Il Decreto legge 20 marzo 2014 n. 34 non dovrebbe essere altro che il primo di una serie di provvedimenti finalizzati, nell’insieme, a dar corpo a quello che il presidente Renzi definisce, per estrosità linguistica, Jobs Act, vale a dire la settima riforma del mercato del lavoro varata in Italia dall’autunno del 1997.
Com’era facilmente prevedibile, sta suscitando forti avversità in chi è convinto che la flessibilità, comunque coniugata, rappresenti un vulnus intollerabile ai principi civili e legali in materia di lavoro, secondo cui i rapporti di lavoro sarebbero di regola, di norma, preferibilmente, prioritariamente, a tempo indeterminato, salvo deroghe rigorosamente circoscritte. E si è riaperto uno stanco e ripetitivo dibattito sulla precarizzazione del lavoro, che il buon senso vorrebbe non si traducesse, per effetto di mediazioni e bilanciamenti, nelle soluzioni ambigue già sperimentate in passate, fonte ad un tempo di intasamento dei tribunali, di implementazione del giro d’affari degli studi legali e di diffusione delle prestazioni in nero.
Nel merito, dei sei articoli che compongono l’atto legislativo, i primi due manifestano debolezze tecniche che rischiano di vanificare le finalità per cui sono stati concepiti.
Per i contratti a termine, infatti, la non abrogazione dei termini di legge nell’interruzione tra la fine di un rapporto e la sua proroga indebolisce la finalità semplificatrice connessa all’ampliamento dell’acausalità e alla reiterazione delle proroghe nell’arco massimo di 36 mesi, senza contare che potrebbe tradursi nella successione di contratti di breve/media durata che coinvolgano persone sempre diverse, impegnate in mansioni di modesto livello e, quindi, retribuite ai minimi delle scale salariali. Sarebbe stato, per altro, un atto di chiarezza riconoscere l’acausalità per la somministrazione di lavoro non per similitudine ed estensione, come è stato fatto, bensì per corretta applicazione della Direttiva europea n. 2008/104 del 19/XI/2008, che sancisce l’autonomia della fattispecie, e per puntuale osservanza della sentenza della Corte di giustizia UE n. C-290/12 dell’11/04/2013, che ha sancito l’acausalità strutturale come uno dei requisiti del lavoro tramite Agenzia.
Per il contratto di apprendistato è a dir poco sorprendente la discrezionalità del piano formativo. E’ in esso l’elemento caratterizzante di tale fattispecie contrattuale, la motivazione cui si legano gli sgravi contributivi e il sottinquadramento. In assenza della sua precisa definizione temporale e contenutistica, formalizzata all’instaurazione del rapporto e sottoposta a tutoraggi e verifiche in itinere, è molto probabile che le imprese possano trovarsi, anche dopo molti anni, a dover rispondere dell’appropriazione indebita dei benefici pubblici ricevuti e a doverli restituire maggiorati di penali, più o meno come è accaduto per i contratti di formazione-lavoro.
Queste rapide note critiche dovrebbero far riflettere che il problema della semplificazione degli adempimenti è cosa buona e giusta, ma che va fatta con attenzione; invece, il dibattito si attarda sulla questione di principio dell’eccezionalità dell’apposizione del termine ai rapporti di lavoro, spostando l’attenzione sulla necessità di obblighi e impedimenti, allo scopo di scoraggiarne, se non impedirne del tutto, l’uso.
Non è dato sapere oggi cosa accadrà in sede di conversione in legge del Decreto. Sembra, però, maturo il tempo di fare una buona volta un ragionamento a tutto campo sulla necessità di una nuova configurazione dei rapporti di lavoro in un contesto economico, tecnologico e organizzativo in costante evoluzione all’incirca da trenta anni. Un tale esercizio contribuirebbe alle scelte di un giovane Presidente del Consiglio animato da una profonda volontà riformatrice, ma non immune dall’avventatezza della fretta; incoraggerebbe, inoltre, soprattutto il mondo sindacale a riesaminare le sue strategie non per accondiscendenza ai precetti del mercatismo, bensì per allargare l’area della sua capacità di rappresentanza e di protezione dell’insieme del mondo del lavoro dipendente e, perché no, autonomo.
Su questa linea il primo atto da compiere è una ridefinizione del concetto stesso di precarietà del lavoro, che non può essere circoscritto soltanto alla durata, ma deve necessariamente ricomprendere i trattamenti economici e contributivi, nonché le protezioni sindacali. Bene! Non credo che ci possa essere un’anima bella che arrivi a considerare la disparità di durata di un rapporto di lavoro più grave e inaccettabile della disparità economica, contributiva e sindacale; nondimeno, di anime belle che hanno sostenuto e sostengono questa tesi sono pieni i sindacati, le sedi politiche, i giornali, i socialnetwork, i talk shows televisivi e radiofonici e finanche qualche curia.
La prima linea di attacco è proprio contro questo paradosso, per cui l’imperativo categorico sarebbe di vietare la disparità più grave; nella fase di primo ingresso al lavoro o in presenza di situazioni di transizione condivise dalla parti sociali, si possono anche prevedere riduzioni salariali quantificate, come si possono stabilire per legge riduzioni contributive, ma inderogabilmente a termine e senza possibilità di ammissione di altre deroghe.
Acclarato questo aspetto, non può non seguirne che la legittimità dell’apposizione del termine debba essere pienamente riconosciuta e non in deroga, come accade oggi, con tutte le criticità che si vengono a determinare in presenza di contenziosi, il cui esito è lasciato di volta in volta all’abilità interpretativa o alle propensioni politiche/sociali dei magistrati.
Se seguiamo questa linea di ragionamento, non ci vuol molto a considerare che solo tre fattispecie di rapporto a termine hanno i requisiti pieni della legittimazione: il tempo determinato, la somministrazione di lavoro, l’apprendistato e, per quanto mi riguarda, considererei saggio reintrodurre i contratti d’inserimento, invisi alla prof. Fornero, che, invece, predilige i precarissimi stage e tirocini, che dovrebbero rimanere in vita solo per integrare i percorsi scolastici.
Cosa se ne fa, a questo punto, dei contratti di lavoro parasubordinato e delle partite IVA?
Le collaborazioni dovrebbero essere rigorosamente e definitivamente ridimensionate, rendendole legittime solo per le posizioni di alto profilo (amministratori di società, consulenti con forti e documentate esperienze alle spalle, temporary managers) ed escludendo una volta per tutte le prestazioni puramente esecutive, che, nonostante qualche incremento di costo previdenziale, continuano a imperversare.
Si potrebbero tenere in vita nelle start up, in cui il più delle volte le posizioni di socio e di lavoratore coincidono.
Per le partite IVA, invece, logica vorrebbe che fossero gli uffici delle finanze a ridefinire i requisiti per l’ottenimento delle iscrizioni, fissandoli nell’insieme di percorsi formativi, esperienze, livello di responsabilità e autonomia operativa, a prescindere dalla quantità dei committenti e dalla disponibilità o meno di una scrivania presso di loro.
Ripulito il campo delle troppe forme di precarietà oggi legalmente in atto, sarebbe indispensabile collegare a tutte le forme di lavoro a termine contribuzioni aggiuntive sia a sostegno della formazione d’ingresso che a quella continua, con l’aggiunta di tutele integrative rispetto a quelle ordinamentali.
Il sistema delle Agenzie per il lavoro ha già costruito per via negoziale e senza alcun aggravio per la spesa pubblica una buona pratica di flexsecurity; ci vorrebbe poco a estenderla e a rafforzarla.
In un contesto semplificato e chiarificato quale quello delineato, il collante più forte dovrebbe, infine, essere rappresentato da un nuovo modello di protezione sociale in caso di ritardo nell’accesso al lavoro o di disoccupazione involontaria, che non faccia più perno sull’assistenzialismo, ma sugl’impieghi sociali, sulla formazione professionale e sulla responsabilizzazione individuale, a fronte di sussidi decenti. E qui non c’è dubbio che sarebbero necessarie risorse pubbliche che, in parte, ci sono di già e, in parte, potrebbero essere recuperate nell’ordine di alcuni miliardi di euro nazionali e comunitari oggi in larga misura sprecate dall’esteso e invasivo clientelismo regionale.
Per concludere, non mi sfugge di aver toccato temi complessi e dolenti e di averli toccati di sicuro per grandi linee, ma mi sembra improbabile che si possa andare avanti tra lamentele e insoddisfazioni, tra attaccamento a paradigmi che giustamente definiamo conquiste e rassegnazione a vederli sfuggire dalle mani, tra rimpianti per il bel tempo andato e paure di fare i conti con il tempo presente.
* Vice Presidente Quanta