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Il lavoro cambia, la rappresentanza arranca

Le difficoltà in cui versano le relazioni industriali appaiono come una tra le più preoccupanti conseguenze del più generale processo di mutamento della produzione e del lavoro registrabile nel mercato e nella società italiana. Si tratta di un processo che tocca sia la struttura produttiva che le forme dell’occupazione, che hanno visto un’imponente riorganizzazione della produzione verso processi di  de-verticalizzazione e di decentramento, di riduzione di scala e de-localizzazione, di messa a punto di «reti» di subfornitura locale-globale in aree di specializzazione produttiva e di nicchia. Di queste esperienze parla Giuseppe Berta nel suo recente volume sulla Produzione intelligente. Un viaggio nelle nuove fabbriche edito da Einaudi (2014). 

Proprio così, le «fabbriche». Screditate e messe alla gogna da una strisciante cultura anti-industriale che tutto contiene fuorché un’etica progressista e di sinistra, la fabbrica è stata volutamente dimenticata dal dibattito pubblico italiano. Devoti alla retorica della «terziarizzazione necessaria», si è maldestramente tentato di celare dietro un velo di inettitudine anni e anni di tradizione manifatturiera italiana. Salvo rare eccezioni, le stesse scienze economiche e sociali hanno smesso di interessarsi alle fabbriche, e parlarne in pubblico desta ancora reazioni ambivalenti, tra lo stupore e la nostalgia. Eppure un tessuto produttivo industriale, in profondissimo mutamento, è tuttora attivissimo in Italia e attorno ad esso si sperimentano importanti vie di uscita dall’immobilismo che prima ancora che economico è sociale e culturale. 

Come scrive Berta, accanto ai bersagliati e tristemente noti casi di fallimento della grande industria fordista, in Italia si diffonde «una sofisticata, sebbene ancora non coordinata, azione di convergenza fra numerose imprese, appartenenti a una varietà di aree economiche e settoriali, che mirano a riclassificare le loro attività, sia per mantenere il loro radicamento territoriale sia per incrementare la loro capacità di esportazione e di presenza internazionale» (p. 26). Si tratta di reti territorializzate di soggetti di impresa, miranti alla competitività internazionale attraverso l’innalzamento della qualità delle produzioni e dei processi produttivi. Ciò permette loro di incunearsi entro nuove nicchie del mercato globale promuovendo una efficace combinazione tra tecnologia e capitale umano, eretta sul piedistallo della conoscenza e della sua crescita incrementale. 

Per meglio illustrare questo scenario, Giuseppe Berta espone il suo percorso itinerante presso importanti realtà industriali del Paese, più o meno recentemente soggette a ristrutturazioni mostratesi efficaci. Ci sono lo stabilimento Fiat-Chrysler di Pomigliano d’Arco e quello Maserati di Grugliasco, la TenarisDalmine di Dalmine, la Pirelli di Settimo Torinese e lo stabilimento Saet Group di Leinì. Chiude questo percorso una piccola impresa assai differente dalle precedenti, la ProTocuBe di Torino, specializzata nello stampaggio tridimensionale. 

Cosa accomuna l’intelligenza di queste «fabbriche»? Berta non segue una prassi metodologicamente rigorosa (in termini di standardizzazione delle descrizioni, né tantomeno di selezione ragionata dei casi di studio) ma la descrizione che propone è appassionante e tocca diversi elementi di competitività, molti dei quali riguardano la centralità delle risorse umane. In tutti i casi si evidenzia una fluidificazione delle gerarchie (se non un loro superamento), con elementi di responsabilizzazione diffusa, parametrazione dell’efficienza per mansioni, formazione continua e fortissima enfasi su ricerca e sviluppo sia di processo che di prodotto. Con riferimento allo stabilimento TenarisDalmine l’Autore descrive una «nuova integrazione» che contraddistingue queste fabbriche ristrutturate: «Gli ambiti più nuovi (…) sono dedicati all’elaborazione e alla trasmissione della conoscenza. Dai centri di ricerca interni, che nel caso della Dalmine sono incentrati sullo studio dei metalli e delle loro resistenze, ai luoghi dedicati alla formazione» (p. 40). 

Integrazione e condivisione, ricerca e formazione, competitività e internazionalizzazione. Tratti analitici che trovano riscontro anche nell’immediatezza delle immagini: anche alla vista, gli stabilimenti visitati da Berta non hanno quasi più nulla della struttura che precedeva la ristrutturazione, sia dal punto di vista delle forme e degli spazi, sia dal punto di vista delle persone che si muovono tra le macchine e i computer. L’enfasi posta dall’Autore all’abbigliamento dei lavoratori è corroborante: si va da casi in cui è del tutto assente una uniforme omologata, a casi in cui – pur essendoci – non ci sono differenze alcune tra diversi gradi/livelli del lavoro, annullando la vecchia distinzione tra operai e impiegati. 

La condivisione sembrerebbe rendere obsolete quelle descrizioni che situavano nelle catene di montaggio la storica frattura capitale/lavoro. Qui si comprende e si agisce, migliorandolo, il processo di lavoro a tutti i livelli di mansione: «Dirigere il prodotto verso l’alto di gamma e riorganizzare gli impianti affinché al loro interno si sviluppino processi di apprendimento continuo finalizzati all’incremento della qualità (…). Il cambiamento acquista un grado elevato di visibilità, fino a divenire quasi una sorta di manifesto di una reindustrializzazione possibile, anche se parziale» (p. 42).

Le esperienze descritte da Berta sono caratterizzate dunque da spiccata partecipazione delle risorse umane alla gestione del lavoro, con elevata autonomia e discrezione nelle decisioni, contributo alla innovazione e apprendimento permanente verso una crescita della competitività che assume una portata collettiva. È di fronte a questo scenario che appaiono evidenti i ritardi delle parti sociali. Le istanze espresse in queste nuove produzioni, sia sul fronte datoriale che dei lavoratori, appaiono più eterogenee e frastagliate del passato e richiedono alle parti sociali nuovi modelli, più articolati e capaci di adattarsi alle esigenze differenziate. 

In altre parole la rappresentanza tradizionale di tipo generalista, finalizzata da un lato alla riduzione del costo del lavoro e, dall’altro, alla difesa delle tutele e del salario dei lavoratori, appare un freno al cambiamento e un inutile richiamo al passato. Nella lettura di Berta le parti sociali, con l’avvio della stagione della concertazione dal 1993, hanno concentrato i loro sforzi sui tavoli nazionali, traducendosi in attori politici e disperdendo man mano anni di competenza ed esperienza di capacità negoziali costruiti alla base. Il travaso dei vertici sindacali nelle aule parlamentari mostra solo uno degli effetti di tale processo. Ora, investita la politica da una generale delegittimazione, anche le forze sindacali post-93 vengono coinvolte al ribasso, lasciando sguarniti i campi in cui sarebbe richiesto un ruolo cruciale dei quadri intermedi. 

L’«autunno della rappresentanza» (p. 65) non giova in particolar modo a quell’Italia produttiva vista sopra che, ripartendo dalla fabbrica, sta riuscendo a venir fuori dal ciclo negativo attraverso imponenti e appassionanti ristrutturazioni organizzative, produttive e umane. L’importanza di questi mutamenti non può non rappresentare una sfida epocale per le relazioni industriali, poste di fronte al logoramento delle loro basi di consenso (sia di legittimità politica nazionale che di tesseramenti a livello della base), all’obsolescenza degli dispositivi di contrattazione (superamento del neocorporativismo), all’inefficacia dei loro strumenti di difesa (terziarizzazione del conflitto, opinione pubblica avversa). 

Semplificando brutalmente. Sul fronte datoriale, la generale riorganizzazione dei modelli e dei processi d’impresa (post-fordismo, riduzioni di scala, lavoro autonomo) ampliano l’area della produzione che agisce fuori dalle relazioni industriali istituzionalizzate (si pensi alle PMI), indebolendo la rappresentatività delle principali organizzazioni di rappresentanza. Sul fronte sindacale, la corposa riduzione dei livelli occupazionali (disoccupazione, prepensionamenti, de-localizzazioni e dismissioni) e la massiccia precarizzazione di quelli esistenti (flessibilizzazione o precarizzazione) riducono la sfera d’azione del sindacato classico. Ma, anche laddove l’occupazione tiene e si rinnova (come nelle produzioni intelligenti), è l’organizzazione post-fordista del lavoro a sancire un superamento dello schema tradizionale di tutela collettiva degli interessi di datori e lavoratori: il modello ora dominante promuove infatti la cooperazione attiva dei dipendenti, la responsabilizzazione diffusa e la condivisione, le relazioni orizzontali e la gestione individuale dei rapporti di lavoro. 

Fenomeni che disperdono il ruolo stesso delle Confederazioni e il consenso di cui avevano goduto per mezzo secolo, chiamando in causa una trasformazione necessaria se si vuole ottenere una nuova primavera delle relazioni industriali. 

 

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