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Una scommessa, non un azzardo

Niente di veramente nuovo sul fronte occidentale. Era già scritto nelle cose che, se la Fiat avesse acquisito il 100% del capitale della Chrysler, sarebbe iniziata una nuova storia dell’auto di matrice italiana. La fusione di due aziende della stazza della Fiat (115 anni di storia) e della Chrysler (90 anni) non può che far nascere una identità nuova. Che non riguarda soltanto il nome (non ancora deciso, mentre i marchi resteranno a quanto par di capire), né la sede non formale ma di comando (se la quotazione è a Wall Street, si può dire anche che ci saranno tanti quartier generali quanti presidi continentali avrà la nuova azienda, ma è negli Usa che si deciderà sempre di più), né il management (Marchionne è stato riconfermato per altri 3 anni). 

Riguarderà fondamentalmente la qualità deI prodotto che offrirà sul mercato. La Fiat era l’auto che tutti potevano comprare, l’auto popolare. La Chrysler era l’auto della middle class americana. Ora, integrate, andranno sopratutto a caccia dei compratori benestanti di tutto il mondo. Anzi, per le produzioni che verranno fatte negli stabilimenti italiani, il profilo è ancora più raffinato. Ritorna in prima fila l’Alfa Romeo, vera novità della strategia aggressiva dell’ impresa globale, fino alla Maserati da 150.000 euro.  La fascia “premium” diventa l’ossatura portante della sesta azienda del mondo. L’assalto al lusso crescente in tutto il mondo è la “scommessa” della coppia Elkann – Marchionne.

Scommessa, non azzardo. Per il semplice motivo che non solo la globalizzazione impone che la gamma bassa di produzione sia largamente acquisita dalle economie emergenti (non a caso sarà appannaggio degli stabilimenti brasiliani), dove i prezzi delle auto possono essere contenuti per tanti motivi ma soprattutto perché i volumi possono essere consistenti dato il livello di benessere da cui quei paesi partono, ma anche perché, nei paesi dalle economie mature, è possibile il mantenimento di standard di vita e di lavoro acquisiti, soltanto a condizione che il valore aggiunto di ciò che si produce sia elevato. Lo si capisce meglio se ci spostiamo a Nord Est, a Pordenone dove l’Unione industriale locale è giunta a proporre una riduzione del 20% dl costo dl lavoro (che include anche la paga) come condizione per tutelare i livelli occupazionali del territorio ed evitare una disastrosa deindustrializzazione, a partire dalla Elettrolux che ha shockato tutti con la richiesta di riduzione del 15% del salario dei lavoratori dei quattro stabilimenti italiani oltre allo stop ai premi, agli scatti d’anzianità, al pagamento delle festività.

Di questa scommessa, componente decisiva, oltre la qualità del prodotto, è l’organizzazione del lavoro, imperniata sul Wcm (World class manufacturing), un sistema di strutturazione degli impianti che supera la catena di montaggio, utilizza piattaforme tecnologiche d’avanguardia, coinvolge direttamente i lavoratori nella definizione  ed implementazione del processo produttivo. L’accordo con il Veba Trust (fondo pensionistico e sanitario dei lavoratori del settore auto americano) esplicitamente afferma che “la Uaw  assumerà alcuni impegni…..partecipando attivamente alle attività di benchmarking collegate all’implementazione di tali programmi in tutti gli stabilimenti Fiat-Chrysler al fine di garantire valutazioni obiettive della performance e la corretta applicazione dei principi del Wcm e a contribuire attivamente al raggiungimento del piano industriale di lungo termine del Gruppo”. 

A questa prospettiva non si potranno sottrarre i lavoratori italiani e i loro sindacati. Quel “tutti gli stabilimenti” lo spiega senza mezzi termini. Non fosse altro, perché il Wcm è costoso, implica grossi investimenti e forte “governabilità” degli impianti. Ma se ce la fanno i lavoratori statunitensi, ce la potranno fare anche quelli italiani. Se rientreranno tutti dalla lunga cassa integrazione che stanno subendo. Il “se” è d’obbligo e forse a metà anno, quando Marchionne presenterà il piano prodotti, ne sapremo di più. Ma il sindacato è chiamato ad una sfida impegnativa e l’unico modo per testare la volontà reale della nuova azienda è quello di prepararsi alla gestione partecipativa di questa nuova stagione dell’industria automobilistica nel nostro Paese. 

La partecipazione alle scelte strategiche diventa sempre più stringente. Dal reparto al vertice. Quindi riguarda tutti i protagonisti, a partire dall’azienda Investimenti altamente tecnologici, processi produttivi e commerciali integrati e coinvolgimento delle persone sembrano gli ingredienti decisivi per fare buone macchine e avere buoni salari. Ma la conoscenza e la condivisione diventano le chiavi di volta per massimizzare quegli ingredienti. L’azienda deve fare la sua parte; non basterà più un comunicato per esaurire il confronto e l’informazione. Il sindacato non può stare sulla soglia o addirittura fuori della stanza dei bottoni. Il sindacato americano ne ha fatto il centro della propria strategia di azione e di forza della propria autonomia. Non soffre di subalternità verso i nuovi proprietari. Lo stesso atteggiamento ci si aspetta dal sindacato italiano, anche dalle componenti che finora sono state più riottose a dare senso alla partecipazione. Anche per tutti loro è una scommessa, non un azzardo.

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