C’è chi dice che l’Italia sia un Paese senza futuro. Che dietro l’angolo ci aspetti un ineluttabile declino, la perdita di posizioni nella competizione internazionale, il definitivo declassamento, dopo le glorie remote e recenti, a nazione satellite. Tesi che trova il sostegno di fonti autorevoli, nazionali e internazionali: “Il modello di specializzazione dell’Italia è molto simile a quello di Paesi emergenti come la Cina – dice l’ultimo rapporto, datato 4 aprile 2013, dedicato al nostro Paese dalla Commissione Europea – con la maggior parte del valore aggiunto in settori tradizionali a bassa tecnologia, principalmente a causa della limitata capacità innovativa delle imprese italiane”.
Ma l’Italia è davvero questa: scarsamente innovativa, in competizione al ribasso con i Paesi emergenti? Forse sì, se usiamo le lenti del pregiudizio, se ci accontentiamo di griglie di valutazione inadeguate, che magari inducono a sposare tesi come quella, tutta ideologica, che la ripresa passa per la modifica dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori. Ma se al nostro Paese guardiamo con un po’ di simpatia e di affetto, e con un pizzico di curiosità e attenzione in più, la risposta è no, decisamente no.
Una delle eccellenze italiane, l’industria del mobile, soffre da anni di una crisi durissima. Attaccata prima dalla concorrenza, non sempre leale, dei paesi dell’Asia e di quelli dell’Est Europa. Poi dall’esplosione della bolla immobiliare, che ha affossato mercati strategici come quello statunitense. Poi la crisi globale, che – complice anche l’ostinazione ragionieristica del governo e dell’Europa sul rigore dei conti pubblici – ha mandato a picco il mercato nazionale. Tutto questo ha lasciato ferite molto profonde nel settore. Se l’Italia fosse quella adombrata da qualche pigro tecnocrate della Commissione Europea, dovremmo avere intorno solo macerie.
Non è così. Inaridito il mercato interno, le aziende si sono rimboccate la maniche, andando a cercare dove sinora non si erano spinte. A volte mettendo un piede, a volte conquistando, mercati promettenti: dai Paesi Arabi a quelli emergenti come Cina, India, Brasile, a piazze minori ma ricche di prospettive come Azerbaigian, Georgia. E hanno fatto innovazione, con l’ecodesign ad esempio. Così, pur senza raggiungere i livelli pre-crisi, dal 2009 l’export italiano di mobili è in costante crescita. Di cosa si tratta se non di capacità di reazione di fronte al mutare degli scenari? Di quella creatività e duttilità che sono il marchio di fabbrica del made in Italy?
L’Italia deve affrontare e risolvere tante questioni, non solo legate al pesante debito pubblico, che aggravano la crisi: le diseguaglianze nella distribuzione della ricchezza, l’economia in nero e la criminalità, una macchina burocratica elefantiaca e spesso inefficace, gli scarsi investimenti in ricerca e sviluppo, il ritardo di tante aree del Sud. Guai a sottovalutare, ma è un errore confondere tutto questo col posizionamento del Paese nel mondo.
Dietro i foschi pronostici internazionali e le lamentazioni delle prediche nazionali c’è altro, c’è una questione culturale: la pervasività di certi stereotipi disfattisti che, anche a non voler considerare gli effetti negativi sui mercati, non giovano certo a ridare speranza al Paese. E c’è anche una questione più tecnica, che ne è il riflesso: manca la capacità, la curiosità e la voglia di superare strumenti interpretativi inadeguati a cogliere quanto si agita nei nostri distretti, nei territori, nelle nuove realtà creative.
Se, ad esempio, continuiamo pretendere di misurare la competitività italiana con la quota di mercato detenuta nell’export mondiale – indicatore sempre meno rappresentativo, ma ancora oggi ritenuto erroneamente il principale parametro di riferimento – vedremo solo un’Italia in discesa libera. E saremo fuori strada. Se adottiamo invece come metro la bilancia commerciale dei prodotti, le cose cambiano: l’Italia è uno dei soli 5 Paesi del G-20 (con Cina, Germania, Giappone e Corea) ad avere un surplus strutturale con l’estero nei prodotti manufatti non alimentari. Vantiamo quasi 1000 prodotti in cui siamo tra i primi tre posti al mondo per saldo commerciale attivo con l’estero. Vuol dire che se pensiamo al mercato globale come a un’olimpiade, ai prodotti come discipline sportive in cui vince chi ha un export di gran lunga superiore all’import, l’Italia arriva a medaglia quasi mille volte. Meglio di noi solo Cina, Germania e Stati Uniti. Può essere questo l’identikit di un Paese dalla “limitata capacità innovativa”?
E infatti siamo stati, nel 2012, i secondi in Europa, dopo la Germania, per attivo manifatturiero con i Paesi extra-UE (proprio quei mercati emergenti che secondo la Commissione ci avrebbero mandato a picco). La maggior parte di questo surplus, poi, non proviene dai settori tradizionali (il tessile, le calzature, il mobile), ma dalla meccanica e dai mezzi di trasporto. Tra i prodotti per i quali guadagniamo più di una medaglia per il saldo commerciale troviamo le nuove tecnologie del caldo e del freddo, le macchine per lavorare il legno e le pietre ornamentali, oppure i fili isolati di rame e gli strumenti per la navigazione aerea e spaziale.
Tutti oggetti così poco italiani, se continuiamo ad avere in testa l’Italia di 15-20 anni fa, che in realtà identificano la geografia di un nuovo made in Italy. E dimostrano che siamo stati in grado di risintonizzarci, con successo, sulle nuove frequenze del mercato globale. Senza, peraltro, perdere il presidio di quei settori per noi più abituali, per i quali manteniamo il più alto surplus in Europa con i Paesi extra-UE: “semplicemente’” occupando le fasce di più alto valore aggiunto, quelle del lusso e del design. Mentre frotte di analisti discutevano dei rischi e delle potenzialità insite nella crescita dei Paesi BRIC, un’avanguardia di imprese italiane era già sul posto, a fare da apripista e portabandiera: perché anche in quei Paesi la capacità, tutta italiana, di creare bellezza è uno dei beni più ambiti.
Il discorso è lo stesso per il turismo. Non avremo mai un ritratto fedele delle nostre performance fin quando useremo come indicatore il numero degli arrivi. Se invece guardiamo i pernottamenti, vedremo che l’Italia soffre, è vero, e tanto, la contrazione del mercato domestico, ma è prima assoluta in Europa per pernottamenti di turisti extra-Ue, distaccando di molto Gran Bretagna e Spagna che la seguono nella classifica. Siamo in Europa la meta preferita di americani, giapponesi, cinesi, australiani, canadesi, brasiliani, sudcoreani, turchi, ucraini e sudafricani.
Lo scenario si ripete sul fronte caldissimo dell’innovazione. Il nostro sistema economico viene descritto nelle tabelle internazionali come scarsamente propenso a innovare. Ma se osserviamo da vicino queste classificazioni, vedremo che una macchina per imballaggio realizzata su misura o una grande nave da crociera progettata à la carte sono considerate prodotti meno innovativi e complessi di un banale telefono cellulare o di uno dei tanti computer entry level fatti in serie. Per questo – e anche per il fatto che le migliaia di piccole e medie imprese del quarto capitalismo spesso non catalogano come tali tutti gli investimenti in ricerca e sviluppo – l’innovazione italiana è largamente sottovalutata. Ma allora come spiegare i nostri primati mondiali in singoli settori caratterizzati proprio da un alto tasso di innovazione, come (solo per citarne alcuni) la robotica di servizio, le biotecnologie, i nuovi materiali, le neuroscienze, la fisica delle particelle? Non è un caso che il nostro Paese sia in prima linea, con Cnr, in due importantissimi progetti su cui la Commissione Europea ha deciso di puntare per il futuro, con un finanziamento di 2 miliardi di euro: il grafene e il cervello artificiale.
L’Italia è la culla della cultura. Ma, con paradosso tipicamente tricolore, è un Paese che alla cultura dà scarso credito. Non c’è nessuno che neghi quanto questo settore sia importante ma, prima, sentiamo ripetere, dobbiamo risolvere problemi più seri. E invece proprio la cultura è una delle soluzioni. Mentre il tessuto imprenditoriale del Paese, nel 2012, resta sostanzialmente immobile, le attività del sistema produttivo culturale (tra industrie culturali propriamente dette, industrie creative – attività produttive ad alto valore creativo ma ulteriori rispetto alla creazione culturale in quanto tale – patrimonio storico artistico, performing arts e arti visive) crescono del 3,3%, arrivando ad essere quasi 460 mila, il 7,5% del totale nazionale. Danno lavoro a quasi 1,4 milioni di persone, il 5,7% del totale degli occupati. Creano, direttamente, 75,4 miliardi di euro di valore aggiunto. E ne attivano nel resto dell’economia altri 133. In tutto fa 214 miliardi: il 15% circa del totale. Si può forse lasciare a tempi migliori la cura di questo fattore trainante del sistema Paese?
C’è poi la green economy. Mentre i governi faticano ancora a capirne la portata epocale, quasi una impresa italiana su quattro investe in tecnologie o prodotti “verdi”: di queste, il 37,9% ha introdotto innovazioni di prodotto o di servizio, contro il 18,3% delle imprese che non investono nell’ambiente. Lo stesso dicasi per la propensione all’export: il 37,4% delle imprese green vanta presenze sui mercati esteri, contro il 22,2% delle altre. Testimonianza di come il sistema economico sia, su questo fronte, complessivamente più avanti della politica.
Anche la filiera agroalimentare, settore in cui la vocazione alla qualità è evidentissima, soffre di simili letture distorte, quasi che il posto che ci siamo guadagnati nel mondo sia solo frutto di fortuna, e non dell’attitudine a dare valore all’irripetibile patrimonio agricolo, ambientale ed enogastronomico del Paese. L’Italia ha una capacità di creazione di valore aggiunto pari a quasi duemila euro per ettaro: il doppio di quanto registrato mediamente in Francia, Germania e Spagna, il triplo circa della Gran Bretagna. Un caso? Siamo il primo Paese nell’Unione Europea per numero di operatori biologici (48.269) e il secondo per superficie investita (quasi un milione e centomila ettari). Siamo undicesimi al mondo come valore agroalimentare complessivamente esportato, ma in 13 produzioni su un totale di 70 monitorate – dalla pasta, agli aceti ai superalcolici a base di vino – abbiamo la leadership globale.
Non si può poi non menzionare il Terzo Settore, il cui impegno nella produzione ed erogazione di servizi sociali – grazie alle tante cooperative sparse sul territorio e alle “nuove” imprese sociali – è fondamentale. Questo variegato comparto contribuisce ad un 4,3% del Pil (con un volume di entrate annuo stimato di 67 miliardi di euro). Dati ancor più significativi se accompagnati da una quantificazione del risparmio sociale derivante dalle ore di lavoro messe gratuitamente a disposizione dai quattro milioni di volontari e, ancor più, dal benessere materiale e immateriale apportato a chi ha beneficiato delle loro prestazioni, del loro aiuto e della loro solidarietà. Infatti, una recente stima del valore economico del lavoro volontario in Italia, basata sulla determinazione dell’ammontare delle ore di volontariato prestate trasformate in unità di lavoro equivalente (ULA), ha evidenziato come tale valore sia pari a 7.779 milioni di euro. In termini relativi, questa stima corrisponde allo 0,7% del Pil; nel complesso, il volontariato in termini economici rappresenta il 20% dell’ammontare complessivo delle entrate delle istituzioni non-profit.
Questa Italia che ce la fa, che resiste alla crisi, che in qualche caso se la sta lasciando alle spalle, è quella che si ostina, nonostante le sirene del declino, a fare l’Italia. Che sa innovare senza perdere la propria anima. Che ha capito che nel mondo del XXI secolo, se uno spazio c’è per il nostro Paese è quello della qualità. È l’Italia che scommette sull’attitudine ai prodotti taylor-made, sulle competenze radicate nei territori e mantenute salde con la coesione sociale e la cura del capitale umano. Che presidia la nuova frontiera della qualità ambientale. Che sa dare valore alla propria bellezza (quella dei paesaggi, dell’arte, della cultura, dell’ospitalità, degli stili di vita) intercettando la grande, e crescente, domanda di Italia che viene da ogni angolo del pianeta.
Questa Italia non può più attendere. Va riconosciuta, guardata con attenzione, raccontata con passione. È l’ambizione del rapporto I.T.A.L.I.A. di Symbola, Fondazione Edison e Unioncamere, giunto alla sua seconda edizione: la stessa scelta del nome del nostro Paese, usato come acronimo, segnala già dal titolo la voglia di percorrere le geografie del nuovo made in Italy, dall’Industria al Turismo, dall’Agroalimentare al Localismo e alla sussidiarietà, dall’Innovazione, la tecnologia e l’ambiente all’Arte e la cultura. Numeri e storie di un’Italia che va sostenuta: con un progetto collettivo, una missione in grado di ridare speranza e motivazione alle tante energie depresse. “Non conosciamo mai la nostra altezza – ha scritto Emily Dickinson – finché non siamo chiamati ad alzarci”. A molti talenti italiani la possibilità di alzarsi viene negata. Rimuovere gli ostacoli che ci separano da un futuro degno di questi talenti è la vera priorità per il Paese.
(*) Ferruccio Dardanello, Presidente Unioncamere
(**) Marco Fortis, Vice Presidente Fondazione Edison
(***) Ermete Realacci, Presidente Fondazione Symbola