Quattro anni fa sulla prestigiosa rivista americana “Journal of Economic Perpectives” apparve un articolo scritto da Christian Dustmann e da tre altri economisti tedeschi, che aveva per titolo: “From Sick Man of Europe to Economic Superstar: Germany’s Resurgent Economy”
In pratica gli autori si chiedevano come era possibile che un Paese come la Germania che, verso la fine degli anni novanta (prima della nascita dell’Euro), era considerata come “the sick man of Europe” (la definizione era stata data dall’”Economist”) , cioè come il “malato” del Continente, fosse diventato nel giro di una decina di anni il Paese “superstar” in campo economico.
E che sia diventato “superstar” non vi sono dubbi, così come non vi sono dubbi che abbia continuato ad esserlo anche dopo il 2004. Gli ultimi dati Eurostat ci dicono che il nostro Paese ha recuperato finalmente il livello di occupazione del 2008. Ma ci dicono anche che l’occupazione tedesca è aumentata nello stesso intervallo di tempo di oltre 4 milioni di unità (la Francia meno di un milione). La disoccupazione tedesca si è più che dimezzata (dall’otto a meno del quattro per cento). La disoccupazione italiana è aumentata di quattro punti percentuali (dal sette all’undici per cento), quella francese è rimasta costante.
Si fa fatica a credere che economie con dinamiche così diverse del mercato del lavoro, possano appartenere alla stessa area monetaria. Eppure è proprio così.
A cosa si deve questa guarigione del malato tedesco? Quale medicina miracolosa gli è stata propinata? E se la si conosce, non potrebbe essere somministrata anche agli altri Paesi che, tuttora, stanno facendo parecchia fatica a curare i loro acciacchi?
I quattro economisti tedeschi, hanno le idee chiare a questo proposito.
Innanzitutto dimostrano che la medicina miracolosa non è consistita nelle famose riforme Hartz, come molti hanno sostenuto in questi anni. Certamente quelle riforme sono state molto efficaci nel loro ambito e hanno contribuito a modernizzare le politiche del lavoro e a renderle più efficaci nel contrastare i fenomeni di disoccupazione di lunga durata e di bassa partecipazione dei lavoratori più emarginati. Con una più efficace ed efficiente Agenzia Nazionale del Lavoro ( a che punto è la nostra Agenzia ?), sono riusciti a creare posti di lavoro per coloro che sino a quel momento avevano beneficiato di sussidi di disoccupazione e di indennità di invalidità (i cosiddetti “mini jobs”).
Ma le radici della esplosione della economia tedesca non stanno nelle riforme “Hartz”, stanno altrove. Stanno soprattutto nel sistema di relazioni industriali. Da quando è stato creato l’Euro, i salari reali tedeschi sono aumentati meno della produttività, migliorando in questo modo e in misura eccezionale il grado di competitività della economia tedesca. Le loro esportazioni sono aumentate in tutte le parti del mondo e il surplus della bilancia commerciale è esploso.
Tutto questo è avvenuto in concomitanza di una radicale mutamento di un aspetto almeno, delle relazioni sindacali, quello legato al funzionamento della contrattazione collettiva. Mentre rimaneva ben funzionante il tradizionale sistema della partecipazione dei lavoratori nei consigli di amministrazione e della cogestione all’interno delle grandi imprese, il sistema di contrattazione collettiva si spostava decisamente verso forme spinte di decentramento. Nel periodo precedente, quello della crisi, molte imprese avevano abbandonato le associazioni imprenditoriali di appartenenza, per non essere costrette ad applicare i contratti collettivi sottoscritti a livello di “lander” e che ritenevano troppo onerosi per le loro condizioni finanziarie ed economiche.
I contratti collettivi in Germania, come in Italia, sono di natura privatistica e, come tali, vincolano solo chi li firmano e cioè le associazioni e i loro iscritti. In Germania non c’è una giurisprudenza simile a quella italiana, che impone a tutte le imprese di pagare i minimi salariali fissati nei contratti nazionali indipendentemente dal fatto che esse siano iscritte o meno ad una associazione che abbia firmato il contratto. Quindi in Germania il cosiddetto “opting out” (cioè il “chiamarsi fuori) dai contratti collettivi “multi-employer” è legalmente ammesso e lo strumento è stato massicciamente utilizzato.
Ed è stato proprio il timore da parte del sindacato di veder diminuire in modo drastico il grado di copertura dei contratti da loro firmati a livello di Lander, che li ha convinti a fare una politica di forte moderazione salariale. Di conseguenza si sono molto diffusi i contratti collettivi a livello di singola impresa, coi salari che a fatica (e con scarso successo) hanno cercato di seguire una produttività che al contempo cresceva a ritmi molto sostenuti.
In definitiva, la moderazione salariale è stata certamente una scelta delle organizzazioni sindacali, ma una scelta in buona misura forzata dalle circostanze che hanno condotto ad un forte decentramento della contrattazione. Anche i “mini jobs” possono aver svolto un ruolo in questo contesto, aumentando il grado di concorrenza nel mercato del lavoro, imponendo livelli salariali molto bassi. Non è un caso che in Germania, contrariamente a quanto succede in Italia, il sindacato è stato per lo più favorevole alla introduzione del salario minimo legale. Uno degli obiettivi era appunto quello di alzare i livelli salariali dell’ampio settore “non-union”, cioè quello dei mini jobs che sono stati sempre al di fuori del controllo sindacale.
E ora cosa sta succedendo? Stanno cambiando le cose? Il sindacato ha cambiato strategia?
Certamente il nuovo contratto dei metalmeccanici contiene importanti novità, ma è troppo presto per capire se si stia verificando un cambio di regime, con un ritorno alle relazioni sindacali di un tempo.
Certamente i sindacati tedeschi hanno dato un segno di vitalità, anche come risposta alle sollecitazioni che in questi anni sono arrivate dal mondo esterno alla Germania. Tutti i Paesi e le istituzioni internazionali, con la BCE di Draghi in testa, si chiedono da tempo come mai può continuare una stasi dei salari tedeschi di fronte a continui aumenti della produttività e di fronte ad un mercato del lavoro che è arrivato vicinissimo alla piena occupazione.
Il risveglio dei sindacati tedeschi era quasi inevitabile e di ciò si rallegrano tutti coloro, soprattutto noi italiani, che aspettavamo un segnale in questa direzione. Un segnale al resto dell’Europa che indicasse una prospettiva migliore in termini di inflazione, crescita dei consumi e della domanda aggregata.
Certo si tratta di vedere se il risveglio è solo temporaneo oppure è destinato a consolidarsi.
Vediamo in sintesi il contenuto economico del contratto.
I salari aumenteranno di circa il sette per cento in due anni contro una inflazione prevista di poco superiore al tre per cento nell’intero biennio. Aumenti dei salari reali di circa il due per cento su base annua rappresenta un buon risultato per i lavoratori. Per le imprese si tratta di un discreto aumento dei costi che molto probabilmente potranno essere assorbiti dai futuri aumenti di produttività. L’economia è ancora in netta espansione e le imprese tedesche non avranno bisogno di intaccare il “tesoro” di profitti e di guadagni che hanno accumulato in questi dieci anni (e che hanno anche trasformato meritoriamente in ulteriori investimenti): basteranno i futuri aumenti di produttività.
In Italia le imprese non hanno accumulato nessun “tesoro”, né tesoretto; anzi come dimostrano le statistiche della Banca d’Italia, la quota dei profitti sul valore aggiunto è caduta negli anni della crisi. Infatti mentre la produttività ristagnava, i salari hanno realizzato qualche incremento legato al costo della vita. Ne è scaturito un aumento del CLUP significativo.
E’ chiaro che anche a noi farebbe comodo una più sostenuta dinamica salariale, sia per sostenere i consumi sia per alimentare un poco di inflazione (che aiuterebbe a far diminuire il rapporto debito/PIL). Ma con quali risorse potremmo pagare gli aumenti salariali? La produttività è ancora ferma al palo e anche l’aumento recente della produzione e del PIL si riversano essenzialmente e positivamente (per fortuna) sulla occupazione e ben poco sulla produttività. Contrariamente a quello che si pensa e si dice, la ripresa economica in Italia non è una “jobless recovery”, ma è esattamente il contrario, e cioè una ripresa che, almeno nella media del sistema produttivo, è ad alta intensità di lavoro (un milione di posti di lavoro in più ultimamente) e a scarsissima intensità di innovazione e di produttività.
In queste condizioni pensare di rilanciare la dinamica salariale, rischia di farci perdere competitività e di subirne i danni, ancor prima di godere dei benefici legati ai consumi e alla maggiore inflazione. Il nostro destino non può che essere quello di aspettare i tedeschi e di invitarli, loro che possono, ad alimentare salari, prezzi e consumi. Noi, quando potremo, seguiremo.
Altro capitolo è quello dell’orario di lavoro. In questo campo il nuovo contratto è decisamente innovativo. Anche se, occorre ricordarlo, le innovazioni in termini di orario sono “di casa” in Germania. Basti pensare alla costituzione diffusa in moltissime aziende della “banca delle ore” che in quel Paese ha svolto, almeno in buona misura, il ruolo che la Cassa Integrazione ha svolto nel nostro (nei periodi di crisi). Ma si trattava di iniziative che venivano alimentate e gestite a livello di singola (spesso grande) azienda. Con il nuovo contratto la decisione di ridurre l’orario viene presa a livello “multiemployer” (prima a livello di un solo lander e poi a seguire con gli altri).
Il nuovo contratto fa nascere il diritto soggettivo, a livello di singolo lavoratore, di ridurre l’orario di lavoro, sia pure per un limitato periodo di tempo e sia pure con decurtazione salariale. E spetta sempre al singolo lavoratore la decisione di aumentare, se gli conviene, l’orario oltre le 35 ore. L’azienda gioca solo di rimessa e cercare di conciliare queste scelte individuali con le esigenze collettive della organizzazione aziendale non sarà per niente facile. Sarà meno complicato per le grandi aziende, che probabilmente hanno già sperimentato, anche in passato, flessibilità degli orari per andare (anche) incontro alle esigenze dei lavoratori in tema di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. Ma sarà ben più difficile per piccole e medie imprese che potranno contare su una manodopera numericamente più limitata, più difficile da organizzare in modo efficiente dovendo rispettare le decisioni dei singoli lavoratori.
Non è un caso che le prime ad essersi lamentate del nuovo contratto IG Metal siano state soprattutto alcune associazioni delle PMI, che hanno manifestato dubbi se firmare il contratto, sotto la spinta delle aziende che hanno minacciato di abbandonarle.
La strada di una contrattazione collettiva “multiemployer” che ritorni ai toni più “aggressivi” del passato, rimane una strada difficile per i sindacati tedeschi, per i ben noti motivi visti sopra. L’”opting out” è sempre una minaccia incombente.
D’altra parte i riconoscimenti in termini di “welfare” contenuti nei contratti collettivi è ormai una direzione di marcia sempre più seguita in Germania, come in Italia e nel resto Europa. E credo che sia inarrestabile. Ma c’è “welfare” e “welfare”. Non tutto il welfare è uguale. C’è quello che si presta ad essere acquisito dal sindacato con la contrattazione nazionale ed è questa la strada battuta decisamente dall’ultimo rinnovo del contratto collettivo dei metalmeccanici italiani. L’estensione dei benefici in termini di sanità e previdenza, favoriti da una fiscalità incentivante, si presta ad essere definita a livello nazionale dove hanno sede ed operano i Fondi che raccolgono le risorse e distribuiscono le prestazioni previdenziali ed assistenziali in modo uniforme sul territorio, tra le aziende e tra i lavoratori.
Altra cosa è la conciliazione tra vita e lavoro che coinvolge gli orari. In questo campo è più difficile stabilire in modo netto e dettagliato quali possono essere i benefici (e i diritti) per i lavoratori a livello nazionale. Regole di carattere generali si prestano ad essere scritte nei contratti nazionali, ma sarebbe opportuno affidare la loro implementazione pratica alla singola impresa. Anche attraverso la contrattazione collettiva aziendale. Ed è quello che si fa nel nostro Paese.
Le norme fissate nel contratto dei metalmeccanici tedeschi appaiono, almeno ad un primo esame, troppo rigide e tali da mettere in difficoltà le imprese nella organizzazione della produzione e del lavoro.
Se poi questo causerà un rallentamento della crescita della produttività tedesca, potremmo concludere dicendo, tra lo scherzoso e il cinico, che per noi “non tutto il male viene per nuocere”.
Non vorremmo certamente vedere la Germania rappresentata ancora come il “sick man” dell’Europa. Però la sentiremmo un poco più vicina, se comincerà anche lei a presentare qualche acciacco!
(*) Economista e politico