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Governance europea, al primo posto il benessere

Molti hanno notato recentemente una serie di segnali positivi sulle tematiche degli indicatori di benessere, come riferimento delle politiche economiche.[1] Certamente, va al primo posto l’approdo nel percorso di finanza pubblica degli indicatori del BES, cioè del Benessere equo e sostenibile; la riforma della legge di Bilancio, approvata a luglio scorso, prevede, infatti, per la prima volta, l’utilizzo degli indicatori di benessere nella valutazione delle politiche economiche. Questa dovrebbe essere condotta da ora in avanti considerando tutte le dimensioni del benessere e non solo il reddito. Si tratta naturalmente di un antipasto leggero, di un primo approccio.

Nel Documento di Economia e Finanza uscito ad aprile sono stati presentati quattro indicatori tra i vari del BES;[2] ma, oltre che allargare il riferimento e renderlo più robusto, bisognerà intervenire soprattutto per riportare la definizione dello strumento e l’analisi congiunta ad uno spazio di condivisione con le parti sociali e le associazioni della società civile; così come era stato definito a suo tempo nella collaborazione istituzionale tra CNEL e ISTAT. La soluzione che ha affidato la verifica delle politiche pubbliche attraverso il BES al Comitato misto amministrazioni (MEF, Banca d’Italia, ISTAT) e esperti non è soddisfacente, perché non dà nessun ruolo agli stakeholder, ai portatori di interesse. E perché le scelte fatte (dall’individuazione degli indicatori alla modellizzazione) finiscono per essere considerate potenzialmente di parte. Su questo punto è auspicabile che si ritorni. C’è la possibilità che un CNEL profondamente rinnovato torni a lavorare su questa partita, positivamente, come è stato nella fase di progettazione e implementazione? Personalmente penso di sì, ma ci potrebbero essere anche altre soluzioni.

Intanto, legittimamente, Pier Carlo Padoan può affermare che l’Italia è il primo paese dentro il G7, primo tra i paesi avanzati, ad utilizzare il Benessere equo e sostenibile come metro della politica economica. E non è cosa da poco. Ma sarebbe necessario che la strada intrapresa dal nostro paese sulla scia dei suggerimenti della Commissione Stiglitz[3] sia seguita anche da altri.

E a proposito del G7 Finanze, proprio dal cosiddetto «Manifesto di Bari» è venuto il riconoscimento da parte dei maggiori governi di un preoccupante aumento delle disuguaglianze interne nei diversi paesi e che questo sta avendo conseguenze largamente negative sullo sviluppo. Si è detto che “la diffusione dei vantaggi di una maggiore prosperità richiede un approccio multidimensionale e nazionale. Sono necessari pacchetti politici completi, coerenti ed efficaci, che vanno oltre l’obiettivo del reddito per coprire altre dimensioni fondamentali del benessere, necessarie per affrontare efficacemente la diseguaglianza e contribuire alla crescita forte, sostenibile, equilibrata e inclusiva.[4] Se le politiche devono essere multidimensionali e integrate, ne consegue che le conoscenze non possono essere parziali, frammentarie e isolate. Tema largamente presente nell’Enciclica “Laudato si’”.[5]

E in questa breve rassegna non può mancare anche la messa a punto degli indicatori Onu per la misura degli Obiettivi di sviluppo sostenibile. L’Agenda 2030 delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile, che individua 17 obiettivi globali (SDGs) e 169 target, dà ai paesi, ma anche agli attori economici, una serie di obiettivi quantitativi e qualitativi connessi a specifici target, che rappresentano linee guida e parametri internazionalmente condivisi, utili per le nuove priorità dello sviluppo sostenibile, nonché per un monitoraggio dei processi e una valutazione dei risultati.

Ma la sfida maggiore rimane l’inserimento di un approccio multidimensionale al Benessere nella Governance europea.

 

Dal fiscal compact al well-being compact

 

L’Unione Europea è nata da una parte per evitare le guerre che hanno insanguinato il Novecento; dall’altro per l’urgenza di contare di più, tutti insieme, in un mondo che diventava più piccolo e più esposto ai condizionamenti delle politiche dei grandi, enormi paesi che potevano disporre di una voce sola. Ma ad un certo punto l’Europa ha iniziato a non essere più percepita dai suoi cittadini come un’opportunità, ma piuttosto come uno svantaggio; la crescita del populismo antieuropeo si nutre da un lato dall’idea della lontananza delle istituzioni europee dai cittadini, dall’altro dalla non accettazione di politiche che vengono considerate controproducenti rispetto agli interessi dei paesi e della grande maggioranza della popolazione.

L’Europa, da garanzia di uno sviluppo più rapido e coeso nella cooperazione tra paesi, è diventata, nella percezione, sempre più matrigna, fatta per imporre politiche e misure, che non si sarebbe voluto perseguire. “Lo chiede l’Europa” è diventata per troppo tempo la comoda scorciatoia della politica nazionale per fare scelte impopolari. E nel fare questo si consumava un prezioso patrimonio di attaccamento agli ideali europei. Nella stessa pubblicazione del Parlamento europeo, che tiene il polso della fiducia verso le istituzioni, si dice che una crescente maggioranza ritiene che le cose nell’Unione stiano andando nella direzione sbagliata; si tratta del 58% di coloro che rispondevano alla domanda specifica nell’intervista nei mesi di settembre – ottobre 2016 contro il 27% di coloro che ritenevano che le cose andassero nel verso giusto. Coloro che non sono soddisfatti degli orientamenti europei sono aumentati di oltre 13 punti rispetto al settembre 2015. In pochissimi casi prevalgono gli ottimisti, mentre al fondo della classifica si trovano i cittadini dei paesi che hanno maggiormente risentito della crisi e che sono stati chiamati a forti interventi di ristrutturazione finanziaria, come Grecia, Spagna, Italia e Portogallo; solo il 10% dei greci e poco più del 20% degli italiani pensano che le cose stiano andando nella direzione giusta.[6]

Un altro elemento molto allarmante è che quasi il 60% dei cittadini europei ritiene che la propria voce non conti all’interno dell’Unione contro il 37% di coloro che invece ritiene di avere una certa influenza. Le differenze tra i paesi sono in questo caso ancora più ampie: gli scandinavi e i cittadini del Nord Europa ritengono di contare di più rispetto a quanto avviene a Sud e a Est.

Questa forte e crescente frattura tra i cittadini e le istituzioni europee deriva dall’aver concentrato l’obiettivo strategico dell’Unione Europea sul controllo esclusivo della finanza pubblica da attuare attraverso le politiche di austerità. Chi le ha sostenute riteneva che quelle politiche sarebbero state auto espansive, capaci cioè di annullare e, anzi, superare gli impulsi recessivi derivanti dalla riduzione dei deficit pubblici; tutto ciò si sarebbe dovuto innescare attraverso le aspettative favorevoli di una minore, futura pressione fiscale. La definizione delle politiche di austerità ha posto al centro dell’attenzione i parametri di equilibrio della finanza pubblica; il resto passava così in secondo piano; i rapporti deficit/Pil e debito/Pil assumevano di fatto una valenza costituzionale. E’ avvenuto così che la scelta del rigore della finanza pubblica è stata basata su indicatori specifici, che non solo orientano strettamente la politica economica, ma assumono principio fondativo.

Come suggerito da Amartya Sen, discutere di indicatori significa ragionare sui fini ultimi di una società. La scelta degli indicatori è un passo cruciale, non una funzione tecnica. Infatti, definire il “cosa si misura” influenza il “cosa si fa”. Pareggio di bilancio e convergenza del debito hanno, dunque, assunto un rilievo primario. E’ vero che nelle varie Costituzioni, e anche in quella italiana, come negli stessi Trattati sono affermati “altri” principi di tenuta sociale; questi obiettivi, però, sono generici ed indefiniti, mentre quelli europei di finanza pubblica sono specifici, determinati ed anche rafforzati da sanzioni.

Le politiche di austerità non hanno avuto successo e hanno compresso in Europa il tasso di sviluppo; come hanno dimostrato le analisi anche del Fondo Monetario Internazionale, il demoltiplicatore della spesa pubblica era ben più elevato di quello ipotizzato e ha avuto un impatto ben più ampio e negativo di quello che si aspettavano i sostenitori. Le manovre di riduzione del deficit da parte di alcuni paesi non sono state compensate da politiche più espansive di altri e lo scenario complessivo è stato dunque caratterizzato da impulsi recessivi.

Le politiche del fiscal compact non hanno portato al miglioramento della situazione economica complessiva e i cittadini europei ne hanno dovuto prendere atto; questo ha certamente contribuito ad allargare la frattura tra istituzioni e cittadini. Ma sulla presa di distanza ha inciso soprattutto il fatto che il benessere delle persone non ha un riferimento diretto, esplicito, univoco nell’azione politica europea. Quando si sono assunti gli obiettivi di finanza pubblica come vincolanti, si è ritenuto che questo massimizzasse la crescita di lungo periodo del PIL; e che questa a sua volta sarebbe stata in qualche modo correlata al miglioramento del benessere degli individui. Si tratta di due ipotesi non necessariamente verificate e che vengono oggi entrambe contestate. Si poteva ricondurre tutto all’obiettivo della stabilità della finanza pubblica?

 

Le ragioni dell’Europa e della stessa moneta unica vanno molto al di là della stabilità finanziaria ed anche economica, che pure sono importanti. I nostri sistemi di misura sono, dunque, risultati incompleti e conseguentemente le stesse politiche sono state sbagliate. Il fatto è che se ci limitiamo a guardare soltanto alcuni indicatori, determiniamo di fatto una gerarchia all’interno degli obiettivi e delle linee di azione; scegliere alcuni indicatori (sulla stabilità finanziaria piuttosto che sulla crescita del capitale umano) significa dichiarare che le politiche che quelli rappresentano sono essenziali, mentre le altre sono tendenzialmente residuali. Bisogna ampliare il target, perché le persone vi si possano riconoscere. Ed i target, con indicatori appropriati, devono essere il benessere, la qualità della vita e il progresso nell’Unione. Non a caso l’art. 3 del Trattato Europeo dice che “L’Unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli” e specifica che l’Unione si adopera per lo sviluppo sostenibile, il progresso sociale, il miglioramento della qualità dell’ambiente, la promozione del progresso scientifico e tecnologico.

Ed è così che già da un po’ di tempo abbiamo proposto di bilanciare, nella governance europea, il fiscal compact con il well-being compact, cioè con un sistema di indicatori che segnali attentamente ai politici e a tutta la società l’andamento del benessere collettivo nell’Unione. La governance deve ampliare gli indicatori di riferimento dai parametri finanziari e di bilancio pubblico agli indicatori di benessere equo e sostenibile. Abbiamo specificato che passare dal fiscal compact al well-being compact non significa necessariamente dimenticarsi della sostenibilità della finanza pubblica di breve e di lungo periodo, ma ricostruirla in un quadro più forte, che si faccia carico della crescita della fiducia dei cittadini verso le istituzioni nazionali e dell’Unione. E puntare a riconciliare anche in questo modo gli europei con l’istituzione, che è il loro progetto di pace e benessere.[7]

Come fare del benessere il perno delle strategie politiche dentro la governance europea? Come suggerito a suo tempo dalla Commissione Stiglitz – Fitoussi – Sen e poi recentemente ricordato dal premio Nobel Michael Spence[8] in successione occorre:

  1. decidere quali sono le cose importanti nella nostra società;
  2. cercare di misurarle;
  3. verificare se si stanno facendo progressi rispetto alle cose che si ritengono importanti.

A quel punto, dice Spence, entra in gioco un elemento di creatività nel cercare di spostare l’ago della bilancia sulle cose importanti.  E’ questo il mestiere della politica che deve destinare risorse limitate su obiettivi che possono essere anche concorrenti, se non addirittura in contrasto tra di loro.

Ma il processo di definizione degli obiettivi, di approntamento degli indicatori specifici, di verifica dei risultati deve essere un processo condiviso; non può essere inteso come un percorso da compiere in solitudine, in un ambito puramente tecnocratico, che definisca in via autonoma quali siano i valori, la scala delle priorità, i trade off, così come i modelli di analisi e la lettura dei risultati. Se, invece, viene tutto risolto in una commissione più o meno tecnica non si è in presenza della necessaria terzietà, indispensabile per rafforzare il Patto tra la politica e i cittadini. Processo condiviso, dunque partecipato dalla società, certamente in una sede di confronto “esperto”, non puramente politico; in cui i soggetti che istruiscono il confronto siano competenti, sappiano leggere gli indicatori e abbiano chiaro il terreno su cui ci si deve muovere.

 

Come mettere il Benessere al primo posto

Un interessante contributo all’avanzamento del tema dell’utilizzo degli indicatori di benessere nella governance europea è venuto recentemente da Georg Feigl, un giovane economista austriaco in un contributo all’ETUI, l’Istituto sindacale europeo, ovvero l’istituto di ricerca della CES.  Scrive: “Abbiamo bisogno una riforma della governance che ponga al primo posto il benessere. Questa esigenza dovrebbe essere affrontata definendo un quadro preciso di concreti obiettivi economici, ambientali e sociali, sostenuti da indicatori che servano a misurare i progressi compiuti e una procedura per stabilire priorità definite discrezionalmente sulla base dell’attuale situazione economica, ambientale e sociale.”[9] Si fa riferimento, dunque, ad un Patto europeo che punti alla Sostenibilità ed all’Equità dello sviluppo. Feigl ricorda l’esperienza tedesca del “Quadrato Magico” della fine degli anni ’60, che si proponeva di raggiungere contemporaneamente e per il maggior tempo possibile risultati rispetto ai quattro principali obiettivi economici allora individuati: la stabilità dello sviluppo economico, la bassa inflazione, un’elevata occupazione e l’equilibrio della bilancia dei pagamenti; si definiva magico, perché si trattava di un equilibrio eccellente, difficile da raggiungere, dato che questi obiettivi nell’esperienza erano in contrasto l’uno con l’altro. E’ bene notare che lo strumento del “Quadrato magico” veniva costruito al momento della definizione in Germania del programma di azione concertata tra sindacati e governo.

Feigl, anche sulla base di altre proposte, aggiorna quest’impostazione suggerendo un “poligono magico”, che tiene conto naturalmente del quadro mutato e delle preoccupazioni attuali. Si tratta non solo dell’introduzione dei vincoli della sostenibilità ambientale e sociale, ma anche della critica alla capacità segnaletica del PIL, la crisi finanziaria, il problema della sostenibilità del settore pubblico, la crescente esigenza di elevata qualità del lavoro. Il quadrato, dunque, si allarga ad un poligono. Nell’impostazione di Feigl gli elementi da considerare nel poligono sarebbero:

 

  • il benessere materiale, da intendere come disponibilità di reddito e di consumo, equamente distribuito;
  • la piena occupazione e la qualità del lavoro;
  • la sostenibilità ecologica;
  • la stabilità dell’attività del settore pubblico, da intendersi sia con riferimento alla crescita degli investimenti pubblici in infrastrutture e macchinari sia alla stabilità di lungo periodo della finanza pubblica;
  • l’equilibrio dei conti con l’estero;
  • la stabilità dei prezzi;
  • la stabilità finanziaria;
  • la qualità della vita.

Questi diversi capitoli dovrebbero essere specificati attraverso indicatori che dessero modo di valutare i progressi (e eventualmente gli arretramenti) nei diversi ambiti.

In termini di governance Feigl giustamente insiste sul fatto che l’enfasi dovrebbe essere posta sull’aggregato europeo e poi in successione sulle economie nazionali. Oggi, invece, la governance è tutta mirata ai risultati dei singoli paesi ed inoltre, ci si ferma a valutare solo un piccolo segmento del poligono e i relativi indicatori. L’Analisi annuale della Crescita dovrebbe, dunque, diventare l’Analisi annuale del Benessere e della Convergenza, focalizzata sulla qualità della vita e il progresso, sulla sostenibilità, sulla riduzione degli squilibri nell’insieme dell’Unione o dell’Eurozona.

L’Analisi sul Benessere e la Convergenza non dovrebbe essere redatta dalla Commissione Europea, ma da un organismo terzo, un Consiglio di esperti economici, sociali e ambientali. Questo avrebbe un compito assai rilevante: quello non solo di monitorare l’evoluzione del benessere e della convergenza, ma anche di definire obiettivi ed indicatori.  La proposta di Feigl può essere migliorata, laddove il Consiglio di esperti viene visto come una sorta di Autorità indipendente, accreditata sulle competenze piuttosto che sull’espressione d’interessi; l’approccio è, dunque, tendenzialmente tecnocratico. Sul modello di quello che è oggi l’European Fiscal Board, i cui membri sono stati selezionati in un processo avvenuto tutto dentro le istituzioni europee e che, quindi, non garantisce la terzietà. Bisogna, invece, dare più espressione agli stakeholder, ai portatori di interesse.Come si è detto nella prima parte è decisamente preferibile che il Consiglio sia esplicitamente espressione della società e delle parti sociali europei.

Ci si può, invece, porre una domanda. Questo tipo di percorso può essere patrocinato in sede CESE, il Comitato Economico e Sociale Europeo, che per i non addetti ai lavori è una sorta di CNEL europeo, oppure è opportuno scegliere una sede in cui coinvolgere più direttamente i protagonisti della società civile, a partire dalla CES, la Confederazione europea dei sindacati, e dalle organizzazioni datoriali a livello europeo?  La discussione secondo me è aperta.

E’, invece, del tutto da condividere la proposta di Feigl di replicare a livello nazionale i Consigli degli esperti per il Benessere e la Convergenza, che svolgano un ruolo di supporto e di coordinamento della politica economica per evitare tendenze non sostenibili e divergenti. Consigli che dovrebbero sostituire, dunque, gli attuali Fiscal Council nazionali, come il nostro Ufficio parlamentare del Bilancio.

La proposta che viene da Feigl mi pare decisamente interessante, perché da un lato pone la questione del benessere e della convergenza al centro dell’attenzione di una governance europea, che palesemente ha bisogno di una nuova legittimazione da parte dei cittadini. Ma dall’altro lo fa con modalità che non dovrebbero dispiacere anche in paesi come la Germania e nell’area nordica, da sempre molto preoccupati sui rischi di instabilità che possono provenire dal settore pubblico, in uno scenario di progressivo invecchiamento della popolazione. L’approccio è quello riformista, politicamente più robusto quando si preoccupa di individuare soluzioni che possono trovare un consenso più ampio rispetto agli schieramenti canonici nord Europa / sud Europa, sinistra / centro, keynesiani / non keynesiani. E tanto più importante per dare respiro e durata ad una strategia di riassorbimento delle pulsioni populiste, che prima le elezioni in Olanda e poi quelle in Francia, paiono avere contenuto, ma non sradicato.

E’ auspicabile che il governo italiano si esprima in questa direzione, ma che anche le parti sociali facciano sentire la loro voce.

 

 

 

 



[1] Donato Speroni (2017), Sostenibilità: il Def, i quattro indicatori Bes e la ricerca di una Strategia delle strategie, “Numerus”, http://numerus.corriere.it, aprile.

[2] Ministero dell’Economia e delle Finanze (2017), Il Documento di Economia e Finanza 2017 – Allegato: Il Benessere equo e sostenibile nel processo decisionale, http://www.mef.gov.it/, aprile.

[3] Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jean Paul Fitoussi (2009), Report by the Commission on the Measurement of  Economic Performance and Social Progress, stiglitz-sen-fitoussi.fr

[4] G7 2017 (2017), Bari policy agenda on growth and inequalities, http://www.g7italy.it, maggio.

[5] Francesco (2015), Lettera enciclica Laudato Si’ sulla cura della casa comune, Libreria Editrice Vaticana.

[6] European Parliament (2016), Parlemeter 2016 Analytical overview – Special Eurobarometer of the European Parliament, http://www.europarl.europa.eu, november

[7] Gabriele Olini (2014), Oltre il Fiscal Compact Occorre il Well-Being Compact, http://www.nuovi-lavori.it/, aprile

[8] A. Michael Spence (2016) How Governance Drives Well-Being – An Interview, https://www.bcg.com/, marzo

[9] Georg FEIGL (2017), From growth to well-being: a new paradigm for EU economic governance, ETUI Policy Brief – European Economic, Employment and Social Policy, https://www.etui.org/, n. 2

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