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Si chiude una legislatura più pro-labour che pro-union

Sembrava una legislatura dalla vita breve ma, nonostante la sua gracilità di partenza e precarietà di percorso, è riuscita a giungere a compimento nei tempi canonici. E’ bene sottolineare questa longevità, per non alimentare facili previsioni sulla prossima legislatura. Che si annuncia incertissima, ma….. Il mancato successo del referendum costituzionale ha mantenuto alla Camera e al Senato lo status di assemblee parlamentari sovrane ed è lì che si consumeranno le possibilità per formare una maggioranza, indipendentemente dalle classifiche tra i partiti e le loro coalizioni che potrebbero primeggiare a conclusione del voto.

A maggior ragione vale la pena di chiedersi se questa 17ma legislatura sia stata riformistica. E’ inutile soffermarsi sui diritti individuali. A detta di tutti è stata ricca di novità con un unico neo: quello dello jus soli o jus culturae come dir si voglia; questione abbastanza spinosa e spostata progressivamente verso gli ultimi giorni della legislatura, quando ragioni emotive e sostanziali hanno scombinato soprattutto la maggioranza parlamentare. L’ Italia, sui diritti individuali, è più europea e nessuno di quelli approvati si sta dimostrando un’alterazione delle convinzioni, delle prassi e delle basi culturali della nostra società.

Sui diritti collettivi, il consuntivo non ha pari nettezza di giudizio, specie se la logica con cui si valutano i risultati sui tanti settori di intervento è quella strettamente cumulativa. Sulla giustizia, sulla cultura, sulla salute, sulla fruizione dei servizi pubblici centrali e locali la rappresentazione è a macchia di leopardo. E’ indubbio che si è legiferato in modo innovativo in fatto di giustizia civile, con lungimiranza per la valorizzazione delle attività culturali, per uscire dall’emergenza finanziaria nel settore sanitario, a favore di una maggiore efficienza e trasparenza nella Pubblica Amministrazione, specie nel campo fiscale, nonostante la vicenda Equitalia. Ma non si può dimenticare che l’effetto riformistico nel campo dell’istruzione pubblica o della tutela ambientale è sfumato o perché mal gestito, specie nel rapporto con i destinatari dei provvedimenti o perché alle ambizioni non hanno corrisposto risorse e governance adeguate.

Ma il territorio con maggiori contrasti d’opinione è quello del lavoro. Sia che riguardi le dinamiche reddituali, sia che rifletta le politiche di sviluppo; sia che focalizzi le questioni del mercato del lavoro, sia che affronti il tema della disoccupazione e della povertà. Se si mettono in fila gli interventi a sostegno dei redditi dei lavoratori e dei pensionati, a favore di una maggiore flessibilità di bilancio per investimenti consentita da Bruxelles (dopo strenua battaglia), a vantaggio di un più coeso mercato del lavoro e in direzione di una politica meno assistenziale e più inclusiva verso le aree più deboli della società (cresciute moltissimo durante la crisi), il giudizio obiettivamente non può che essere positivo. La legislazione è stata pro labour. Anche avendo presente i limiti quantitativi e qualitativi dei provvedimenti presi, resta il fatto che essi hanno invertito la tendenza, emersa nella legislatura precedente, di accollare soltanto sul lavoro l’azione di contrasto della crisi economica e sociale iniziata nel 2007 (Governi Berlusconi e Monti). 

Una legislatura pro-labour ma non pro-union. Non è una sottigliezza semantica quasi a salvare capre e cavoli. Anzi, si è dimostrato il più grave errore strategico del Governo Renzi, in parte anticipato da quello Letta  (consultazione formale con i sindacati sulla legge di stabilità 2014) e in parte addomesticato nell’ultima fase del Governo Renzi e con più convinzione dal Governo Gentiloni. Un errore che – se anche favorito dalla prolungata non unità di proposta di CGIL, CISL e UIL – ha fatto perdere tanti consensi all’azione riformatrice del Governo. Un errore che è stato conseguenza diretta della presunzione di poter realizzare tutto, a prescindere. La realtà ci consegna questa regola: si può e in molti casi si deve rottamare la persona; non si può rottamare l’organizzazione, per quanto ostile e non collaborativa essa sia.

Si profila in prospettiva la necessità di ricomporre le due questioni. Alla lunga non ci può essere politica pro labour senza un atteggiamento pro union. Indipendentemente da come si pronunceranno gli elettori – ed è auspicabile che siano in tanti ad andare a votare – la continuità in meglio delle politiche per il lavoro e il welfare non potranno escludere il coinvolgimento del sindacato confederale. Non si tratta di rispolverare la concertazione, specie se è intesa come puro e semplice diritto alla consultazione e al confronto.

Aggiungere un posto in più al tavolo delle decisioni macroeconomiche è sterile. Il problema è che le linee di azione per ridurre il dilagare della precarietà, per allargare le opportunità di lavoro, per fare del lavoratore un buon consumatore e per assicurare a chi un lavoro non ce l’ha, di non sentirsi persona abbandonata a sé stessa, deve vedere cooperanti Governo e forze sociali, terzo settore compreso. E se il Governo deve assicurare le condizioni di un confronto paziente e continuo, il sindacato confederale deve interloquire propositivamente e unitariamente, possibilmente coinvolgendo i lavoratori sulle scelte più rilevanti.

Il punto di partenza di questo impegno non potrà essere la demolizione di ciò che si è fatto, ma semmai la correzione, il miglioramento delle impostazioni avviate, l’ulteriore prosecuzione del cammino riformista. Di mezzo non c’è soltanto la credibilità del Paese in Europa (cosa di non piccolo conto se finanche il Presidente della SPD Martin Schulz ha convertito il suo partito alla Grande Coalizione al grido “l’Europa ce lo chiede”), ma il miglioramento della coesione sociale nel nostro Paese, pesantemente martellata dalla crisi  e dai cattivi maestri.       

   

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