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E’ dal fisco che si riconosce la destra

Da una trentina di anni, con l’avvento della “seconda repubblica” politologi ed esperti di flussi elettorali hanno descritto i mutamenti nelle preferenze elettorali e nella stessa partecipazioni al voto. Uno dei fenomeni osservati è stata la differenziazione tra città medio-grandi e il resto dei piccoli centri e della campagna, con le prime spostate a sinistra e i secondi a destra; fenomeno questo che si ritrova peraltro in molti paesi europei ed anche negli USA. 

Un esempio, tra i tanti, è costituito dalle elezioni 2020 in Emilia-Romagna, dove Bonaccini ha largamente vinto nelle città della via Emilia, finendo però sotto la sua avversaria nel resto della regione.

Su questo fenomeno ho trovato sul web un interessante studio di Corrado Monti, “Classi sociali nelle elezioni 2018 e 2019: un’analisi bayesiana del voto” (Centro Studi Argo),  dove vengono posti in relazione i voti dei principali partiti e i redditi degli elettori, divisi in cinque gruppi, I) fino a 15.000, II) da 15.000 a 26.000, III) da 26.000 a 55.000, IV) da 55.000 a 75.000, V) oltre 75.000. Vi è poi il gruppo dei non contribuenti, che raggruppa persone senza occupazione o lavoratori in nero.  E’ importante sottolineare che dall’analisi sono escluse 45 città con oltre 100.000 abitanti (complessivamente oltre 14 milioni di abitanti); pertanto quello che viene analizzato è il voto dei piccoli centri e delle campagne, là dove sappiamo che prevale il voto per la destra.

Lo studio non usa indagini campionarie (spesso poco attendibili) ma procede ad attribuire alle varie classi di reddito il voto, partendo da ipotesi a priori e correggendole per ottenere una approssimazione migliore (si veda l’appendice); si fanno ovviamente delle ipotesi:  “Se nei comuni dove ci sono 1000 ricchi in più, un partito prende 1000 voti in più, supponiamo sia perché sta pescando voti da quella classe”. L’autore (che non conosco) ha la qualificazione necessaria (dottorato matematico-informatico) perché la sua analisi venga presa sul serio.  L’analisi è interessante sia nel confronto tra Nord, Centro e Sud, ma anche nelle differenze tra le elezioni del 2018 e quelle europee del 2019. Chi fosse interessato può facilmente leggere il testo, non lungo, sul sito del Centro.

I principali risultati, ovviamente, non presentano eclatanti novità; il M5S, vincitore delle elezioni del 2018, ha raccolto i suoi voti principalmente nelle prime due classi, che sono quelle numericamente prevalenti, e questo è avvenuto principalmente al Sud. Anche la  Lega ha ottenuto i suoi voti nelle tre classi basse (cioè fino a 55.000), in particolare al Nord. Al contrario il PD ha ottenuto i suoi consensi quasi solo (con un’eccezione del Centro) nelle due classi a maggior reddito (oltre i 55.000), che ovviamente sono numericamente molto ridotte. Da questo si desume che un vero e proprio tracollo del PD sia stato evitato dal voto dei grandi centri, quelli non presenti nell’analisi. 

2. Le elezioni 2022 hanno visto un boom di FdI ai danni dei due partiti alleati e del M5S, che ha dimezzato i consensi ma ha tenuto al Sud. Anche il PD ha tenuto la quota percentuale malgrado la concorrenza di Calenda e Renzi. Il problema delle due formazioni, chiamiamole  “non di destra” (M5S e PD), è quello di recuperare l’elettorato popolare, diciamo quello delle prime due classi di reddito, nel Centro e nel Nord. Ora il tema di come recuperare il voto dei lavoratori dipendenti, in particolare dei lavoratori manuali (operai ma non solo), torna di attualità con la Legge di Bilancio presentata dal governo. 

Lo sbilanciamento verso le partite Iva fa impressione. Oltre alle misure pro-evasione e ai condoni è interessante l’allargamento della flat tax; si era parlato di portare il limite dei ricavi a 100.000, e in effetti la norma fa capire che è lì che si vuole arrivare. Infatti coloro che nel 2023 dovessero superare la soglia ufficiale di 85.000, ma rimanere entro i 100.000, potranno applicare l’aliquota del 15%. Si suggerisce implicitamente che poi alla prossima Legge di bilancio il limite verrà portato a 100.000, in modo tale che di fatto la platea del 15% viene estesa a quel volume di ricavi. 

Ma non basta; vi sono decine di migliaia di partite Iva che, nelle dichiarazioni sui redditi 2020, hanno preferito rimane in Irpef; la ragione è semplice: la loro aliquota media d’imposta è più bassa del 15% che avrebbero dovuto versare scegliendo il forfettario. Infatti attualmente fino a 12.000 euro gli autonomi sono sotto al 15%, anche nel caso che non abbiano nessuna detrazione o deduzione. Qualora le abbiano, anche con redditi più alti possono avere convenienza a rimanere in Irpef.  Vi sono poi invece le partite Iva che hanno ricavi superiori ai 100.000 euro (magari meno possibilità di evadere); non vogliamo ascoltare il loro grido di dolore e ridurre l’aliquota marginale del 43% (più addizionali)?

Quindi  alle partite Iva che rimangono in Irpef, per scelta o per necessità, la Legge di bilancio ha deciso che si applicherà nel 2023 il 15% del reddito incrementale (calcolato su media triennale). Inoltre dall’incremento viene sottratto il 5% del maggiore tra i redditi del triennio, e comunque, qualora fosse superiore a 40.000, il di più rimane tassato in Irpef; in tale modo il reddito sottoposto al 15% viene ridotto e limitato, ma esteso senza limiti di reddito. Rimane peraltro un inutile regalo, fino a circa 12.000 euro, soprattutto destinato a professionisti, cosa che non cambia di una virgola le loro decisioni lavorative.          

Ci si può chiedere il perché di questa sfacciata preferenza per le partite Iva (individuali). In fondo i lavoratori dipendenti sono oltre il triplo. Una delle ragioni risiede sicuramente nella visione laissez faire, lassez passez tipica della destra, ed enunciata recentemente dalla Meloni, in salsa sovranista, in un modo che avrebbe fatto felice il fisiocratico de Gournay. Dal punto di vista elettorale poi l’idea è che i datori di lavoro egemonizzino una consistente parte dei loro dipendenti.

Ma  c’è un’altra ragione: intervenire a favore delle partite Iva costa molto di meno che intervenire a favore dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, per ovvie ragioni. Uno sgravio di soli 100 euro annui viene a costare qualche miliardo, 100 al mese decine di miliardi. La Legge di bilancio Giorgetti-Meloni segue una linea prudente che è stata giustamente definita draghiana; la preoccupazione principale è lo spread, ed in effetti al momento è stato ridimenzionato, facendo scendere il tasso sui Btp sotto il 4%. Non a caso a favore dei lavoratori dipendenti la misura introdotta sui premi, con il dimezzamento dell’aliquota al 10%, costa poco; quanto poi all’aumento fino a 3000 euro saranno ben pochi quelli a cui verrà offerta una cifra di quel livello. 

In conclusione, la riconquista, nei centri minori dove risiede la maggior parte del corpo elettorale, dei lavoratori dipendenti passa nel difesa dei loro interessi; ovviamente i temi sono quelli del precariato e della giungla dei contratti, del salario minimo; vi è poi il tema di una riforma fiscale che ristabilisca corretti criteri di equità verticale e orizzontale. Qui però andrebbe detto chiaramente che riforme che non penalizzino nessun contribuente sono impossibili; spostare il peso fiscale dal lavoro al capitale, e accentuare la progressività estendendola, si può e si deve fare, ma sapendo che comunque vi sarà una minoranza di perdenti. Su questo tema i partiti “non di destra” dovrebbero convincersi loro stessi prima di cercare di convincere gli elettori.

*da Eguaglianza & Libertà

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