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Il COVID non fermerà l’urbanizzazione, la cambierà

Nel pieno della recrudescenza del COVID-19 le Nazioni unite, il 31 Ottobre, hanno celebrato la “Giornata mondiale delle città”(1). 

Date le circostanze si è trattato di un evento particolarmente interessante per gli interrogativi che sottende, a condizione però che sia collocato nel quadro più complessivo delle vicende urbane dei prossimi decenni, evitando di limitarsi alle pur significative dinamiche congiunturali e/o locali. Questo perché le trasformazioni urbane e territoriali per essere ben capite e governate con intelligenza e consapevolezza richiedono per loro natura tempi non brevi. 

Innanzitutto c’è da rilevare che nella dichiarazione del Segretario Generale delle NU(2) è data una lettura chiara di quanto è avvenuto in questi 12 mesi. Secondo António Guterres l’impatto sulla salute di COVID-19 insieme agli sconvolgimenti sociali, politici e finanziari sta rimodellando la vita urbana in tutto il mondo in un modo senza precedenti. 

Un cambiamento profondo ma che, sempre secondo le NU, non rimette in discussione il ruolo delle città in quanto l’urbanizzazione fonda la sua forza, pur se tra mille contraddizioni, nella sua capacità di creare aggregazione sociale, opportunità per una vita migliore, fornire percorsi per uscire dalla povertà, agire come un motore della crescita economica. 

Tuttavia, rilevano le NU, e ne fanno il punto centrale della loro dichiarazione, il contributo delle diverse comunità all’interno delle città troppo spesso non è riconosciuto nella giusta misura, se non del tutto ignorato. Eppure è sempre più chiaro, e quanto avvenuto con il COVID-19 ne è l’ennesima dimostrazione, come le comunità urbane siano la linfa vitale delle città ed elementi costitutivi essenziali che ne determinano il valore economico, ambientale e sociale, ma, soprattutto, garantiscono la loro resilienza.  

Credo che questi due aspetti della moderna dimensione urbana (progressiva urbanizzazione e coesione comunitaria) siano le due questioni da approfondire per comprendere quali potranno essere le più complessive ricadute urbane nel post COVID-19 e soprattutto, come affrontare il post pandemia.

 

La spinta all’urbanizzazione

Sul primo aspetto penso sia utile ricordare alcuni dati: nel 2007, per la prima volta nella storia, la popolazione urbana mondiale ha superato quella rurale. Nel 1950 più di due terzi (70%) di persone in tutto il mondo vivevano in insediamenti rurali e meno di un terzo (30%) in insediamenti urbani. Nel 2014 la popolazione urbana ha raggiunto i 3.900 milioni, pari al 54% della popolazione mondiale. Questo dato, nelle valutazioni ante Covid-19, era destinato a crescere ulteriormente: si prevedeva che entro il 2050 il mondo sarebbe stato per un terzo rurale (34%), per due terzi urbano (66%), circa il contrario della distribuzione globale della popolazione nella metà del XX secolo (3) .

Oggi, quasi la metà degli abitanti della terra risiede in insediamenti relativamente piccoli, con meno di 500.000 abitanti, mentre quasi uno su otto vive in una delle ventotto megalopoli con più di dieci milioni di abitanti. Dal 1990 il numero di megalopoli è quasi triplicato e si prevedeva che nel 2030 ben quarantuno agglomerati urbani sarebbero destinati a ospitare almeno dieci milioni di abitanti ciascuno. A differenza di solo alcuni decenni fa, in cui la maggior parte dei più grandi agglomerati urbani del mondo si trovava nelle regioni più sviluppate, oggi si concentrano nel Sud del mondo e gli agglomerati a più rapida crescita sono di medie dimensioni, con 500.000 e fino a un milione di abitanti, situati in Asia e in Africa.

 

Le ragioni dell’urbanizzazione

Domandiamoci allora: che cosa spinge la popolazione a trasferirsi nelle città o nelle immediate vicinanze di esse?

Le ragioni sono numerose e non sono nuove. Nei paesi ancora arretrati la ragione principale è ricerca di migliori condizioni di vita e di reddito, che in non pochi casi significa fuga dalla fame: è questa una delle radici profonde dei fenomeni migratori che investono l’occidente, ma anche la geografia interna dei paesi in ritardo di sviluppo (si pensi ai fenomeni di urbanizzazione di Cina, India, Africa). Nei paesi a economia avanzata la spinta all’urbanizzazione se nel passato è stata la progressiva sostituzione del lavoro agricolo con le macchine, oggi dipende in larga misura dalle più ricche opportunità che offre la città: fenomeno che nel caso italiano sta spopolando gli antichi centri storici nelle aree interne del sud, ma anche del Nord, alimentando il fenomeno della periferizzazione delle grandi città del nord, del centro e del sud. In tutti i casi la speranza di maggiori opportunità di formazione e di ascesa sociale per se stessi e soprattutto per la prole, di livelli più elevati di consumi, di maggiori comodità, più divertimento, vita sociale più intensa. 

In estrema sintesi, quindi, le città sono considerate come una naturale via di uscita da condizioni di povertà e insicurezza in quanto la vita urbana favorisce livelli più alti di alfabetizzazione e di educazione, migliori condizioni di assistenza sanitaria e di accesso ai servizi sociali e maggiori opportunità di partecipazione culturale e politica. 

 

Il Covid-19 non fermerà l’urbanizzazione

Poniamoci allora una seconda domanda: l’impatto del COVID-19 è tale da rimettere in discussione tutto questo? Le Nazioni Unite escludono questa possibilità ed io condivido quest’orientamento. 

Oggi nei paesi sottosviluppati anche le periferie poste ai margini delle città continuano ad attrarre nuovi migranti in quanto offrono maggiori vantaggi rispetto alle arretrate campagne. E questo malgrado che le aree urbane siano più diseguali rispetto a quelle rurali con milioni di poveri “urbanizzati” che vivono in condizioni sociali molto al di sotto degli standard e in condizioni ambientali fortemente degradate: si stima che le megalopoli in tutto il mondo (città con oltre dieci milioni di abitanti) consumano il 75% delle risorse energetiche e naturali del pianeta, generando l’80% delle emissioni di gas serra a livello globale.

Sicuramente i futuri processi di urbanizzazione avranno delle variabili regionali tenuto conto del maggiore o minore impatto che avrà la ricerca della sicurezza sanitaria, ma se confrontato con le condizioni di miseria di tante realtà del mondo credo che il processo di concentrazione urbana continuerà nel complesso indisturbato.   

Purtuttavia sarebbe miope pensare che tutto resti come prima. La storia insegna: alle grandi epidemie hanno sempre fatto seguito ricadute più o meno importanti sulle città. Le moderne configurazioni di Londra, Parigi, New York in larga misura sono state determinate dagli interventi del 18esimo e 19esimo secolo come misure per il contenimento della peste o del colera o di altre malattie infettive(4) . Molto probabilmente anche nel nostro caso il COVID-19 avrà effetti imprevedibili sul panorama urbano, trasformando non solo le nostre abitudini di vita e lavoro, ma lo stesso aspetto delle città. 

Quali allora i principali drivers che potranno determinare queste trasformazioni? Due su tutti: lo smart working (SW) e l’isolamento sociale, ambedue determinati dalla necessità di ridurre le occasioni di contagio. 

Stando ai dati, del tutto approssimativi sugli effetti del COVID-19 in questa primo anno, potenzialmente più ricco di conseguenze è lo SW che, reso possibile dallo straordinario sviluppo dell’ICT, può determinare una permanente riorganizzazione del lavoro ridisegnando quel sistema di relazioni che sono il fondamento delle attuali organizzazioni urbane e territoriali. 

 

L’impatto su lavoro e imprese

Secondo l’ISTAT (5)  lo SW è stato adottato per il 37,2% delle aziende fino a 50 addetti e per il 18,3% di quelle sotto i dieci. La percentuale sale al 90% nelle grandi aziende e al 73,1% in quelle di medie dimensioni. In soli tre mesi è passato dall’1,2% all’8,8%. Dopo il primo lockdown è sceso al 5,3%, segno di un futuro in accelerazione.

Nel 64% delle aziende, i dipendenti hanno molto apprezzato la decisione di lavorare da casa, cosa che permette loro di coniugare meglio vita privata e vita lavorativa;

Il 39% delle aziende non ha avuto alcun tipo di contraccolpo dallo SW, e il 25,5% dichiara di aver avuto qualche piccola difficoltà, molto limitata e che non ha impattato quasi per niente sulla produzione/erogazione del servizio.

Dal punto di vista delle opinioni dei lavoratori il 38% si è dichiarato fortunato di poter lavorare in SW, cosa che permette di evitare gli spostamenti casa-lavoro e di guadagnare più tempo per sé e per i propri cari; il 27% apprezza le possibilità date dalla tecnologia, che consente di lavorare normalmente anche non essendo fisicamente presenti in ufficio.

In altre parole, sia da parte delle aziende sia da parte dei lavoratori, c’è un chiaro interesse per quanto riguarda la possibilità di lavorare in SW (6). 

Per comprendere l’impatto che potrà avere sull’organizzazione urbana una prima approssimazione la possiamo ricavare andando a vedere, sempre secondo l’Istat, quali settori produttivi sono più o meno coinvolti.

Le differenze settoriali risaltano in ragione dello stretto legame dello SW con la componente tecnologica e le modalità organizzative dell’attività d’impresa. La presenza di pressoché tutto il personale nei locali di lavoro è una necessità dichiarata da oltre tre quarti (78,1%) delle imprese con almeno 3 addetti, è però marcata l’eterogeneità settoriale. Nel comparto ICT riguarda meno di un quarto delle unità, nella fornitura di energia e nelle attività professionali circa un terzo ma supera l’80% nelle attività artistiche e d’intrattenimento, nelle costruzioni e nel commercio ed è pari o superiore al 90% nella sanità e assistenza sociale, nell’alloggio e ristorazione e nelle altre attività di servizi. Nella manifattura la percentuale di lavoratori con funzioni da svolgere in loco supera l’80% nei settori alimentari, abbigliamento, legno, prodotti da minerali non metalliferi; non raggiunge invece il 6% nella farmaceutica.

Nella pubblica amministrazione (7) fa registrare numeri ancora più interessanti rispetto alle aziende: infatti, la media regionale di impiegati nella pubblica amministrazione che lavora in remoto è del 73,8%.

Del resto, la pubblica amministrazione è stata chiamata subito in causa per dare una risposta rapida ed efficace alla necessità di lavorare in SW. Ci sono delle differenze tra regioni: si va dal 46% della Calabria al 100% dell’Abruzzo.

Il dato sulla pubblica amministrazione è da ritenere estensibile a tutte le attività simili che potremmo ricondurre nella generale formula delle attività direzionale a forte valenza “amministrativa”.

 

L’impatto sulle città

Il quadro che emerge da questa casistica è abbastanza chiaro: trova conveniente l’adozione dello SW quell’insieme di attività terziarie e quaternarie pubbliche e private a carattere amministrativo e direzionale. In pratica tutte quelle attività che nel passato trovavano nei centri urbani il loro naturale spazio di insediamento poiché è in esso che potevano beneficiare di un insieme vasto di economie di urbanizzazione (servizi che solo una città è in grado di fornire) e di relazioni di vicinanza con le sedi del potere politico e amministrativo. Di fatto con lo SW si sta dimostrando come questo rapporto, grazie all’ICT, può essere fortemente alleggerito limitandolo ai soli livelli medio-alti delle direzioni aziendali liberando il grosso degli addetti, per ora con il loro apprezzamento, dall’obbligo del lavoro in presenza. 

Considerando che questo tipo di attività terziarie e quaternarie in generale interessa una quota significativa di lavoratori e lavoratrici che, risiedendo mediamente in quartieri a relativa distanza dai centri urbani, non avrebbero più l’obbligo della presenza sul luogo di lavoro, di fatto vengono a essere messe in discussioni un insieme di relazioni spazio-funzionale che in buona misura hanno determinato la moderna configurazione urbana.

In particolare con il parziale venir meno della presenza fisica sul luogo di lavoro la relazione casa – lavoro tende a divenire più flessibile aprendo per i lavoratori nuove opportunità di scelta. Da questo ne derivano un insieme di conseguenze tutte tendenti a rimettere in discussione altri aspetti non secondari della vita urbana e dei suoi equilibri. 

Proviamo a indicarne alcuni: 

  • sicuramente viene fortemente ridimensionato il pendolarismo casa-lavoro, con effetti benefici su ambiente, salute, bilancio e vita familiare, ma anche con effetti ad oggi imprevedibili sul settore dell’auto;i 
  • la minor presenza di lavoratori in città determinerà non piccole difficoltà a quell’insieme di attività terziarie e commerciali che vivevano della loro presenta (si pensi solo alla ristorazione nelle pause pranzo). Per loro si porrà l’esigenza di ripensare le strategie localizzative;
  • richiederà, altresì, di ridisegnare il sistema di mobilità, ma anche la gestione di altri importanti servizi urbani a causa dei diversi pesi insediativi originati dalla mutata dislocazione residenziale dei lavoratori (si pensi ad esempio alle reti energetiche e a quelle dell’ICT); 
  • andrà ridisegnata la distribuzione dei servizi sociali (sanità, istruzione, …. );
  • emergerà anche una nuova domanda immobiliare residenziale con tipologie edilizie più adatte a consentire il lavoro in remoto;
  • possibile ripopolamento di antichi centri e avvio di processi di riqualificazione delle periferie urbane;
  • le periferie urbane, oggi a prevalente uso residenziale con minime dotazioni di servizi, andranno incontro a diffusi processi di qualificazione.

 

Ma il lavoro in remoto non si limiterà a modificare la vita degli smart workers e le attività da questi dipendenti, avrà effetti anche più generali. Anche qui proviamo a indicarne alcune: 

  • è del tutto plausibile che la minor presenza di personale nelle attività terziarie e quaternarie spingerà molte di queste aziende a rivedere la consistenza delle loro sedi: già oggi grandi gruppi stanno rivedendo i loro programmi d’investimenti immobiliari e altri hanno in programma un drastico ridimensionamento delle loro sedi;
  • lo stesso avverrà per le amministrazioni pubbliche che sono tra le principali occupatrici di strutture immobiliari all’interno dei centri urbani; 
  • si aprirà quindi il non piccolo problema della destinazione d’uso degli spazi lasciati liberi che molto spesso occupano aree preziose delle città;
  • il ridimensionamento delle concentrazioni terziarie e direzionali (il cuore direzionale delle città) determinerà l’orientamento a favore di modelli multifunzionali in cui residenza, lavoro e servizio daranno luogo a conglomerati ancora da concepire;
  • probabile crisi dei grandi centri commerciali in favore del commercio online e del commercio di prossimità (in Gran Bretagna l’accesso agli esercizi commerciali ad aprile è crollato dell’85%, mentre lo shopping online è aumentato del 58%, raggiungendo la cifra record del 70% del totale di acquisti non alimentari);

 

  • Come si vede gli effetti del COVID rimettono in discussione alcune delle relazioni chiave che hanno determinato l’organizzazione urbana. Di fatto in alcuni settori fa venire meno quel sistema di convenienze derivanti dalla vicinanza spaziale e che sono state il motore delle grandi aggregazioni metropolitane.   

Ma se viene meno la funzione polarizzatrice della grande concentrazione urbana e la sua funzione dominante, quale diversa organizzazione urbana e territoriale si viene configurando?

 

Dalla dominanza metropolitana al policentrismo urbano

Alcuni dei dati analizzati inducono a pensare che i sistemi urbani si andranno a riconfigurare su un modello multipolare e multifunzionale, anche se ancora gerarchizzato, in cui il tema della sicurezza e le potenzialità dell’ICT giocheranno un ruolo determinante. Indubbiamente questo modello si presenta con caratteristiche assolutamente desiderabili. Da un lato garantirebbe maggiore sostenibilità e resilienza in caso di pandemie; dall’altro manterrebbe vive le cosiddette economie di agglomerazione, ossia quei benefici derivanti dall’interazione di saperi e intelligenze lungo reti informali locali. Inoltre, verrebbero meno i crescenti costi derivati dalla crescita ipertrofica delle città, legati alla congestione e al traffico, all’inquinamento, alla marginalizzazione (e al degrado) generati da profonde disuguaglianze che caratterizzano i grandi centri urbani. In questo nuovo contesto anche le aree interne potrebbero giocare un ruolo se saranno dotati di infrastrutture fisiche e digitali che consentano loro di sviluppare connessioni con il livello di città intermedio.  

Paradossalmente la necessità dello SW causato dalla pandemia e reso possibile dalle moderne tecnologie della comunicazione, potrebbe determinare le condizioni per realizzare molti degli obiettivi previsti dall’Agenda ONU per il 2030 (8). Potrebbe significare maggiore livello di “intelligenza” delle città al fine di accrescere le condizioni di benessere utilizzando sempre meno risorse naturali. Potrebbe essere l’occasione per ripensare la città, i suoi flussi interni, di uomini e merci, rendere l’area urbana più accessibile, aperta, inclusiva, pulita, a misura d’uomo. Potrebbe favorire la trasformazione dei centri urbani verso le smart city, per affrontare le criticità delineate attraverso l’efficienza energetica, il ricorso alle fonti energetiche rinnovabili, l’ottimizzazione dei consumi, il taglio delle emissioni inquinanti di ogni tipo e l’uso di smart technologies. Potrebbe significare rifondare il ciclo urbano su rigenerazione, riciclo e recupero di materiali di scarto. Tutti obiettivi il cui perseguimento è oggi reso difficile da perseguire per le resistenze di quell’insieme d’interessi oggi rimessi in discussione dal Covid-19. 

 

La coesione comunitaria e il riconoscimento sociale del lavoro 

Tutto questo, tuttavia, sarà possibile se il processo di trasformazione sarà governato con intelligenza e lungimiranza tutelando gli interessi di quanti vedono nella vita urbana una opportunità di emancipazione dalla fame, dalla violenza, dall’inquinamento e, soprattutto, ostacolando la tentazione all’isolamento sociale come formula di garanzia della sicurezza sanitaria.

Qui entra in campo il secondo aspetto sottolineato con forza dalle NU: la coesione comunitaria. 

Secondo le NU in questi mesi le comunità locali hanno svolto un ruolo chiave per contribuire alla sicurezza delle persone e al mantenimento di alcune attività economiche. Per queste ragioni le attività comunitarie non possono più essere date per scontate o sottoposte a risorse insufficienti. Ѐ necessario che Politici e manager urbani coinvolgano le comunità in modo sistematico e strategico nella pianificazione, attuazione e monitoraggio urbano per co-creare le città del futuro.

Sempre secondo le NU, il riconoscimento del valore delle comunità deve essere mantenuto oltre il virus. Nella transizione verso una nuova normalità urbana sostenibile, le comunità locali devono svolgere un ruolo più ampio condividendo le iniziative dei governi per la creazione di posti di lavoro, la fornitura di servizi essenziali, la garanzia di una trasformazione economico-verde, la fornitura di alloggi adeguati e spazi pubblici e ripristino delle catene del valore locali.

Queste indicazioni del tutto condivisibili probabilmente non tengono conto nella giusta misura del possibile sconquasso sociale che potrebbe determinare lo SW se non “governato” con lungimiranza. Questo perché se il lavoro in remoto potrà svolgere un ruolo virtuoso anche nel futuro, tuttavia non vanno sottaciuti alcuni dei suoi rischi e limiti. La città non è fatta solo di edifici e infrastrutture fisiche, la città è tale se forte è la coesione della comunità che la vive. Da questo punto di vista lo SW pone importanti interrogativi sulle relazioni umane e interpersonali, che rischiano di essere messe in discussione con il lavoro in remoto anche se tra le mura domestiche. 

Il rischio principale è la possibile perdita d’identità del lavoratore e il venir meno del riconoscimento della sua funzione sociale che si alimenta, in particolare, delle relazioni nel luogo di lavoro che non è un mero spazio fisico, ma il luogo il cui il lavoratore costruisce la sua identità di cittadino democratico nel rapporto con gli altri lavoratori, la famiglia, l’impresa, le istituzioni, la comunità nel suo complesso. Ѐ dal luogo di lavoro che trae origine anche quell’insieme di organizzazioni di tutela e solidarietà che il modo del lavoro ha costruito nel tempo per l’affermazione dei suoi diritti di lavoratore e cittadino. D’altra parte con lo SW vengono ad essere messi in discussione punti fondamentale del rapporto di lavoro: come si calcolerà il tempo di lavoro, come verrà valutata la sua produttività, quale la ripartizione degli oneri, quali diritti, chi vigilerà su di essi, ecc.

In egual misura la stessa impresa è coinvolta dalla necessità di rivedere il suo profilo sociale oltre che alla sua organizzazione e trovare un punto di equilibrio tra un modello di autorità distribuita, strutture molto piatte e “lean”, visione sistemica e volta verso l’esterno, e la necessità di un legame con l’ambiente sociale e culturale in cui opera, prima ancora che urbano e territoriale (9). Temi non nuovi, ma che con lo SW compiono un salto di scala che richiederanno ben altra attenzione di quanto avvenuto fino ad ora.   

Come si comprende la transizione non sarà semplice. Ma è del tutto evidente che se i pilastri della coesione dovessero entrare in crisi verrebbe meno quella forza che secondo le NU è chiamata a garantire la qualità del futuro sviluppo urbano.

Per impedire che questo avvenga è indispensabile che le forze sociali promuovano una seria riflessione sulle modalità in cui dovrà essere governato e regolato lo SW. In particolare, credo sia fondamentale assumere come pilastro su cui costruire il suo profilo il riconoscimento della funzione sociale del lavoro, del lavoratore e dell’impresa così come indicato nella Carta Costituzionale. Inoltre, rifuggendo da tentazioni algoritmiche, ritengo sia indispensabile tener conto dell’insieme delle implicazioni che ne derivano per quanto riguarda l’organizzazione sociale e sue ricadute sulle città e il territorio sollecitando un contributo del mondo della cultura urbanistica e delle scienze sociali.

 

 

note

1 –  Istituita dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 27 dicembre 2013, con risoluzione A/RES/68/239,

2 – Messaggio del Segretario Generale per la Giornata Mondiale della Città – 30 Ottobre 2020

3 – UN – Department of Economic and Social Affairs – 2018 Revision of World Urbanization Prospects

4 – Le prime leggi urbanistiche sono nate nel XIX secolo durante la rivoluzione industriale per controllare le malattie infettive.

5 – ISTAT – Situazione e prospettive delle imprese nell’emerenza sanitaria Covid-19 – 15.6.2020

6 – Infojobs smart working 2020, indagine condotta su un campione di 189 aziende e 1149 candidati

7 – Funzionepubblica.gov.it, dati aggiornati al 21 aprile 2020).

8 – Nel report “Cities Policy Responses”  l’OECD  afferma che “COVID-19 ha accelerato il passaggio a un nuovo paradigma urbano verso città inclusive, verdi e intelligenti” –  23 Luglio 2020

9 – “Organizzazione 2020: rischio involuzione”, promossa da Asterys, società internazionale di sviluppo organizzativo.

 

*Architetto, Direttore di Abitare e Anziani

 

 

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