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È arrivato il momento di tassare i robot

È già il momento di tassare l’intelligenza artificiale? No, ma è il momento di cominciare a parlarne. Ne è convinta Marietje Schaake, direttrice politiche internazionale al Cyber Policy Center dell’università di Stanford, consigliera speciale della Commissione europea ed ex eurodeputata. 

Lo ha messo nero su bianco in un’opinione appena pubblicata dal Financial Times nella quale prende le mosse dall’entrata in vigore della cosiddetta global minimum tax, l’aliquota minima del 15% sull’utile netto per le multinazionali con fatturato complessivo di almeno 750 milioni di euro. Dal primo gennaio è realtà e, in prospettiva, dovrebbe servire a contrastare il “dumping fiscale”, cioè la pratica di ridurre le aliquote fiscali di un paese per attirare imprese e investitori dall’estero a discapito dei vicini. O di garantire loro norme più favorevoli in caso di reati fiscali. Specialmente all’interno di realtà come l’Unione Europea, visto che Stati Uniti e Cina non l’hanno ancora implementata nelle legislazioni nazionali.

Per raggiungere l’obiettivo, i cui risultati rimangono comunque tutti da verificare (la proiezione della raccolta per quest’anno è di 220 miliardi di dollari), ci abbiamo messo anni. Per questo, all’alba – che poi troppo alba non è, è già mattina – dell’era dell’intelligenza artificiale generativa occorre iniziare a discutere di come, dove e quanto tassare una gamma di strumenti potentissimi ancora in gran parte in divenire. Ma che potrebbero, almeno nel medio periodo, creare più danni che benefici agli equilibri del mercato del lavoro internazionale.

Secondo il World Economic Forum entro il 2027 l’implementazione dell’intelligenza artificiale e di altre soluzioni affini comporterà il cambiamento del 23% dei posti di lavoro, creando 69 milioni di nuovi posti ed eliminandone 83 milioni. Un saldo insomma non positivo, almeno non nel prossimo quinquennio, che andrà in qualche modo governato sia attraverso la creazione di nuove opportunità che nel sostegno dei lavoratori che in nessun modo potranno essere riqualificati. 

I posti di lavoro che guadagneremo, infatti, non saranno sempre e perfettamente sovrapponibili a quelli resi obsoleti dall’AI. Questo è un aspetto che in pochi rammentano quando commentano questi numeri. Secondo un’indagine della società di consulenza Ernst & Young, della multinazionale del lavoro Manpower Group e Sanoma, che fa formazione, a questo terremoto si affiancherà nei prossimi anni un calo della domanda di circa il 41,7% a danno di professioni a scarsa specializzazione o in settori a bassa crescita come agricoltura e industrie tradizionali. Gente che già oggi fatica e che domani sarà serenamente congedata.

Nel frattempo la valutazione delle società che sviluppano l’intelligenza artificiale o ne applicano gli strumenti nei propri prodotti continua a crescere: OpenAI I sta per esempio diventando una formidabile macchina da soldi. La società guidata da Sam Altman avrebbe superato 1,6 miliardi di dollari di fatturato (lo ha rivelato The Information) nel 2023, e sta raccogliendo nuovi finanziamenti che potrebbero spingerne il valore a 100 miliardi di dollari. 

“L’intelligenza artificiale generativa sta già comportando una serie di sfide sociali – ha scritto Schaake -. La perdita globale di posti di lavoro è uno dei principali effetti attesi. Mentre il dibattito politico rimane in gran parte incentrato sui rischi per la sicurezza, vari studi prevedono profonde problematiche del lavoro a causa di questa tecnologia. È stato Elon Musk a parlare del futuro del lavoro a margine del vertice sulla sicurezza dell’intelligenza artificiale dello scorso anno. In una conversazione con il primo ministro britannico Rishi Sunak ha accennato casualmente alla necessità di anticipare una società in cui “non è necessario alcun lavoro”. Le conseguenze sono inimmaginabili”. Tutto questo mentre la ricchezza globale potrebbe ulteriormente concentrarsi nelle mani di pochi grandi gruppi: al confronto, l’era del web 1.0 e delle big tech degli anni Duemila sembrerà un Eden comunitarista.

Un’altra indagine di Goldman Sachs prevede invece una crescita di almeno settemila miliardi di dollari per l’economia globale nei prossimi dieci anni, mentre ben due terzi dei posti di lavoro statunitensi – nello stesso periodo – finiranno per essere in qualche modo minacciati dall’AI. Quasi il 30% delle ore lavorate negli Usa verrà influenzata da processi di automazione (McKinsey) e, come si accennava poco prima, circa 12 milioni di lavoratori avranno bisogno di un percorso di transizione occupazionale per riuscire a cavarsela. 

Insomma, per quanto possiamo raccontarcela sull’AI che potenzierà, affiancherà, migliorerà ed emanciperà i nostri lavori attuali regalandoci tanto tempo libero per portare a spasso il cane, l’elefante è di fronte a noi. Già oggi: secondo una ricerca di ResumeBuilder lo scorso anno più di un terzo dei manager ha ammesso di aver rimpiazzato forza lavoro umana con sistemi automatizzati e continuerà a farlo quest’anno: il 44% delle società intervistate spiega che le novità nell’AI condurranno a nuovi licenziamenti. Perché la situazione non dovrebbe peggiorare con soluzioni sempre più sofisticate e potenti di intelligenza artificiale generativa i cui frutti saranno sempre più indistinguibili dal lavoro di un essere umano?

Serviranno dunque tanti soldi per rafforzare le politiche pubbliche attuali e soprattutto intentarne di nuove. Questa transizione non sarà un pranzo di gala e ogni economia nazionale dovrà anticipare l’impatto dell’intelligenza artificiale su tutti i settori della propria economia. In Italia siamo fermi alle beghe politiche sulla presidenza della Commissione algoritmi. Come sempre, il tema cruciale è la redistribuzione della ricchezza: se ne produce molta grazie alle nuove tecnologie ma il corpo della società, la base della piramide, non gode che delle briciole. E, anzi, le persone vanno incontro a una marginalizzazione delle proprie competenze, sempre più lontane dal cuore delle nuove necessità.

Per questo, spiega Schaake, “senza un intervento, il prossimo capitolo della rivoluzione tecnologica rischia ancora una volta di privatizzare i profitti, spostando al contempo i costi per mitigare i danni sulle casse pubbliche. Il sostegno al welfare e la riqualificazione dei lavoratori licenziati non sono solo svantaggi economici: sono il tipo di cambiamenti sociali che portano facilmente a disordini politici. Per generazioni, il lavoro è stato il fondamento non solo del reddito familiare, ma anche della routine e del senso di scopo delle persone. Provate a immaginare cosa fareste senza il vostro lavoro”. 

Per Schaake serve, dunque, che questo nuovo giacimento di immensa ricchezza venga tassato. Come, quanto e soprattutto a chi applicare la tassazione in un panorama industriale in cui praticamente ogni società sta in qualche modo integrando strumenti di questo tipo sarà la sfida a cui le organizzazioni transnazionali dovranno rispondere. Lontani dallo star system dei miliardari (pseudo)visionari e dai loro interventi provocatori tutti incentrati sul divide et impera e fortemente dentro le paure, le necessità e i bisogni delle popolazioni del Sud e del Nord del mondo.

“Per riequilibrare gli impatti costi-benefici dell’AI a favore della società, e per garantire che la risposta necessaria sia accessibile a tutti, tassare le società di intelligenza artificiale è l’unico passo logico”, aggiunge l’esperta, che richiama anche le proposte in questa direzione del fondatore di Microsoft, Bill Gates, e del senatore democratico del Vermont, Bernie Sanders, da aggiornare tenendo conto dei progressi dell’intelligenza artificiale generativa.

*da Wired, 15/01/2024

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