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L’Industrial Act che serve all’Europa (e all’Italia)

L’industria è la miglior difesa per crescita e benessere. La lezione della Storia, che la pandemia ci ha ricordato, è stata imparata bene in Cina e negli Stati Uniti, ma sembra essere dimenticata in Europa.

Nel 2022 la Commissione europea aveva avanzato la proposta di creare un vero Fondo Sovrano Europeo per rispondere all’Inflation Reduction Act americano con fondi europei capaci di investire sulle tecnologie fondamentali, come i semiconduttori, l’automotive e le tecnologie abilitanti per la transizione verde e digitale, per difendere il tessuto produttivo continentale dal rischio di essere messo ai margini dai sussidi di Washington e Pechino. 

In Europa, però, decenni di ricchezza creata sulle ali della globalizzazione finanziaria hanno dato a molti l’illusione che l’economia si reggesse grazie al mondo scintillante dei grattacieli dei servizi e della finanza e non grazie a quelli che all’alba entrano nelle fabbriche con tuta e casco o quelli che ogni giorno fanno i conti con materiali da innovare, merci da spostare, depositi, camion e container nonché con tecnologie, infrastrutture e processi produttivi in continuo cambiamento nella transizione ambientale e digitale.

In Europa gli unici due Paesi a puntare sulla manifattura sono Italia e Germania. Ma a Berlino l’idea di un fondo sovrano europeo con fondi comuni fa venire il “mal di testa” a molti e ci si illude che grazie agli ampi margini di bilancio i tedeschi possano fare da soli. Quindi si è preferito allentare le regole europee sugli aiuti di Stato, con il Governo Meloni alla finestra, e lasciare che la Germania finanziasse le nuove fabbriche di microchip sul suo territorio, mentre l’Italia resta a bocca asciutta. 

L’idea del fondo sovrano europeo è stata bocciata da Germania e Olanda, tra gli altri, e la proposta si è svuotata ed è stata dirottata su una molto più modesta piattaforma Step (Piattaforma per le tecnologie strategiche per l’Europa). L’ennesimo primo passo nella direzione giusta che però, senza delle vere risorse, non può andare molto lontano, non avendo la massa critica che può incidere veramente. 

Ora la Commissione europea propone un Fondo di Investimento per una base industriale comune per la difesa europea. Anche questa senza i fondi sufficienti. Ma la sicurezza dell’Europa dipende più dalla capacità di produrre microchip all’avanguardia che non carri armati, e la resilienza delle nostre democrazie dipende più dalla difesa del nostro benessere sociale ed economico e delle nostre quote di mercato che dalla costruzione di trincee.

Per questo la priorità numero uno dopo le elezioni europee sarà varare un Industrial Act che superi le incertezze e i tabù sovranisti per avere una vera politica industriale comune con fondi europei, come suggerito anche da Mario Draghi, in modo da scegliere e investire sulle tecnologie abilitanti e tenere alto il livello di innovazione. 

L’Ue non può più limitarsi a scrivere le regole, anche le migliori, come per l’Intelligenza Artificiale, senza avere capacità innovativa e sufficiente presenza industriale nel settore, anche con propri campioni, né può limitarsi a definire gli obiettivi di lungo periodo invocando il principio della neutralità tecnologica senza creare le proprie filiere produttive sulle tecnologie strategiche, come si è fatto per i pannelli solari. 

Bisogna avere il coraggio di fare scelte e investimenti su progetti di interesse comune europeo, come gli Ipcei. E soprattutto la classe politica e quella imprenditoriale italiana devono capire che questa è una battaglia che dobbiamo portare avanti a Bruxelles come sistema-Paese e stando in Europa con tutte le scarpe. 

Facendo i sovranisti a giorni alterni si dà l’illusione che i singoli sistemi nazionali possano crescere da soli, ma una politica frammentata in ventisette micro-disegni in concorrenza tra loro, essa sì, ci mette a rischio di una “dipendenza strategica”. 

Se abbiamo ottenuto di salvare, premiandola, l’industria italiana del riciclo nel regolamento sugli imballaggi è grazie alla presenza, alla credibilità, alla tenacia e alla capacità di far valere i dati (altro che ideologia) sulle soluzioni più sostenibili (come l’improprio confronto tra riuso e riciclo) durante un lunghissimo negoziato, di cui sono stata una dei pochissimi protagonisti italiani, sui punti fondamentali per la nostra industria.

È con questo spirito, far valere le nostre eccellenze e priorità, che dovremmo, ciascuno per la propria parte, ripensare il modo in cui l’Italia si muove a Bruxelles.

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