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Facciamola finita con il ‘fammi causa’

Lo sanno, ormai, anche i sassi. La giustizia in Italia si muove come una lumaca, costa come un albergo a cinque stelle per chi vi ricorre e per lo Stato e spesso somiglia a sisifo: non conclude, quasi sempre per prescrizione dei termini. A sua volta, la giustizia civile cala la carta aggravante, incide negativamente sull’economia. Dice Pier Carlo Padoan a nome dell’Ocse: ”il peso di una giustizia civile inefficiente può arrivare all’1% del Pil” (discorso in occasione della presentazione del Rapporto “Judiacial performance and its determinant: a cross-country perspective, svoltasi in Senato il 21/06/2013). Decisamente un Paese sprecone, inconcludentemente leguleio, fatalmente destinato ad arrancare.

E si, perché a furia di affastellare aggiustamenti su un impianto procedurale che risale al 1940, di accumulare incastri corporativi tra i vari soggetti che ne alimentano la sua marcia a ritroso e di favorire litigiosità di ogni genere, diventa sempre più rara l’unica cosa che conta: la certezza del diritto.

Infatti, le cronache di quest’ultimo ventennio sono state colme di informazioni sull’andamento della giustizia penale. Intorno ad essa si sono consumate vicende personali e collettive, private e pubbliche di alto tenore scandalistico, ma di basso valore di civiltà. Ma il danno maggiore che la concentrazione di attenzione sulla giustizia penale ha prodotto, è che ha fatto incancrenire il degrado della giustizia civile. Anni di sostanziale disimpegno hanno consentito la formazione di montagne di arretrati, di udienze a scadenza biblica, di invecchiamento e svuotamento degli organici, di cavillosità esasperanti. Sono anche questi segnali che rendono meno appetitoso fare investimenti in Italia; nessun imprenditore resta senza alternative dato che siamo in tempi di globalizzazione e le opportunità si dilatano e le occasioni si moltiplicano. Non si sta dicendo niente di nuovo, di eclatante, di originale. Ma il tempo è trascorso comunque senza che qualcuno si rimboccasse le maniche per una svolta. E’ vero, il Governo Letta ha dato spazio alla questione. Però, pochi interventi mirati, accompagnati da scarse risorse non fanno quella riforma che da più parti si invoca.

Una riforma che deve essere, innanzitutto, di costume. Al “ti faccio causa” ha preso piede il più minaccioso “fammi causa”. Il primo non fa più paura; il secondo fa tremare i polsi. Perché si sa quando si incomincia e non si sa quando e come si finisce. La certezza di poterla fare franca o al peggio di rinviare sine die ogni decisione, vince su quella di avere ragione, di far valere in tempi ragionevoli il proprio diritto. Non è facile ritornare alle origini, se oggi è considerato un grande avvocato, non quello che ha accumulato un sacco di sentenze a favore dei propri clienti, ma quello che riesce a prolungare nel tempo la conclusione di una vertenza. Eppure, è lì che bisogna tornare, come un qualsiasi Paese civile. La cultura della legalità deve ritornare ad essere la base della convivenza civile, il fondamento comune a tutte le forze politiche, economiche e sociali. Ci si può dividere su tante cose, su molte opzioni culturali ed economiche, su diverse visioni sociali, ma non sul rispetto delle norme essenziali della nostra comunità. Quindi, il ritorno ad una vertenzialità “normale” deve avere come sfondo la convinzione condivisa che le storture della società italiana, come il lavoro nero, l’evasione fiscale, la corruzione non possono convivere con il rispetto della legalità.

Una riforma vera deve fare i conti con la sua efficacia economica. Un Governo che dispone di poche risorse deve fare dei ragionamenti keynesiani per la loro più redditiziaallocazione. Si può discutere se ogni euro speso bene nella giustizia civile abbia un effetto moltiplicatore nella crescita del Pil maggiore che se fosse speso per ridurre il cuneo fiscale; ma di certo è più efficace di quello investito nell’abolizione dell’Imu. Un Governo con poche risorse disponibili non si può permettere il lusso di inseguire soltanto gli umori elettoralistici, ma deve convincere la gente che è più conveniente cercare di scalare la classifica mondiale (dati Ocse, Cepej e Banca mondiale) della durata media dei procedimenti di primo grado che ci vede con un numero di giorni più che superiori alla media (564 contro 238), per non parlare di quelli necessari per l’appello (1113 contro 236). Finanche la reputazione internazionale dell’Italia si accrescerebbe se si spargesse la voce che sulla giustizia civile si sta facendo sul serio.

Perché questa sensazione non sia effimera, occorrono risorse adeguate da mettere su due filoni d’intervento. Il primo riguarda la macchina giudiziaria nel suo complesso, che va riorganizzata nelle funzioni, potenziata nella strumentazione (sempre l’Ocse certifica che è strategica la quota del bilancio pubblico destinata all’informatizzazione: dove è più alta, migliori sono i risultati), rinvigorita negli organici. Su questo fronte, c’è molto da fare anche in termini di innovazione contrattuale e di formazione professionale, soprattutto verso i giovani, favorendo l’incontro tra scuola e università da un lato e Tribunale e avvocatura dall’altro. Il secondo filone d’intervento riguarda la pratica della mediazione obbligatoria, su cui il Governo è intervenuto nuovamente per renderla meglio praticabile. Ma essa non ha una buona fama, molti la considerano un ulteriore e inutile allungamento dei tempi. Se a prevalere è la cultura del “fammi causa”, sarà inevitabilmente così, ma se la riforma nel suo insieme si consolidasse e si tornasse al più lecito “ti faccio causa”, la mediazione diventa, prima che obbligatoria, conveniente perché fa risparmiare tempo e soldi.

Il Paese è attraversato da tante tensioni che di giorno in giorno tendono a spezzate i fili della coesione sociale. In particolare, cresce l’esasperazione verso ogni forma di disuguaglianza, specie se la massa di persone che non hanno lavoro si allarga senza tregua. In questo scenario, investire sulla giustizia non solo può essere un intervento labour intensive, non solo consente di alleggerire un gravame che si ingrossa sempre di più, ma diventa messaggio di alleanza sociale, di gratificazione dei giusti, di maggiore credibilità dello Stato.

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