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I fianchi scoperti della legge di stabilita’

La Legge di stabilità si può leggere in tanti modi e se lo si fa senza pregiudizi, tutti legittimi. Il suo spessore, in termini di masse finanziarie movimentate e le sue implicazioni macro e micro economiche, ma anche macro e micro sociali possono spingere a valutazioni anche divaricanti. Ma il fatto che, con correzioni sopportabili, l’esame bruxellese sia stato sostanzialmente superato, la mette al riparo almeno da incresciose conseguenze procedurali e da cure riparatrici socialmente insostenibili. Con questa “bullonatura” europea, la diatriba sulla sua natura espansiva o restrittiva, sulla sua solidità o fragilità strutturale, sulle scelte dal sapore preelettorale o no, perde oggettivamente quel significato palingenetico che aveva assunto alla sua presentazione.

Sorvolo sulla scivolata un po’ populista sul Tfr e sull’equiparazione della previdenza integrativa alle rendite finanziarie, sperando che il Parlamento ne corregga gli aspetti perversi. Come non vale insistere più di tanto sul taglio della spesa dei Ministeri, delle Regioni e degli enti locali non solo perché è ragionevole ma perché è giusto che tutti si abituino a razionalizzare, senza scaricare sui cittadini le conseguenze. La legge di stabilità presenta il suo lato più significativo  nel disegno redistributivo che, a sua volta, prospetta una determinazione convinta a favore della lotta alla stagnazione economica.  

Per questo ritengo più interessante una sua lettura ancorata agli effetti sulla struttura del sistema economico e di quello manifatturiero in particolare. Nella consapevolezza che, essendo l’Italia il fanalino di coda (con la Grecia) nella crescita congiunturale dell’Europa, è da questo mondo che bisogna guardare le mosse del Governo e comprendere se la loro efficacia è più o meno incidente sulla depressione in atto. La scommessa è la solita: se il cavallo berrà, come si diceva una volta, è più plausibile che venga imposta una frenata alla sfiducia dilagante; se non succede niente, i guai per gli italiani aumenteranno a dismisura.

Il sistema manifatturiero italiano – ancora secondo per importanza in Europa, è bene non dimenticarlo –  da parecchi anni, si modella in questo modo: circa 1/3 gioca le sue carte nell’insidioso campo della globalizzazione e tiene d’occhio soprattutto la congiuntura internazionale e il rapporto di scambio euro-dollaro; un altro buon terzo aspetta che la domanda interna e in modo particolare i consumi delle famiglie risalgano dalle basse quote attuali almeno verso quelle raggiunte nel 2008; infine, almeno il 25%  è praticamente sparito o si è fortemente ridimensionato, con scarse possibilità di riemergere con le stesse caratteristiche di prima. E’ una tripartizione grossolana, ma vicina alla realtà e mette in mostra situazioni tra di loro diverse, anche sotto il profilo occupazionale.

Ebbene, la Legge di stabilità si profila particolarmente attenta ai primi due spaccati del sistema produttivo. Con il taglio della componente lavoro a tempo indeterminato dell’Irap e con il premio a chi assume con il nuovo contratto a tempo indeterminato, sia pure a tutele crescenti, si strizza l’occhio alle aziende esportatrici. Fintanto che la Bce non riuscirà a portare il rapporto tra euro e dollaro a 1,20 quel taglio fa comodo alla competitività italiana e con il premio si spera che da lì riparta il flusso  delle assunzioni. Invece, con la continuazione ed ampliamento della “linea 80 euro” si punta a stimolare la blanda domanda interna e a dare qualche speranza in più al secondo blocco dell’apparato produttivo italiano. 

Rispetto alla magrezza di stimoli delle 5/6 precedenti Finanziarie, questa manovra è più dignitosa. Ma non porterà grandi vantaggi occupazionali. Sia perché la produttività che essa genererà, eroderà gli spazi per massicce assunzioni; sia perché la terza area, quella più colpita dalla crisi, non sa che farsene delle misure espansive. Qui, la sacca di disoccupazione palese o latente resta senza risposta. Anche perché il “Salva Italia” non aggiunge gran che al già poco previsto per gli investimenti nella Legge di stabilità. Evidentemente, il Governo sposta questa partita essenzialmente a livello europeo, attendendo – non passivamente, almeno sul piano delle dichiarazioni – di poter partecipare alla spartizione del pacchetto da 300 miliardi di euro promesso dalla nuova Commissione Europea.

Quel 25% di attività produttive in via di estinzione, non può essere perso. Diventeremmo un’Italietta industriale. Va ricostruito a partire dagli investimenti pubblici in settori strategici per il decollo di un nuovo sviluppo. E su questo fronte, siamo indietro nel dibattito pubblico sia per quanto riguarda le priorità da assumere, sia per quanto riguarda “chi” dovrà concretizzarle. La massa di euro per investimenti che potrà arrivare dalle scelte europee – e c’è da scommettere che arriveranno – non potrà essere spalmata sul vecchio assetto produttivo. Sarebbe un errore imperdonabile se si ritornasse a costruire case o a rievocare il ponte sullo Stretto di Messina.

C’è solo l’imbarazzo della scelta tra il rilancio dell’industria culturale, della tutela ambientale e del risanamento del territorio, della diffusione della banda larga, della riconversione delle fonti energetiche o della ricerca e della formazione nell’arco dell’intera vita delle persone. Ma c’è anche da inventarsi come organizzare la gestione di queste scelte, stante un panorama desolante di “pivot” industriali affidabili. Non vorrei passare per un nostalgico delle Partecipazioni Statali, ma che ci sia un vuoto di gestori è innegabile e non mi si venga a dire che c’è la Cassa Depositi e Prestiti.

Ma questo degli investimenti non è l’unico fianco scoperto della Legge di stabilità. C’è quello dell’occupazione, per la quale ci si ostina a non prevedere politiche specifiche, che prescindano dall’apporto che potrebbe venire dalla ripresa dello sviluppo. Certo, nel Jobs Act qualche accenno c’è. E’ citato il contratto di solidarietà espansivo, ma in un mare di incertezze sul ridimensionamento delle cattive flessibilità (grida vendetta la sola previsione dell’estensione dei vauchers a tutti i settori produttivi) e di confusione sulla futura struttura degli ammortizzatori sociali e sulla governance unica delle politiche attive e passive.

Fra alcuni mesi, l’attività produttiva potrebbe dare qualche segnale positivo (congiuntura internazionale permettendo); meno certo è che tale segnale possa essere accompagnato da modifiche altrettanto positive nell’indice di disoccupazione. In quel momento, si dovrà necessariamente discutere di provvedimenti ad hoc per ripartire il lavoro esistente, come altri Paesi – a partire dalla Germania – hanno fatto già all’inizio degli anni 2000. Abbiamo il monte ore annuo individuale tra i più alti dell’Europa e ci dobbiamo convincere che bisogna agire su di esso per coniugare crescita produttiva e occupazione. Un’azione che riguarda l’attività legislativa, ma anche quella contrattuale.

In definitiva, la Legge di stabilità non è la migliore possibile. Ma che rappresenti una discontinuità con il passato è fuori discussione. Il suo valore può soltanto crescere nel tempo se il Jobs Act da trama poco chiara viene modellato per ridurre l’ingerenza della legge sul mercato del lavoro e potenziare la pratica contrattuale (compreso l’articolo 18) e se rapidamente si delinea una strategia degli investimenti, finanziati dall’Europa, che non si affidi al mercato, ma faccia scelte nette di priorità. E’ questa la dimensione più realistica che va assunta per giudicare un provvedimento complesso ma comunque parziale. Ed è questo intreccio che dobbiamo augurarci che prevalga, perché è quello più adeguato a farci continuare ad essere un Paese con un avvenire non stentato.

 

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