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De Rita :«A Roma e nel Sud torna l’economia sommersa» *

Gli slogan, gli annunci, le sintesi superficiali non gli sono mai piaciute. Per questo quando gli si chiede cosa vuol dire, in concreto, che l’Italia può ripartire solo dal Mezzogiorno, è tranchant: «Niente», risponde di getto Giuseppe De Rita. già fondatore e presidente del Censis, sociologo acuto e profondo conoscitore del Mezzogiorno al quale ha dedicato 50 anni della sua attività. Non a caso si intitola «Il lungo Mezzogiorno” (edito da Laterza) il suo ultimo libro, uscito in questi giorni, una antologia di saggi e articoli lunga appunto mezzo secolo, promossa e presentata ieri on line dalla Fondazione con il Sud di Carlo Borgomeo che di De Rita è da sempre uno degli amici e degli interlocutori più stretti e fidati.

 

Che vuol dire «niente»? Non è il Mezzogiorno il punto obbligato per far ripartire il Paese?

«È una bella frase, per carità. Se si facessero grossi investimenti interni ed esteri nel Mezzogiorno, se si rilanciassero i consumi, se si puntasse seriamente su ferrovie, autostrade ed aeroporti, allora si che l’attrattività di quest’area sarebbe finalmente credibile. E dimostrerebbe altresi che era giusta la cultura della grande spesa dei primi dieci anni della Cassa per il Mezzogiorno. E parla uno che c’era in quel tempo: sappiamo ormai tutti che dietro i milÎe miliardi di lire che la Banca mondiale e la Banca d’Italia misero a disposizione della Cassa, c’era Î’idea di un grande sforzo, di una robusta spinta che avrebbe poi trascinato con sé anche altri comportamenti. Non funzionò allora, non vedo perché dovrebbe funzionare adesso».

 

Lei sostiene che è il sociale che deve trainare l’economia, specie al Sud, e non il contrario. Vale anche in tempi di pandemia?

«La pandemia non c’entra, è un incidente nella storia del Paese che il governo ha affrontato con interventi dall’alto e non specifici per questa o quell’area, perché non poteva fare diversamente. Altro è ragionare, come ho fatto in questi anni, sul valore dello sviluppo dal basso nel Mezzogiorno. Che poi, questa parola che anche io uso, come per il libro, non è giusta: il Mezzogiorno resta a macchia di leopardo, e io me ne sono innamorato proprio perché non ce n’è uno soÎo ma cento realtà diverse tra di loro. Alcune repellenti, altre bellissime».

 

Fa bene allora la Svimez a sollecitare infrastrutture sociali come priorità per il Sud?

«Bisogna capire cosa vuol dire infrastrutture sociali. La scuola, la ricerca, l’università per me lo sono ma non va dimenticato che nel Mezzogiorno è sempre prevalsa la strumentalizzazione dei percorsi, delle strutture, degli interventi. Dalla scuola alla Cassa, niente è stato escluso da questo atteggiamento».

 

Si spieghi meglio, professore. 

«Pensi alla scuola: era nata nel Sud per combattere l’analfabetismo, alla fine il maggior risultato è stato l’impiego dei professori, è diventata cioè la grande valvola di sicurezza del ceto medio meridionale. Ancora oggi che c’è la pandemia si dice che la scuola riaprirà solo se ci saranno 100mila nuovi insegnanti, mi vengono i brividi a pensarci».

 

Ma da dove bisognerebbe ripartire?

«IÎ punto cruciale è che va cambiata la propensione a strumentalizzare l’intervento o almeno a far sì che sia legato ad una modifica delle idee, del pensiero, degli atteggiamenti dei meridionali. E questo può avvenire solo con un lavoro sociale e culturale sul territorio».

 

C’entra poco o nulla, mi pare, con misure come il Reddito di cittadinanza.

«lo non l’ho mai amato e non so neppure se riuscirà a portare i beneficiari verso un impiego, come era previsto nella seconda fase. Il Reddito di sicuro non modifica o trasforma il teatro sociale, è un modo di rassomigliarvi. Diceva Andreotti che la politica non deve guidare la società verso il nuovo, deve solo rassomigliare alla società. Il Reddito è lo stesso, rassomiglia a quella parte di società che di nuovo non vuol sentir parlare. Non è e non sarà mai uno strumento per il Mezzogiorno, anzi sarà contro eventuali logiche di sviluppo».

 

La stagione dei Patti territoriali, dello sviluppo dal basso, che lei come presidente Cnel lanciò, è riproponibile oggi?

«I Patti territoriali nacquero negli anni Novanta con un entusiasmo incredibile: alla firma venivano tutti, per quello del Cilento c’era persino iỈ vescovo e lo firmò anche lui. È stato un delitto avere spento quella stagione: fu una fiammata di partecipazione dal basso che forse avrebbe dato molti più frutti dei 20 anni successivi».

 

Le responsabilità sono della politica?

«Per la verità non solo al Sud ma a tutta l’Italia manca una classe dirigente che sia tecnica e politica al tempo stesso. La classe dirigente del secondo dopoguerra, che io ho frequentato, aveva una tensione profonda, valeva per Menichella e per Saraceno, per Einaudi e per Sebregondi. Non eravamo dei tecnici e nemmeno dei politici ma figure ibride che si assumevano le proprie responsabilità. Oggi la divaricazione tra tecnica e politica è la vera malattia della classe dirigente italiana».

 

 

 

ll Mezzogiorno può andare incontro a un autunno caldissimo sul piano sociale?

«Non faccio previsioni. La mia idea è che non ci saranno tensioni sociali, al Sud come al Nord. Nei momenti difficili vince l’economia sommersa, un tipo di economia senza tasse, contratti e incentivi ma con il contante. Fu fondamentale negli anni Sessanta e Settanta perché in fondo tutta la grande stagione industriale nacque su una base di profonda economia sommersa. Prato, Valenza Po, Fabriano lo erano, per intenderci. Sta accadendo anche oggi a Roma come in tante città del Sud: il ritorno del contante è già visibile ed è il segno del ritorno di quel tipo di economia».

 

*Intervista apparsa sul Mattino, 10/06/2020

 

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