industriali italiane, che mira in prospettiva a garantire una omogeneità di trattamento giuridico per tutti i lavoratori del settore manifatturiero. È firmato da due sigle: Confsal (Confederazioni sindacati autonomi lavoratori rappresentata al Cnel da due membri) e Confimi, che autocertifica di rappresentare 45 mila imprese”. Consiglio vivamente di leggere tutto l’articolo.
Si potrà contrastare questa strisciante modifica sostanziale delle relazioni contrattuali, continuando a far prevale ciò che divide tra le tre confederazioni e non ciò che potrebbe unire? Sinceramente credo di no. Si finirebbe con il perdere autonomia d’identità, scivolando verso l’appoggio, dato e ricevuto, agli schieramenti politici. Ma anche riducendo la partecipazione alla vita interna delle organizzazioni da parte del popolo del lavoro. In altre parole, prolifereranno le sigle sindacali ma diminuiranno le simpatie di chi lavora. Per questo ritengo che l’unità sindacale non è soltanto un bene per la rappresentanza dei lavoratori e delle lavoratrici, ma anche l’ultima freccia nella faretra di tre storiche e nobili sigle che non si possono confondere con una marea di cespugli.