Nel più ampio quadro dell’Unione europea (27), le criticità della struttura occupazionale italiana si sono accentuate per effetto del brusco rallentamento del sistema economico-produttivo e la differenza tra il tasso di occupazione italiano e quello dell’Ue si è ampliata sino a raggiungere 7,4 punti percentuali. Ma non solo. Come è stato recentemente ricordato in occasione della pubblicazione del primo Rapporto sul Benessere Equo e Sostenibile (bes 2013) a cura del Cnel-Istat, anche il tasso di mancata partecipazione al lavoro[1] italiano risulta superiore a quello medio europeo di circa 5 punti percentuali.
La ragione di tale divario va ricercata nel fatto che in Italia “l’area di chi cerca lavoro in modo poco attivo oppure è scoraggiato risulta molto più vasta che negli altri paesi europei”, un aspetto – quest’ultimo – che la crisi economica ha senz’altro accentuato, con ripercussioni negative che hanno interessato soprattutto i giovani e le donne. Rispetto alle problematiche di accesso delle donne al mercato del lavoro, le indicazioni contenute nel rapporto Bes 2013[2] mettono in luce due aspetti sostanziali.
Il primo pone attenzione all’impatto che la crisi economica ha avuto in relazione all’andamento del gender gap. Lo scenario occupazionale prodotto dalla crisi ha colpito con maggior vigore la componente maschile del mercato del
lavoro, determinando una contrazione del numero degli occupati in settori tipicamente maschili (come quello dell’industria manifatturiera e delle costruzioni), con la conseguente riduzione sia dei livelli di occupazione che di mancata partecipazione al lavoro. Pertanto, la caduta del tasso di occupazione maschile così come la crescita più rapida del tasso di mancata partecipazione al lavoro degli uomini rappresentano due fattori che hanno contribuito ad attenuare il tradizionale svantaggio delle donne, che dal 2007 al è apparso essere più contenuto.
Figura 1 – Tasso di disoccupazione e tasso di mancata partecipazione al lavoro per genere. Anni 2004-201
Fonte: Istat, “bes|2013. Il benessere equo e sostenibile in Italia”. Dati, “Rilevazione sulle Forze di lavoro”.
Tuttavia, se a causa della crisi il gender gap nei percorsi di accesso al lavoro si è lievemente contenuto, altre dimensioni intorno a cui ruota la qualità del lavoro femminile non hanno fornito un medesimo riscontro. Le donne sperimentano, infatti, più elevati tassi di mancata partecipazione al lavoro, di disoccupazione, una più elevata instabilità dell’occupazione, con una maggior incidenza del lavoro a termine (nel 2011 era in tale condizione quasi il 21% delle donne contro meno del 18% dei maschi) e una minore probabilità di stabilizzazione del rapporto di lavoro nel corso di un anno (nel 2011 poco più del 18% contro oltre il 23% dei maschi).
Sotto questa luce, il divario di genere continua ad assumere ancora dimensioni considerevoli, amplificate da disuguaglianze strutturali già profondamente radicate nel mercato del lavoro italiano e che il dispiegarsi della crisi ha ulteriormente accentuato. Tra queste, la frattura territoriale tra Mezzogiorno e Nord appare ancor più marcata, se la si legge da una prospettiva di genere. Il divario (già di per sé ampio) tra i livelli di occupazione registrati in queste due aree del Paese, passato dai 18 (2004) ai 22 punti percentuali (2011) nella popolazione 20-64 anni, appare ancor più ampio confrontando il tassi di occupazione femminile tra Mezzogiorno (33,4%) e Nord (60,3%).
A ciò vanno aggiunte le problematiche legate al tema della “conciliazione dei tempi di vita” delle donne, un elemento (tra gli altri) considerato centrale nel percorso di misurazione della qualità dell’occupazione di un Paese. E veniamo, quindi, al secondo aspetto.
Nell’analisi dei dati sono emersi alcuni punti critici su cui appare opportuno soffermarsi. Anzitutto, le donne con figli piccoli (di età inferiore ai 3 anni) hanno una probabilità di lavorare inferiore del 30% rispetto alle donne senza figli, una difficoltà che si palesa anche in ragione di una scarsa disponibilità di asili nido pubblici. La mancata partecipazione al lavoro delle donne con responsabilità familiari appare influenzata anche dal livello d’istruzione: il gap rispetto alle donne senza figli si riduce progressivamente al crescere del titolo di studio.
Figura 2 – Rapporto tra tasso di occupazione delle donne di 25-49 anni con figli in età prescolare e delle donne senza figli, per età e titolo di studio. Anno 2011.
Fonte: Istat, “bes|2013. Il benessere equo e sostenibile in Italia”. Dati, “Rilevazione sulle Forze di lavoro”.
Analizzando, poi, la ripartizione del lavoro familiare tra i coniugi, la tradizionale asimmetria dei ruoli si va gradualmente riducendo. Infatti, la percentuale del carico di lavoro familiare svolto dalla donna (25-44 anni) sul totale del carico di
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NEWSLETTER NUOVI LAVORI 06/06/13 14:43
riducendo. Infatti, la percentuale del carico di lavoro familiare svolto dalla donna (25-44 anni) sul totale del carico di
lavoro familiare svolto dalla coppia in cui entrambi sono occupati, diminuisce progressivamente passando dall’80% nel 1988-1989 a meno del 74% nel 2002-2003 e del 72% nel 2008-2009.
Figura 3 – Percentuale del carico di lavoro familiare svolto dalla donna (25-44 anni) sul totale del carico familiare svolto dalla coppia in cui entrambi i coniugi sono occupati.
Fonte: Istat, “bes|2013. Il benessere equo e sostenibile in Italia”. Dati, “Indagine sull’Uso del tempo”.
Le problematiche legate al persistere di asimmetrie nella distribuzione del lavoro familiare, congiuntamente alla mancanza di adeguati servizi, rappresentano fattori che possono determinare un sovraccarico di impegni lavorativi per la donna occupata, privandola – come evidenziato nel rapporto – della possibilità di godere del tempo libero per la cura personale e per attività espressive e relazionali.
La figura 4 mostra come nel 2008 quasi il 64% delle donne italiane occupate era impegnato per più di 60 ore settimanali in attività lavorative (retribuite e/o non retribuite). Il dato sale al 68% quando vi sono dei figli cui badare e scende al 57% quando non vi sono figli. Per gli uomini le analoghe percentuali sono inferiori di oltre 10 punti percentuali, tranne che per le persone che non vivono in coppia, la cui percentuale è di pochissimo inferiore a quella delle donne nella stessa posizione.
Figura 4 – Quota di occupati (15-64 anni figli esclusi) che svolgono più di 60 ore settimanali di lavoro retribuito e/o familiare per genere e ripartizione geografica e ruolo in famiglia. Anno 2008.
Fonte: Istat, “bes|2013. Il benessere equo e sostenibile in Italia”. Dati, “Indagine sull’Uso del tempo”.
Nel Mezzogiorno, tuttavia, la distribuzione dei carichi di lavoro tra coniugi occupati presenta, rispetto alle altre aree del Paese, livelli di asimmetria più elevati, anche se negli ultimi anni il divario rispetto al Nord si è ridotto passando da 8 a 5 punti percentuali. Il dato relativo alla presenza di una percentuale più elevata di donne “sovraccariche” e di una percentuale più bassa di uomini “sovraccarichi” si spiega proprio in ragione al persistere, nelle regioni meridionali, di una maggiore asimmetria nella divisione del lavoro familiare.
Al di là delle differenze territoriali, nel rapporto viene ribadito come la progressiva riduzione dell’indice di asimmetria nella distribuzione del carico di lavoro familiare sia riconducibile in buona misura ad un “effetto di composizione” delle coppie di giovani adulti, in cui è cresciuta in maniera considerevole la percentuale di donne istruite, con conseguente crescita delle probabilità di impiego delle stesse.
[1]Il “tasso di mancata partecipazione al lavoro” è un indicatore che misura l’offerta di lavoro insoddisfatta e tiene conto delle peculiarità del mercato del lavoro e del sistema di welfare italiano. Per approfondimenti di carattere metodologico si rinvia alla lettura dell’appendice statistica utilizzata per la “Rilevazione sulle Forze di lavoro”.
[2] Si veda, in particolare, il capitolo 3 “Lavoro e conciliazione dei tempi di vita”.