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Dalle pensioni della discordia ad una nuova uguaglianza

Il tema delle pensioni non ha pace. Ovviamente, ora, tra IMU e IVA, tutto passa in secondo ordine. Ma quel tema, carsicamente, si intreccia sempre di più con la questione occupazionale di questo Paese. La riforma pensionistica del Governo Monti avrebbe creato problemi seri in una situazione congiunturale positiva. Con un Pil in decrescita dal 2008 e una disoccupazione crescente, specie giovanile, quella riforma si è rivelata una bomba sociale. Da un lato, il numero degli esodati non scema, nonostante finestre e finestrelle aperte, con diversi provvedimenti, per fare uscire dall’incertezza quote sempre piccole rispetto alla quantità di coloro che non hanno né lavoro, né pensione. Dall’altro, per il balzo in avanti dei nuovi limiti posti per andare in pensione, si calcola che 100.000 giovani non hanno potuto riempire il turn-over tradizionale.

E’ evidente che, di fronte a questi effetti, non si possono lasciare le cose tutte al loro posto, come se niente fosse. Gli strumenti di tutela che conosciamo, andavano bene per cicli negativi di corto respiro e in presenza di un sistema di welfare generoso, a partire dalle pensioni (si pensi a quelle baby e ai prepensionamenti). Ma quando la crisi diventa “lunga” e lo Stato sociale più “risicato”, le politiche passive (ammortizzatori sociali di vario tipo), se non si coniugano con politiche attive del mercato del lavoro, diventano sempre più inadeguate, asfittiche, improduttive. Non c’è consapevolezza dell’urgenza  di organizzare questo intreccio. Dal 2008 ad oggi, sono stati spesi circa 90 miliardi di euro per le politiche passive (varie forme di CIG, mobilità, indennità di disoccupazione). Siamo proprio certi che sono stati spesi bene? Che abbiano aiutato la gente a disegnare il proprio futuro e non solo la più immediata sopravvivenza?

Le proposte, per un’alternativa al prolungamento dello status quo, non mancano, ma sono marginalizzate. Leggete, in questo numero della Newsletter, Feltrin e  Valentini, oltre che Gandini. Assumendo come base la rotonda descrizione che fa Marinelli della questione degli esodati, le indicazioni che i due articoli ci danno sono una sensata rimodulazione delle rigidità esistenti, verso un riuso flessibile delle risorse e degli strumenti previdenziali (pensioni e ammortizzatori sociali) oltre che delle politiche formative. Il fondamento è la centralità della solidarietà tra giovani e anziani, contro la vulgata prevalente e coltivata a lungo della soddisfazione immediata che scarica i problemi sulle future generazioni. Quella solidarietà si può fare, senza pesare sulle casse dello Stato, ma utilizzando in modo diverso e articolato le risorse esistenti. Certo, le misure da adottare non sono aggiuntive a quelle esistenti, ma almeno in parte sostitutive a quelle in corso. In definitiva, si tratta di fare scelte consapevoli, rompere consolidate mentalità assistenziali, elasticizzare ciò che per un lungo periodo si è vissuto come rigidità, semmai considerate egualitarie.

E queste considerazioni aprono un altro capitolo, quello della valenza dei diritti acquisiti. Ancora una volta sono le pensioni a tenere banco, anche se nella crisi è tema sensibile su tanti fronti. Quando le vacche erano grasse, il corporativismo, che nella cultura lavoristica non ha mai smesso di infiltrarsi, ha prodotto una fitta casistica  di eccezioni alle regole generali, specie nell’area della Pubblica Amministrazione, specie nei piani alti della burocrazia e della magistratura. Ma in questo momento, le disuguaglianze sono sempre meno tollerate. Le pensioni d’oro non sono un fenomeno del nuovo secolo. Sono state incubate nella seconda metà del secolo passato ed ora si materializzano come uno schiaffo alla miseria.

Ma ad esse non si possono dare risposte emotive o poco pensate. Il colpo di spugna non esiste in diritto e quindi anche nella pratica. Fonzo, nel suo articolo, ce lo spiega con pazienza. La Corte Costituzionale non ha fornito nessun imprimatur alle super pensioni; semmai ha calcato la mano sulla “disattenzione” del legislatore che, per evitare di tassare i redditi alti, ha ripiegato sul contributo temporaneo di solidarietà, soltanto in relazione alle pensioni.

Politicamente, la questione resta in piedi tutta. Il confronto con la Germania è illuminante (articolo di Venditti). Se lì la questione delle pensioni d’oro neanche si pone, per il semplice motivo che non ce n’è traccia, è logica conseguenza di un sistema pensionistico nell’insieme parsimonioso e nello specifico delle posizioni più elevate, rigorosamente plafonate in alto. Un altro pianeta? No, perché è più Europa quella situazione che la nostra. E quindi una revisione della concezione dei diritti acquisiti è decisamente più progressista e moderna che la sua difesa a oltranza. Non fosse altro, perché ciò che poteva essere considerato un diritto sacrosanto ieri, oggi – per il modo pratico della sua gestione – può essere meglio collocato nel campo dei privilegi, se non corretto in tempo e con efficacia.  Boeri e Nannicini da una parte e Ichino dall’altra, nei loro scritti, si muovono in questa direzione con le loro proposte ragionevoli, che non affamano nessuno degli aventi diritto ma evitano almeno di far gridare allo scandalo.

In definitiva, portare a compimento le tante questioni aperte attorno al tema delle pensioni, significa operare concretamente per ridurre le disuguaglianze che si sono accumulate nei decenni passati. Non solo per ragioni etiche, ma per assicurare la coesione sociale e il benessere diffuso. “La tesi secondo cui, da un certo punto in poi, la disuguaglianza diventerebbe inefficiente, anche solo perché  genera tensioni sociali che disturbano l’attività economica, entrerà in gioco prima o poi” (François Bourguignon, La globalizzazione della disuguaglianza, Codice edizioni, 2013). Aderendo a questa previsione ottimistica, dico “meglio prima”.

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