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Spendere meno? No, spendere meglio

Le vicende più interessanti (a parte i gossip che non mancano mai) di questi ultimi giorni sono rappresentati dalla presentazione in Parlamento del disegno di legge governativo della legge di stabilità per il 2014 e l’avvio della fase costituente con la prima approvazione da parte del Senato del disegno di legge istitutivo del Comitato parlamentare per le riforme costituzionali ed elettorali.

Il testo del d.d.l di stabilità suscita in questo momento dal punto di vista tecnico scarso interesse, dal momento che tutti dicono, compreso il Governo che lo ha proposto, che dovrà essere modificato in sede di approvazione parlamentare.

Affermazione addirittura ovvia, dal momento che si tratta del più importante atto legislativo parlamentare.

Senonchè e qui troviamo un punto di contatto con l’avvio della Fase costituente, il Presidente di Confindustria in sede ufficiale, ha espresso il timore che nell’iter di approvazione della legge di stabilità, il Parlamento possa fare delle “porcate”.

Anche a voler considerare superata la teoria della centralità del Parlamento negli Stati democratici, teoria ampiamente condivisa nel corso della c.d. prima repubblica, desta meraviglia, anzi preoccupazione l’orientamento della massima espressione organizzativa datoriale che sembra considerare il procedimento di approvazione parlamentare delle leggi un rischio e non un’opportunità.

Detto questo, è lecito attendersi dalle Parti Sociali un atteggiamento propositivo, realmente propositivo, che non si limiti a tirare la coperta delle scarse risorse da una parte o dall’altra.

E per andare ancora una volta sul concreto, torniamo sui tagli della spesa pubblica o, se preferite, della spending review e dei compiti che attendono il nuovo Commissario.

Per conseguire un effettivo obiettivo di crescita economica, la spesa pubblica è fondamentale e, quindi, tanto per cominciare, una volta terminata la ricognizione (review), non basta un semplice taglio né orizzontale né verticale, se non si pensa di riqualificare tale spesa.

Per fortuna c’è qualcuno che comincia ad accorgersene.

Pochi giorni fa Repubblica ha pubblicato un articolo di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini significativamente intitolato “Giù le mani dalla sanità”.

Il titolo non rende giustizia al ragionamento illustrato nel testo, che riconosce la necessità di aumentare l’efficienza della sanità pubblica, “ma è molto discutibile che ciò possa essere ottenuto   attraverso una pesante restrizione delle spesa, che metterebbe a rischio il funzionamento degli ospedali e la capacità di offrire un’assistenza adeguata alle fasce sociali più deboli.” 

Tanto più che, in questa fase di crisi, il vero ammortizzatore sociale è rappresentato dalla sanità pubblica, dalla  previdenza sociale e dall’assistenza pubblica.

E allora che fare?

Si pongono due problemi , uno di metodo, l’altro di merito.

Quello di metodo impatta con il riformato art. 117 della Costituzione che ha sposato un sistema delle fonti normative di stampo federalista, mentre l’intervento sulla spesa pubblica e sulla sua riqualificazione non può avvenire che nel rispetto del principio di eguaglianza dei cittadini, anzi di chiunque usufruisca legittimamente dei servizi pubblici.

La problematica non sfugge al Gruppo di lavoro sulle Riforme Istituzionali che nella sua Relazione finale suggerisce delle soluzioni che tuttavia, a sommesso avviso di chi scrive, non potranno evitare un corposo contenzioso dinanzi alla Corte Costituzionale per conflitti di attribuzione fra le Regioni e lo Stato.

Quello di  merito deve affrontare il tema della produttività dei fattori di produzione degli stessi servizi.

Anche chi non sia esperto in economia, comprende che il costo di un servizio, a prescindere dalla natura giuridica pubblica o privata del gestore, va calcolato per unità di prodotto e non in assoluto.

E’ perciò che una riqualificazione della spesa pubblica per l’erogazione dei servizi pubblici essenziali passa inevitabilmente per la piena utilizzazione dei fattori della produzione.

In particolare gli impianti fissi e la forza lavoro.

Per rimanere nel campo della sanità pubblica, ove si considerino i costi della degenza ospedaliera, sembra assurdo un sistema di lavoro che non sia a tempo pieno (per lo meno mattina e pomeriggio) per sette giorni alla settimana. La figura del “medico di guardia” può avere una giustificazione (forse) solo per le ore notturne. E questo dovrebbe riguardare ogni servizio, anche quelli ambulatoriali o dei laboratori di analisi e diagnostici.

L’alternativa è quella di mettere a rischio la qualità del servizio e quindi scaricare il taglio di spesa sull’utenza.

Si dovrà quindi inevitabilmente seguire la strada non del blocco degli straordinari o della contrattazione, ma incoraggiare chi sarà disposto a lavorare per turni o accettando processi di mobilità, calcolando il “risparmio” non in assoluto, ma per unità di prodotto.

L’esempio del lavoro ospedaliero è solo il più intuitivo e facilmente comprensibile, ma ugualmente comprensibile è il ragionamento applicato al servizio Giustizia o ai servizi postali.

Non si tratta solo di eliminare gli sprechi, ci mancherebbe altro! Si tratta di spendere meglio sfruttando al massimo la produttività del servizio pubblico.

L’obiettivo è certo la contrazione drastica della spesa improduttiva, ma anche un miglioramento di immagine del Sistema Italia per attrarre gli investitori esteri, scoraggiati forse più dall’inefficienza che dall’apparato normativo che pure va aggiornato, senza illudersi che tutto si possa risolvere sostituendo una legge ad un’altra.

Ma da un Commissario per la revisione della spesa pubblica ci si deve attendere, per coerenza con quanto sopra detto, anche la proposta di introdurre   nel settore pubblico una rilevazione dei costi di tipo industriale. Occorre affiancare, alla contabilità generale, la contabilità industriale per calcolare il costo per unità di prodotto da cui si è partiti e quindi per confrontare i costi.

Un’ occasione per provare ce la offre il Ministro per gli Affari regionali che si impegna ad abolire le Province entro l’anno, trasferendone le competenze ai comuni.

Guai però se si riesumasse la legge Fanfani del 1956 per l’abolizione degli Enti inutili.

 

N.B. Gli atti e i Documenti citati sono tutti reperibili su Internet.

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