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Dietro il perfezionismo, c’è solo conservatorismo

Credo che sia stato un bene evitare un referendum per la rottamazione dei voucher, perché non vi è dubbio che sarebbe stato, alla stessa stregua dell’appuntamento del 4 dicembre scorso, un altro momento di intorbidamento della convivenza civile e della dialettica democratica, a prescindere dal merito del quesito sottoposto alla valutazione dei cittadini.

Avremmo assistito ancora una volta a un altro torneo di mistificazioni tra schieramenti eterogenei, focalizzati soltanto sulla reciproca delegittimazione anziché sulle problematiche messe all’ordine del giorno, con l’inevitabile esito di accentuare le tante incertezze che gravano sulla coesione sociale e sulla tenuta economica del presente e del futuro del nostro Paese.

E’ sorprendente che a farsi promotrice di una tale prospettiva sia stata una grande organizzazione sindacale, qual è la CGIL, che avrebbe avuto strumenti legali, politici e di mobilitazione collettiva per fermare e riformare un particolare tipo di inquadramento formale e remunerazione di rapporti di lavoro, occasionali per durata e per livello di qualificazione professionale richiesta, da sempre rientranti nella copertura del cono d’ombra del lavoro nero.

E’ anche stupefacente che un valente studioso di economia e politica del lavoro, qual è il prof. Tito Boeri, oggi presidente dell’INPS, dopo aver correttamente reso pubblico l’abnorme domanda di voucher degli ultimi due anni, non abbia provveduto, facendo leva sul più antico ed evoluto sistema digitale della Pubblica amministrazione italiana, ad adottare da subito le misure, che pur erano e sono nella piena disponibilità della sua funzione, per scovare e bloccare ab imis gli utilizzatori truffaldini in ampie aree dell’industria manifatturiera, della grande distribuzione organizzata, dell’hotellerie, dell’agricoltura, degli operatori economici e sociali fornitori di servizi e finanche di soggetti pubblici nazionali e locali.

Che il Governo Renzi abbia ecceduto nel liberalizzare il ricorso a uno strumento di pagamento, immaginato dal suo ideatore, il mai troppo compianto Marco Biagi, per far emergere prestazioni marginali, è fuori discussione; che nel grande stagno immediatamente generatosi abbiano sguazzato in molti, troppi, tra questi anche i patronati sindacali, è inoppugnabile; lo è altrettanto il fatto che la reazione si sia appalesata solo allorché i miasmi sono diventati insopportabili.

I rimedi, però, si sono rivelati peggiori del male e oggi, a fronte della rinuncia del maggiore sindacato italiano a fare il suo mestiere, della diserzione di un Istituto pubblico delle dimensioni dell’INPS e della debolezza del Governo, ci si trova nella necessità di reinventare i voucher, a meno che non si voglia prendere atto che i piccoli lavori nelle famiglie e nelle attività economiche scarsamente strutturate debbano tutti indifferenziatamente ritornare tout court  nei confini del lavoro nero. Esito che, per altro, si verificherebbe ugualmente se, nella ridefinizione, dovesse prevalere, come da più parti si annuncia, la linea di aumentarne il costo e di appesantirne le incombenze burocratiche.

La famiglia, l’impresa minore (il piccolo esercizio commerciale, la piccola impresa agricola di 2/3 ettari a conduzione familiare, la start up digitale nel primo anno di vita, le vere aziende artigianali), le associazioni culturali, gli impianti per l’esercizio di attività sportive dilettantistiche, quelli destinati a sport di grande pregio, ma seguiti da tifoserie poco consistenti e, quindi, scarsamente appetiti dagli investitori, sembrano essere i soggetti eleggibili all’utilizzo dei nuovi voucher, prevedendo anche non più di un paio di differenziazioni di prezzo. Gli individui, invece, avviabili a questa tipologia di rapporto lavorativo non possono essere solo giovani, donne e pensionati, ma tutti coloro che dai 17/18 anni in avanti siano senza un’occupazione o beneficino di sussidi o sia titolari di pensioni al minimo o di poco superiori. Va da sé che occorre fissare limiti di utilizzo temporale da parte del singolo datore di lavoro, ma nella situazione attuale non limiterei la possibilità per un disoccupato di svolgere prestazioni coperte da voucher con diversi datori di lavoro non in contemporanea, ma in successione.

Sarebbe saggio, inoltre, che, nella ridefinizione in atto, al voucher venga abbinato un bonus per la profilazione delle competenze e delle attitudini, l’orientamento e l’avviamento a corsi di qualificazione/riqualificazione,  che ne valorizzino il livello di occupabilità.

L’esperienza tedesca dei minijob può offrirci qualche spunto, pur non potendola assumere tal quale, perché anche in Germania vi sono stati e vi sono abusi, tant’è che negli ultimi 10/11 anni si è mantenuto stabile il numero esorbitante di 4/4,5 milioni di persone che vivono con minijobs da € 450,00 al mese, con la sola variante che almeno per certe fasce di età essi sono solo una parentesi rispetto a percorsi di inserimento al lavoro standard, assistiti da un sistema in cui operatori pubblici e privati lavorano in armonia, dispongono di organizzazioni e addetti qualificati, godono entrambi di buona reputazione.

Vero è che la differenza di fondo tra la situazione tedesca e quella italiana è nel diverso approccio al fenomeno del lavoro nero.

In Germania è tema centrale a valenza politica, talché, oltre che sul rigore dei controlli e delle sanzioni, si adottano misure che assicurano un’alternativa legale a chi offre e a chi cerca lavoro anche in attività marginali, appunto i minijobs, se ne tarano le condizioni di utilizzo in dipendenza del monitoraggio continuo, si adottano provvedimenti diversificati di estensione delle protezioni, di revisione periodica e di messa a disposizione di strumenti di uscita dalla marginalità lavorativa. Non è un caso che di forme di minijobs ve ne sono parecchie, tutte etichettate con il nomen iuris di geringfügige Beschäftigung, ossia di lavori atipici. Il sindacato, la cui rappresentatività è fuori discussione, interviene per denunciare abusi, assistere i lavoratori, modificare le regole; non mi risulta che abbia fatto nulla per abolirli del tutto. Per altro, da informazioni familiari (ho una nuora tedesca con ben quattro fratelli e tutti sono stati minjobbers in una parte della loro vita e oggi sono tutti titolari di buone posizioni di lavoro, una è riuscita addirittura a conseguire tutti i brevetti di pilotaggio e oggi a 35/36 anni è pilota della flotta di aerei della Volkswagen) non c’è traccia di dibattiti in materia sulla stampa, men che meno vi sono in TV continui talk shows con improbabili opinionisti e conduttori superpagati che discettano sul nuovo schiavismo.

In Italia la situazione è profondamente diversa, perché l’approccio al lavoro non standard è improntato al paradigma “meglio la disoccupazione che un piccolo lavoro legale, che un lavoro a termine o part time” e finanche quel tanto di lavoro flessibile che l’ordinamento consente è oggetto di ricorrenti criminalizzazioni, al punto che il lavoro in somministrazione, che gode di tutele e garanzie dettate dalle leggi e dai contratti, viene regolarmente svilito con l’uso dell’aggettivo interinale, evocato sempre di più in chiave spregiativa. E fioriscono le proposte, oggi accreditate anche da eminenti, o presunti tali, studiosi, per una diffusione a tappeto di soluzioni assistenzialistiche.

Sul lavoro nero non c’è traccia di dibattiti parlamentari, di mobilitazioni sociali, di talk shows televisivi, di inchieste dei media cartacei o digitali; eppure pesa sul PIL nazionale per oltre un terzo del suo valore, una quota ben più consistente di quella tedesca. Finiscono, invece, sotto attenzione solo le situazioni più dirompenti, ma quasi sempre riferite a frange particolari del mondo del lavoro, gli immigrati clandestini, i lavoratori agricoli e ogni volta si fa appello a misure di polizia e/o giudiziarie, che pur ci vogliono, ma che rischiano di essere inefficaci, se non si affrontano i problemi alla radice e non si adottano misure che almeno attenuano l’insana complicità tra sfruttatore e sfruttato.

Insomma, dalle nostre parti non si vuol prendere atto che i parametri riferiti al tempo delle economie chiuse, delle tecnologie stabili, delle organizzazioni ossificate, della spesa pubblica incontrollata si è irrimediabilmente esaurito e che le conquiste e le tutele del passato possono essere salvaguardate solo se si ha il coraggio di rideclinarle in dipendenza di cambiamenti ineluttabili, che vanno, però, capiti e gestiti non soltanto subiti e denunciati.

Di questo passo, a furia di parlare di posti e non di lavoro, di titoli di studio e non di competenze, di reddito di cittadinanza e non di reddito d’inclusione, di sovranismo e non di apertura al mondo, si corre il rischio di riesumare esperienze storiche non proprio felici, quale è la moneta fiscale (rinominata euro/lira) inventata agli albori del nazismo, recentemente riportata in auge da un fantasioso economista dell’Università di Cassino e fortemente apprezzata dalla consultazione on line sul programma di governo del Movimento 5 stelle; chissà che nei prossimi giorni qualche anima bella non riscopra anche l’imponibile di manodopera, disastrosa esperienza che ebbe un ruolo non secondario nel rimpolpare i manipoli del nascente fascismo con l’adesione di piccoli proprietari agricoli e mezzadri.

 

 (*) Vice Presidente istituzionale di Quanta Italia

 

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