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Il Censis e l’orsa polare

di Paolo Iacci*

Non dovrei dirlo qui, ma il mio amico Carlo (nome di fantasia) per cercare di risollevarsi da una situazione molto difficile ha deciso di rivolgersi a un sito di appuntamenti.

Tutto computerizzato, un’analisi approfondita dei suoi desiderata.

Fantastico. Carlo era elettrizzato.

Mi ha detto che ha voluto optare per una donna bianca, assolutamente non loquace, amante della vita semplice all’aria aperta, ma che allo stesso tempo si sentisse a suo agio in pelliccia.

L’algoritmo gli ha mandato un’orsa polare.

Gli italiani descritti nell’ultimo Rapporto del Censis mi hanno un po’ ricordato il Carlo della barzelletta. Vivono momenti difficili per cause non sempre ben identificabili, esprimono desideri anche se non sanno bene come esaudirli, si avvalgono spesse volte di scorciatoie non sempre molto trasparenti, i cui effetti sono il più delle volte desolanti. Così, a tu per tu con un’orsa polare, vengono descritti come sonnambuli, ciechi dinanzi ai presagi, non più alla conquista dell’agiatezza, ma alla ricerca di uno spicchio di benessere quotidiano. Per il 62,7% degli italiani il lavoro non è più centrale nella vita delle persone: il senso che viene attribuito al lavoro discende direttamente dal reddito che se ne ricava. È il segno di un certo distacco rispetto al lavoro come fattore identitario della persona: un punto di vista diverso rispetto al passato, più laico nei confronti di quella «religione del lavoro» che ha orientato scelte e comportamenti di tante persone nei decenni passati. Il forte rimbalzo dell’economia dopo le restrizioni del 2020 legate alla pandemia ha determinato una espansione della base occupazionale, con una netta riduzione degli inattivi e delle persone in cerca di lavoro. Così, se nel 2019 il numero delle dimissioni volontarie si attestava poco sopra le 800.000 unità, nel 2022 ha superato il milione, con un incremento significativo (+236.000 ovvero +29,2%). Il tasso di ricollocazione, che indica il reimpiego entro tre mesi dalle dimissioni, è anch’esso cresciuto, passando dal 63,2% del 2019 al 66,9% del 2022. La motivazione principale che spinge le persone a cercare un nuovo lavoro è l’attesa di un guadagno maggiore (per il 36,2% degli occupati) e l’interesse per prospettive di carriera migliori (36,1%). Questo non è però sufficiente a spiegare il fenomeno nella sua complessità. Le persone hanno abbassato la loro soglia di accettazione della frustrazione. Cercano ambienti di lavoro meno tossici, dove si sorride di più, si riconosce maggiormente il merito, si è coerenti con il dichiarato, ci sono meno favoritismi interni all’organizzazione. In fondo niente di nuovo, però oggi il clima è cambiato. Mentre prima si sopportava di più, oggi basta molto meno per andarsene o anche solo per tirare i remi in barca. Fare il minimo indispensabile e poi chi vivrà vedrà. L’importante è avere una professionalità minimamente rivendibile sul mercato del lavoro. L’occupazione cresce, diminuiscono gli inattivi, la disoccupazione è sotto controllo. Gli ultimi mesi mostrano una maggiore intensità nel processo di crescita delle professioni più elevate (qualificate e tecniche: +5,4%) e della categoria impiegatizia (+1,6%), mentre si riducono operai e artigiani (-0,6%), e si riduce il personale non qualificato.

Resta però molto diffusa l’opinione che il lavoro oggi disponibile sia poco qualificato e sottopagato: è l’opinione del 76,1% degli italiani. I lavoratori italiani guadagnano circa 3.700 euro l’anno in meno della media dei colleghi europei e oltre 8 mila euro in meno della media di quelli tedeschi. La retribuzione media annua lorda per dipendente è pari a quasi 27 mila euro, inferiore del 12% a quella media Ue e del 23% a quella tedesca, nel 2021, a parità di potere d’acquisto. La crescita totale delle retribuzioni lorde annue per dipendente in Italia è stata del 12%, circa la metà della media europea. Il potere di acquisto delle retribuzioni, negli stessi anni, è sceso del 2% (+2,5% negli altri paesi). Il problema, però, rimane quello della produttività media per addetto. Le imprese italiane producono, in media, 130,7 euro di valore aggiunto per addetto ogni 100 euro di costo del lavoro unitario. La media dell’Ue è di 139,8 euro e l’Italia è tra gli ultimi Paesi della graduatoria. Se si vuole seriamente aggredire il problema del potere di acquisto dei salari dobbiamo parlare di come incrementare la produttività per addetto. Sicuramente si può recuperare qualcosa sul piano della micro-organizzazione, ma il grosso del problema riguarda gli investimenti in tecnologia. Ai colleghi HR, quindi, il compito di motivare le persone in queste condizioni.

Diciamoci la verità: al confronto il cubo di Rubik mi sembra veramente una bazzecola.

 *Presidente Eca, Università Statale di Milano, in HR on Line n.1 2024

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