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La via per uscire è già nel Job Act

All’indomani dalla pubblicazione della sentenza del Tribunale di Torino n.778/2018 riguardante la natura giuridica del rapporto lavorativo dei fattorini della ditta Foodora, incaricati della consegna di derrate alimentari nella città di Torino, il supplemento del Corriere della Sera del 7 maggio 2018 illustrava la realtà economico aziendale globale di quello che ora viene chiamato Gig Economy e delle macro-aziende del settore.

In questa Sede non è tanto rilevante un commento della motivazione della sentenza che ha rigettato il ricorso dei lavoratori tendente a veder riconosciuto la natura subordinata del rapporto di lavoro, quanto a verificare se e  come l’ordinamento italiano si è posto il problema, evidentemente tutt’altro che  marginale,  delle tutele dei numerosi giovani lavoratori interessati.

Ebbene questa volta occorre riconoscere che il legislatore italiano, che tante polemiche ha sollevato con l’introduzione nella legislazione giuslavoristica del famigerato jobs act, non ha esitato a farsi carico della modifica normativa della disciplina delle Collaborazioni organizzate dal committente (D. Lgs. 15.6.2015 n. 81 art.2) come quelle istaurate dalla soc. Foodora che 

  1. A tali rapporti ha attribuito il nome di “collaborazione coordinata e continuativa”, mentre
  2. i lavoratori non sono riusciti a provare la subordinazione né tanto meno l’eterodirezione.

Ma sicuramente era innegabile che il committente organizzava l’attività dei fattorini che era demandata a un algoritmo proprio del committente che vincolava e disciplinava tutta l’attività dell’azienda nel che si caratterizzava l’originalità dell’oggetto sociale.

E quindi sicuramente è un caso di “Collaborazione organizzata dal committente” di cui all’art. 2 del d.lgs. 15.6.2015 n. 183, conformemente alle indicazioni della legge delega 10.12.2014, n. 81  art. 1, c.7.

Indicazioni esplicitamente finalizzate alla semplificazione delle figure dei rapporti di lavoro dipendente per favorire, per quanto possibile,  la figura del rapporto di lavoro non solo subordinato ma addirittura  a tempo indeterminato, così come indica la disciplina (e le agevolazioni) del rapporto di lavoro a tutele crescenti.

Questa collaborazione organizzata, ma non necessariamente diretta dal committente, si verifica quando tutto consegue da un algoritmo predisposto che, come tale, prescinde da figure e funzioni direttive.

Le argomentazioni tutte formalistiche  che negano la valenza della norma delegata, basandosi soltanto sulla rilevanza ritenuta dirimente dell’avverbio “anche” (e in tal modo negandole ogni rilevanza pratica), avrebbero dovuto seguire un metodo interpretativo più convincente, come peraltro imposto dalle Preleggi al codice civile.

A questo penserà sicuramente la Corte di Cassazione quando verrà chiamata a interpretare la volontà del legislatore in maniera definitiva, ma certo nel frattempo non guasterebbe un intervento anche a livello amministrativo.

Certo sorprende che anche in questa vertenza pilota non siano stati evocati in giudizio anche gli Istituti previdenziali e assicurativi, se non altro perché  è ormai chiaro che il costo del lavoro non può essere conseguenza acritica del vecchio dualismo subordinazione/autonomia, mentre è drammaticamente attuale la questione della tutela dei diritti dei lavoratori, di tutti i lavoratori.

A tal fine occorre tener presente lo sforzo innovativo rappresentato dalla legge  22.5.2017 n. 81 (Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale) recentemente illustrata dalla circolare INPS n.69 dell’11 maggio 2018 , legge del tutto ignorata dal Tribunale di Torino.

Quello che ora occorre evitare è la prassi di sovrapporre riforma a riforma (magari con una leggina affrettata e arruffona come la chiama Umberto Romagnoli), mentre occorre intensificare la verifica sul campo della idoneità della normativa in vigore, auspicabilmente potenziando l’attività ispettiva e l’autotutela delle Amministrazioni interessate.

 

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