Il dibattito sui correttivi da apportare alla politica economica dell’Unione Monetaria
è deludente. Le richieste si basano sulla facoltà di sforare di qualche decimo il vincolo del 3%, abbinata alla disponibilità a “fare i compiti”, di fatto a ridurre le tasse, finanziandole con una riduzione di pari importo delle spese, cioè con un’operazione intrinsecamente restrittiva.
Manca una proposta che possa dar luogo a Bruxelles a un’ampia discussione. Una proposta del genere deve rispondere a due requisiti: a) deve riguardare le finalità e il modus operandi della politica economica nel suo complesso; b) deve ricercare, attraverso opportuni contatti diplomatici, il consenso della Francia e degli altri Pigs. Una ricetta in grado di soddisfare questi due pre-requisiti può essere immaginata, osservando preliminarmente che: a) la disoccupazione e la povertà sono per diffusione e dimensioni problemi europei, nel senso che coinvolgono molti paesi e non possono essere risolti sul piano nazionale: le persone a rischio povertà nell’unione sfiorano gli 80 milioni, in Italia i poveri sono 5 milioni, il tasso di disoccupazione è del 13%, in Spagna vi sono 3 milioni di bambini poveri e il tasso di disoccupazione è del 26,7%; b) la causa principale della situazione dei paesi vulnerabili ed in particolare dell’Italia, è la perdurante carenza di domanda interna: senza un rilancio della domanda è illusorio pensare a un superamento del prolungato appiattimento ciclico. Una proposta di modifica della politica economica europea può essere la seguente. All’inizio di ogni anno, la Commissione prende in considerazione i valori dell’anno precedente di due indicatori: il tasso di disoccupazione e i saldi delle partite correnti. Si potrebbe pensare a un indice di disuguaglianza come l’indice Gini. La Commissione individua così i paesi che per un anno hanno registrato avanzi di parte corrente e quindi eccessi di risparmio interno come la Germania. Contemporaneamente, sono selezionati i Paesi che nello stesso periodo hanno invece avuto tassi di disoccupazione superiori al 10%, come Spagna e Italia. I primi, quelli in surplus, hanno avuto margini inutilizzati di domanda interna, di fatto importando domanda dagli altri Paesi, dentro e fuori l’unione. I secondi (nell’esempio, Spagna e Italia) si trovano nella situazione opposta: hanno esportato parte della domanda verso i paesi in surplus. Per riequilibrare la situazione economica e occupazionale nei due gruppi, i primi devono aumentare l’assorbimento interno, incrementando la spesa per consumi e investimenti. Già nell’ultima review della Mip ( Macroeconomic Imbalances Procedure), la Commissione ha invitato la Germania ad aumentare la domanda interna e la crescita potenziale. Ma è una ricetta nei fatti sbagliata perché la nuova spesa tedesca si indirizzerà verso prodotti non provenienti dai paesi deboli dell’unione. Occorre evitare che ciò avvenga, assicurando che la spesa dei Paesi in surplus si rivolga effettivamente verso i prodotti di quelli a più elevata disoccupazione. Ma come? Può essere fatto attraverso un apposito Fondo per il riequilibrio della crescita, non un fondo salvastati o salvabanche ma per la lotta alla disoccupazione e alla povertà. Più che intervenire direttamente sulla spesa, i Paesi in surplus dovranno finanziare tale fondo in proporzione ai loro avanzi correnti. Le risorse del Fondo sono destinate a sostenere la domanda interna dei Paesi con tassi di disoccupazione superiori alla soglia predeterminata. Nel caso in cui in un paese il cui tasso di disoccupazione ha superato nell’anno precedente il 10%, esso potrà beneficiare delle risorse del Fondo in modo immediato e senza condizioni. Tali risorse però vanno utilizzate per sostenere differenti tipologie delle domande interne: quelle dei settori in crisi e a più elevata disoccupazione, oppure quelle dei settori a più alto impatto moltiplicativo dell’output e dell’occupazione. Spetterà alla Commissione individuare i settori beneficiari, verificare effettiva destinazione delle risorse o degli incentivi nonché l’esistenza di una domanda interna ed estera dei beni la cui produzione è stata sovvenzionata. Le varie tipologie delle domande saranno sostenute con varie forme di incentivi, a seconda delle caratteristiche delle stesse ma sempre con positive ricadute sull’occupazione e la povertà. È probabile che la Germania non accetterebbe di finanziare il nuovo Fondo e fingerà di non capirne la ragione: salvare l’unione. Ma allora occorre farle capire davvero che l’area euro è grande ma non troppo grande per fallire.
(*) Professore associato di Economia Internazionale e Politica Economica. Università della Tuscia