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Demografia e democrazia in un pianeta stretto

In due secoli la popolazione mondiale è passata da uno a più di sette miliardi, e se ne prevedono dieci nel 2050. Una rivoluzione demografica molto asimmetrica: il boom ora è nei paesi poveri e soprattutto nell’Africa subsahariana. A colloquio con Massimo Livi Bacci che nel suo ultimo libro denuncia un’agenda internazionale dispersiva e poco credibile.

Nel romanzo Sottomissione, che ha fatto tanto discutere nei giorni della strage terroristica nella redazione di Charlie Hebdo a Parigi, Michel Houellebecq a un certo punto fa esprimere al suo protagonista – un professore universitario in crisi esistenziale e culturale – una certa nostalgia per l’ordine patriarcale, del quale in Occidente sopravviverebbe ormai ben poco: “… il patriarcato aveva il merito minimo di esistere, nel senso che in quanto sistema sociale perseverava nel proprio essere, c’erano famiglie che mettevano al mondo figli e riproducevano all’incirca lo stesso schema, e insomma funzionava; ora invece non ci sono abbastanza figli, quindi è finita”.

È finita” è una specie di sentenza di morte sulla società europea, figlia dei Lumi: il calo fortissimo nella capacità di riprodursi sarebbe il sintomo più evidente di una decadenza inarrestabile. A causa di questa sindrome autodistruttiva cadrà presto vittima della dominazione islamica, che nel romanzo francese – come ormai molti sanno – è immaginata in realtà quale una forza politica molto “moderata”, capace di allearsi con i socialisti per arrestare l’ascesa dell’estremismo lepenista e il clima di guerra civile strisciante che pervade il paese.

Il tema – fantasie letterarie a parte – non è stato assente nel dibattito pubblico sull’emergenza del terrorismo di matrice islamica da un lato e su quella delle ondate migratorie dall’altro. E rimanda però a una discussione ancora più generale sui destini di un mondo nel quale il problema demografico, di cui si parla molto meno di una volta e quasi mai in modo documentato e basato sulle realtà di fatto, è però ben lungi dall’essere risolto. Nei think-tank che si occupano degli assetti di potere globali, non a caso, le capacità demografiche dei vari paesi e delle aree regionali del mondo entrano a pieno titolo nella configurazione dei rapporti di forza e nelle previsioni dei possibili conflitti, insieme ai dati sull’economia, la forza militare, le risorse energetiche e altro ancora.

 

La complessità e il peso della questione demografica a livello globale sono affrontate nel nuovo libro Il pianeta stretto, Massimo Livi Bacci, professore di Demografia all’Università di Firenze e socio dell’Accademia dei Lincei, autore di numerosi volumi su questi temi. La tesi di fondo – in estrema sintesi – è che il dibattito e le politiche perseguite a livello internazionale sulla crescita demografica rischiano di passare da un eccessivo allarmismo nel passato a una pericolosa sottovalutazione attuale.

La terra – si dice in apertura – è cresciuta in popolazione di ben mille volte da quando, diecimila anni fa, era probabilmente abitata da circa dieci milioni di esseri umani: oggi si prevede che entro il prossimo mezzo secolo si raggiungeranno i dieci miliardi. Nel corso dei millenni questi numeri sono cresciuti, ma anche diminuiti (per esempio nell’Europa medievale colpita dalla peste, o nel corso della “Guerra dei trent’anni”). Il salto più impressionante si è verificato negli ultimi due secoli. Se all’inizio del XIX secolo si calcolava un miliardo di persone in tutto il mondo, questa cifra era raddoppiata nel 1927, è salita di nuovo del doppio, a quattro miliardi, nel 1974. Ed è cresciuta ancora fino a sette miliardi e oltre nel primo quindicennio del nuovo millennio.

Non si è trattato e non si tratta, però, di un processo omogeneo e lineare. La “rivoluzione demografica” ha investito prima il mondo più sviluppato (più ricchezza, scoperte scientifiche e migliore sanità contro le malattie, capacità di scelta sulla procreazione e sugli gli stili di vita via via sempre più consistente). All’inizio con il calo della mortalità, poi con un graduale riallineamento nella natalità che in molti paesi – oggi non più non solo occidentali, vedi il caso della Cina – misura un numero di figli per donna inferiore ai due che, con una speranza di vita di settant’anni, sono considerati approssimativamente necessari per mantenere l’equilibrio demografico.

 

Questa tendenza è quella che negli ultimi decenni ha “rassicurato” sui pericoli catastrofici dell’esplosione demografica. Tuttavia i paesi più poveri delle altre regioni del mondo sono stati investiti dalla “rivoluzione demografica” più tardi ma a ritmi più veloci e molto più amplificati. Se, per esempio, la popolazione della Svezia nel periodo della “transizione” dal boom al riequilibrio si è raddoppiata, quella più recente del Messico si è quintuplicata.

Le previsioni di ulteriori aumenti della popolazione mondiale – oggi stimata in 7,3 miliardi – diventano più incerte mano a mano che lo sguardo si spinge più in là nel tempo. Ma sembra abbastanza realistico pensare, sulla scorta delle analisi scientifiche correnti, che da qui al 2050, nei prossimi 35 anni, si arrivi a 9,7 miliardi. Il problema di come garantire la sopravvivenza, e magari una vita decente a più di due miliardi di “persone aggiuntive” è dunque di enorme rilievo.
Tanto più che le tendenze sono profondamente asimmetriche: si stima che quasi tutto l’aumento (98 per cento) avverrà nei paesi poveri e “in via di sviluppo”, e di questo ben la metà sarà concentrato nell’Africa subsahariana, mentre circa il 28 per cento nel subcontinente indiano. Molto “scottante” – come scrive Livi Bacci – è la situazione africana: nei paesi dell’area subsahariana gli attuali 962 milioni di abitanti sembrano destinati a più che raddoppiarsi, diventando due miliardi e 123 milioni.

In questa zona del mondo è ancora innescata la cosiddetta “trappola malthusiana”: lo sviluppo non decolla perché il ciclo tra povertà, malnutrizione, sopravvivenza precaria, ma alta fecondità e incremento della popolazione si autoalimenta in modo negativo. Mentre la media globale di figli per donna è oggi di 2,5, qui è ancora attestata a 5,1 figli per donna e stenta a diminuire (si prevede un calo al 3,1 nel 2050).

Ma la demografia segnala altri problemi rilevanti, se pure meno drammatici, anche per i paesi che appaiono destinati a un maggiore equilibrio, per esempio per l’enorme incremento della percentuale della popolazione anziana. Un fatto in sé positivo legato all’aumento notevole delle speranze di vita, ma che produce i ben noti problemi previdenziali e sanitari, con i riflessi per i costi aggiuntivi sui bilanci statali e gli equilibri economici, e nuovi modelli di vita quando sarà possibile comunemente la compresenza di fino a 4 generazioni diverse.

Infine, ma si tratta delle primarie emergenze planetarie appena affrontate alla conferenza di Parigi sull’ambiente, la crescita della popolazione mondiale significa più bisogni alimentari, energetici, economici, quindi più inquinamento, più consumo di territorio, maggiore crescita delle concentrazioni urbane, specialmente sulle coste dei continenti, già minacciate dagli effetti del riscaldamento globale. E maggiore pressione migratoria.

Ciò nonostante l’approccio di Livi Bacci è improntato a un ragionevole ottimismo. L’umanità – sostiene lo studioso – possiede già le conoscenze e la cultura per neutralizzare e smontare la “trappola malthusiana”. E già alcuni obiettivi che erano stati posti all’inizio del millennio, come la riduzione del numero delle persone in stato di “povertà estrema”, o la battaglia contro le epidemie a cominciare dall’AIDS, sono stati parzialmente raggiunti. Il punto è che servirebbero politiche sovranazionali molto più incisive e selettive per intaccare davvero lo scandalo di uno sviluppo “che ha moltiplicato per dieci le disponibilità economiche pro capite della popolazione mondiale, per sette la popolazione, e per due o tre il numero dei disgraziati”.

Anche la molto discussa enciclica sull’ambiente di papa Francesco è apprezzata da Livi Bacci per la radicalità dell’approccio e il ventaglio dei problemi economici, scientifici e sociali affrontati, ma – secondo il demografo – sottovaluta abbastanza macroscopicamente gli effetti del previsto aumento della popolazione, con le dinamiche che abbiamo brevemente richiamato. “Eppure la Chiesa – osserva – predica la “paternità, o genitorialità, responsabile”. E in più di un documento auspica l’avvento di una popolazione in equilibrio” (6). Con il professor Livi Bacci abbiamo approfondito alcuni degli aspetti di queste questioni così complesse.

Massimo Livi Bacci

Lei parla a un certo punto di quanto le dinamiche demografiche incidano in alcuni conflitti molto acuti oggi, come tra Israele e Palestina e in Siria, ma non solo. L’argomento è stato utilizzato anche per gli ipotizzabili sviluppi di uno scontro Islam – Europa dopo gli attentati di Parigi: è un tema fondato? E in che misura specifica le dinamiche demografiche possono interagire con l’emergenza terrorismo?
Il caso arabo-palestinese è quello più noto e clamoroso. Nonostante la buona espansione demografica della componente ebraica per l’alta natalità (alta relativamente al mondo occidentale) e la continua immigrazione, la componente arabo-palestinese cresce molto più rapidamente di quella ebraica. In una prospettiva che abbraccia l’intero territorio della Palestina sotto mandato britannico, la componente araba (la popolazione degli attuali territori di Gaza e di Cisgiordania, più un quinto abbondante della popolazione dello Stato d’Israele) supererebbe quella ebraica verso il 2020 e accrescerebbe il suo vantaggio in seguito. Una soluzione pacifica della questione – qualsiasi siano i contorni di una eventuale intesa, che preveda uno, due o tre stati, scambi di popolazione o scambi di territori – avrà al suo centro la questione demografica.

Nel Libano, la compresenza di cristiani e musulmani ha portato a un assetto costituzionale paritario tra i due gruppi, nonostante il variare del rispettivo peso demografico, fino alla metà del secolo scorso favorevole ai cristiani, e adesso nettamente ribaltato a favore dei musulmani. La crescita demografica differenziale dei vari gruppi etnico-religiosi rende ancor più complessa la tragedia siriana, mentre la maggiore fecondità e crescita dei curdi è motivo di persistenti e sotterranee preoccupazioni in Turchia. Tuttavia la questione demografica esercita la sua influenza sul lungo periodo, per la gradualità con cui si verificano i cambiamenti, e non credo sia un fattore rilevante e riconoscibile nel diffondersi del terrorismo.

Quanto alla temuta invasione “islamica” dell’Europa, le cifre parlano di una collettività raddoppiata di numero tra il 1990 e il 2010, da 10,4 milioni nel 1990 a 19,1 nel 2010. Questa crescita però è destinata a rallentarsi, in conseguenza della crisi economica, di politiche immigratorie più restrittive, di una minore crescita “naturale” delle collettività immigrate che adottano comportamenti riproduttivi sempre più simili a quelli delle popolazioni ospitanti. 

A proposito degli obiettivi per il futuro, dopo le scadenze internazionali che erano previste entro la fine del 2015, le sue previsioni negative sulla nuova agenda (troppi obiettivi, poche priorità, rimozione dell’emergenza demografica) sono state confermate?
Confermate appieno! Lo scorso 26 di Settembre, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha solennemente approvato la cosiddetta “Agenda 2030”, etichettata con l’impegnativo titolo “Trasformare il nostro mondo: l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile”. Tale Agenda si concreta nella formulazione di 17 “Obbiettivi per lo Sviluppo Sostenibile” (OSS) da raggiungersi entro il 2030, articolati in ben 169 “traguardi” e monitorati da 304 “indicatori”. L’Agenda è il risultato di un accordo informale raggiunto per consenso in seno alle Nazioni Unite nell’agosto di quest’anno, e presentato all’Assemblea Generale per l’approvazione e per l’adozione formale, dopo un intenso lavoro triennale di consultazione con le istituzioni internazionali, i governi e le organizzazioni della società civile. A questa Agenda dovrebbe ispirarsi, o attenersi, l’azione degli Stati e delle Istituzioni nel prossimo quindicennio. Naturalmente gli Obbiettivi dell’Agenda non sono prescrittivi (e con quale autorità, e risorse, potrebbero essere imposti?), ma solo delle sollecitazioni di principio che meritano approvazione e rispetto, se obbedite, o biasimo e riprovazione se inascoltate. Niente di più!

È davvero dubbio che un ventaglio così ampio di obbiettivi, senza priorità, che vanno dall’irrilevante all’evanescente, possa condensarsi in motivazioni, parole d’ordine, linee guida in grado di mobilitare coscienze, risorse e azioni. Si tratta purtroppo di uno zibaldone che rispecchia le procedure burocratiche delle istituzioni internazionali, un’apertura alle esigenze degli stakeholder portatori di esigenze specifiche senza selezionarle e graduarle secondo priorità. Va qui detto, a scanso di equivoci, che tutti i 17 Obbiettivi sono condivisibili: dalla eliminazione della povertà, alla scomparsa della fame; dalla buona salute per tutti e a tutte le età, all’istruzione di qualità per tutti; dalla crescita economica inclusiva e sostenibile, alla riduzione delle disuguaglianze, per citarne solo alcuni. Tutti e 17 gli Obbiettivi propugnano finalità nobili ed auspicabili anche se astratte. Ma così tante buone intenzioni, formulate da un pulpito poco credibile, rischiano di non valere la carta su cui sono scritte o il costo delle innumerevoli conferenze, consultazioni, iniziative che hanno costellato gli ultimi tre anni. Moniti, esortazioni o prediche sono mezzi importanti e utili per suscitare ed orientare l’ impegno e le azioni delle istituzioni volte al bene comune. Ma la loro efficacia dipende essenzialmente dal prestigio di chi predica e dalla credibilità degli obbiettivi proposti. Purtroppo ambedue sono carenti. Il prestigio dell’Assemblea dei Capi di Stato è davvero scarso. Come possiamo prestare fede ad impegni sottoscritti anche da quei capi di stato sorretti da regimi tirannici che notoriamente violano gli elementari diritti umani? Quale forza di persuasione morale possono avere le loro esortazioni?

 

Anni fa, quando uscì, lessi con interesse il libro di Emmanuel Todd e Youssef Courbage L’incontro delle civiltà, che analizzando i paesi musulmani in tutto il mondo attribuiva molta importanza alla cultura (alfabetizzazione) soprattutto delle donne, nel determinare il calo del numero dei figli: prevedeva anche che questi mutamenti nelle strutture familiari avrebbero provocato terremoti sociali e politici. Lei che ne pensa?
Certamente il miglioramento dell’istruzione delle donne è una fattore importante nel determinare intenzioni e comportamenti riproduttivi non subordinati a prescrizioni familiari e tradizionali rigide e spesso oppressive. Ma non basta: sia le comunità palestinesi che quelle ebree ortodosse in Israele, hanno riproduttività altissima nonostante gli ottimi livelli di istruzione. Occorre, accanto all’istruzione, che le donne si sottraggano allo stato di subordinazione in famiglia, che entrino nel mondo del lavoro, che partecipino alla vita sociale… Naturalmente l’istruzione è un pilastro insostituibile in questo processo di cambiamento sociale, ma sarebbe insufficiente una politica che trascurasse gli altri elementi.

Una delle emergenze ricordate nel suo libro è quella della dimensione delle megalopoli, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Che cosa prevede per il futuro di agglomerati urbani sterminati e poveri come, per fare due soli esempi, Città del Messico o Mumbai, dove si concentrano dai nove agli oltre dodici milioni di abitanti?
Per noi occidentali, e per noi italiani soprattutto, fortunati abitatori di una delle “cento città”, e fruitori di una antica civiltà urbana, il contatto con le megalopoli dei paesi poveri genera profondo sconcerto e timore. Ma se milioni di donne e uomini hanno deciso, nell’ultimo secolo, di accentrarsi nelle grandi megalopoli, ci sono ragioni profonde. Una popolazione fortemente crescente vi è stata costretta per sopravvivere alla fame e alla povertà estrema. Nelle megalopoli esistevano, spiragli di modesta ascesa sociale, di lavoro e di reddito; speranza di sfuggire alla fame; possibilità per i figli di avere istruzione e cure mediche, ancorché nella miseria e nel degrado ambientale. L’inurbamento significava anche il passaggio per una porta, da un mondo chiuso ad uno – sia pur precariamente – aperto.

Le megalopoli rischiano, però, di sprofondare sotto il loro peso demografico, di trovarsi incapaci di gestire e migliorare i servizi pubblici di base, di generare pericolose conflittualità, di approfondire l’isolamento e l’emarginazione di un vasto numero di persone. Le cosiddette “megacittà”, o agglomerati con oltre dieci milioni di abitanti, che erano due nel 1950, sono cresciute a dieci nel 1990 e a 28 nel 2014; le grandi città, tra i cinque e i dieci milioni, che erano 21 nel 1990, sono più che raddoppiate a 43 nel 2014, mentre le piccole città (piccole solo per la terminologia internazionale) da uno a cinque milioni sono passate da 239 a 415. La concentrazione demografica nelle aree urbane non è, di per sé, un fatto negativo. L’umanità è essenzialmente gregaria e tende a vivere in spazi ristretti. Ma il moderno processo di mega-urbanizzazione è stato compresso in pochissimo tempo e in modo disordinato e spesso anarchico. Le conseguenze negative per l’ambiente riguardano, soprattutto, l’inquinamento dell’aria, con i ben conosciuti effetti perversi sulla salute, e quello delle acque, con effetti che si irradiano nell’ecosistema ben oltre il territorio delle megacittà, nonché lo spreco o il degrado dello spazio. E siccome la crescita delle grandi conurbazioni è più veloce della crescita della popolazione urbana, e questo divario crescerà ancora nel futuro, l’effetto negativo sull’ecosistema è destinato ad aggravarsi in assenza di robusti correttivi.
Va segnalato, infine, che il tasso di crescita delle grandi megalopoli si va attenuando, sia per una minore immigrazione che per la diffusione del controllo delle nascite, generalmente più rapida che nelle campagne.

 

Il suo testo si chiude con una nota ottimistica sui possibili effetti positivi di quella che definisce la “quarta globalizzazione”: legando il tema a quello delle migrazioni, lei pensa che le diverse identità culturali saranno confermate e irrigidite (oggi vediamo l’estremo del fondamentalismo islamico, e non solo) oppure si accelereranno processi di destrutturazione, di maggiore capacità di scambio e integrazione?
Francamente non saprei rispondere. Quel che si può osservare è che oltre ad una crescita delle tradizionali migrazioni internazionali – nonostante le crescenti restrizioni – c’è un continuo aumento della mobilità di breve o brevissimo periodo. Spostamenti di tecnici e dipendenti di multinazionali e di aziende esportatrici; spostamenti per affari; per studio (aumento esponenziale degli “studenti internazionali”); per turismo; per contatti personali amicali e affettivi. Nel 1990 i cinesi che intrapresero un viaggio internazionale furono un milione, lo scorso anno cento milioni; i cosiddetti “turisti internazionali” furono 25 milioni nel 1950 si avvicineranno a due miliardi nel 2030. Non parliamo poi della rete virtuale di contatti (messaggi scritti, contatti audio, contatti video…) che si va infittendo a ritmo vertiginoso… È questa che ho chiamato “quarta” globalizzazione (la prima essendo quella accesa dal contatto tra Eurasia e America; la seconda quella ottocentesca, la terza quella che stiamo vivendo da qualche decennio). La speranza è che moltiplicandosi i contatti, rompendosi gli isolamenti, parlando linguaggi comuni, si stemperino incomprensioni, ostilità e conflitti. Forse è possibile che questo avvenga nel lontano futuro, ma cosa avverrà nella lunga transizione?
La speranza è che l’intensificarsi delle relazioni umane – sia quelle dirette in conseguenza delle migrazioni e della mobilità , sia quelle mediate dalle comunicazioni sempre più fitte ed integrate – porti ad una globalizzazione umana e sociale, con effetti positivi sulle relazioni globali. Mi piace pensare che il mondo possa avviarsi in questa direzione.

Veniamo per un momento alla cronaca. Ci sono state polemiche politiche e clamori mediatici sui dati recenti che parlano di un vistoso aumento della mortalità in Italia nel corso del 2015. Il fenomeno è stato messo in relazione al concomitante allarme per l’inquinamento atmosferico. Che cosa c’è di vero e come giudica questo clamore?
I media alimentano a perfezione la schizofrenia. Nei primi otto mesi dell’anno ci sono stati 40.000 morti in più dell’anno precedente. Si grida: sicuramente dovuti allo smog che inquina le nostre città… al riscaldamento globale, all’effetto serra…Prova ne sia che nei mesi di novembre e dicembre lo smog ha superato i livelli di guardia….E invece, quell’aumento è presumibilmente dovuto ad un inverno particolarmente freddo , forse ad un calo delle vaccinazioni antinfluenzali (frutto anche di una irresponsabile campagna mediatica), che ha reso ancor più vulnerabili le persone fragili, quelle molto anziane o indebolite da altre patologie. Il clima mite di questi novembre e dicembre, invece, avrà contribuito a far diminuire i decessi al di sotto dei normali livelli, nonostante l’accresciuto grado dell’inquinamento. Meglio un’ondata di freddo, con meno vaccinazioni, e alcune decine di migliaia di decessi in più – oppure un inverno mite, con alto inquinamento, ma con qualche decina di migliaia di decessi in meno?

Infine una domanda sulla sua esperienza politica come parlamentare nel centrosinistra e su cosa pensa del rapporto tra scelte politiche e analisi della realtà. L’idea di parlare di demografia parte proprio dalla considerazione che senza anche un ritorno ai “dati di fatto” e a una analisi critica della realtà sembra impossibile recuperare la debolezza (per dir poco) dei soggetti politici oggi. A sinistra e non solo.
Sono entrato in Senato che non ero più un bambino…a 69 anni suonati, e non mi aspettavo certo che avrei cambiato il mondo! Ne sono uscito sette anni dopo: sarebbe ingiusto parlare di un bilancio negativo. Il disallineamento tra la necessità di politiche di lungo periodo, e il breve orizzonte cui si ispira la maggioranza delle scelte è certo clamoroso. Ma sarebbe limitativo spiegarlo con la “miopia” del ceto politico. È la miopia della società che li esprime che si riflette nell’azione politica. E si tratta di una miopia alimentata da un circuito perverso dell’informazione, sempre centrata sull’attualità, sull’urgenza del momento attuale, sull’affacciarsi di un pericolo (vero o presunto) che necessita di misure immediate, “emergenziali”, anche se esso viene da lontano ed era ampiamente previsto. Mi vengono in mente due esempi, legati alla mia professione. In Italia la bassissima natalità, oramai perdurante da trent’anni, è un fenomeno con numerose ricadute negative sulla società. Sappiamo quali ne siano le cause e sappiamo anche che ben condotte politiche sociali potrebbero rimuovere alcune delle cause della bassissima natalità. Ma dell’argomento nessuno in realtà si preoccupa. Le politiche sociali in sostegno delle scelte riproduttive delle coppie non si fanno. In Francia queste politiche si fanno coerentemente da settant’anni (e se ne vedono le conseguenze), perché le varie parti politiche che si sono alternate al potere, ne hanno riconosciuto valore ed importanza, confermandole e rafforzandole. Una società assai più matura della nostra. Il secondo esempio è costituito dalla schizofrenia sull’immigrazione, della quale il nostro paese non può fare a meno. Ma che buona parte della società (e della politica) continua a considerare un fenomeno congiunturale, transitorio, Insomma, non voglio l’immigrato, ma ho assoluto bisogno del suo aiuto. Non faccio figli, ma voglio i benefici del welfare pubblico ed esigo che la mia pensione sia pagata, e che la sanità funzioni alla perfezione.

 

 (*) da Critica marxista  Agosto 2016

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