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Il difficile equilibrio tra tagli alla spesa pubblica e tutela della solidarietà

E’ opinione comune che l’ultima “riforma” dell’ordinamento previdenziale sia avvenuta nel 1995 con la cosiddetta riforma Dini dal nome del capo del Governo dell’epoca.

In realtà,  da allora ad oggi, ogni successivo Governo – nessuno escluso – ha messo mano a modifiche più o meno profonde del sistema normativo, che dovrebbe garantire l’attuazione del principio costituzionale che riconosce ai lavoratori “il diritto che siano preveduti e assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”(art. 38 cost.)

Diritto messo recentemente in dubbio, se si pensa al problema degli esodati o al livello di alcune pensioni minime.

Certo non ha aiutato a razionalizzare il problema la “famigerata” lettera di Olli Rehn e Mario Draghi al Governo italiano di qualche anno fa, fatta propria dal Governo Berlusconi e che ha segnato l’azione del Governo Monti nel senso di attribuire prevalenza alle regole di bilancio adottate – significativamente e innovativamente – con la modifica dell’art. 81 della Costituzione, che, a partire  dal prossimo esercizio finanziario, così dispone:

Lo Stato assicura l’equilibrio tra le entrate e le spese del proprio bilancio, tenendo conto delle fasi avverse e delle fasi favorevoli del ciclo economico.

Il ricorso all’indebitamento è consentito solo al fine di considerare gli effetti del ciclo economico e, previa autorizzazione delle Camere adottata a maggioranza assoluta dei rispettivi componenti, al verificarsi di eventi eccezionali.

E’ quindi lecito chiedersi se tali vincoli di bilancio di natura economica e le Direttive dell’Unione Europea possano condizionare e in quali limiti i diritti dei cittadini e dei lavoratori sanciti nella Costituzione, quale quello contenuto nell’art. 38.

Ed infatti proprio con la riforma Dini – e non a caso – si dette avvio alla Previdenza complementare e la Corte Costituzionale non esitò a farla rientrare nel sistema dell’art. 38. 

Ebbene, all’indomani dell’approvazione della  Legge di stabilità 2014,  l’ISTAT, l’INPS e il Ministero del lavoro fanno presente che quasi un pensionato su due (46,3%) ha un reddito da pensione inferiore a mille euro, al 31 dicembre 2012 i pensionati sono 16 milioni 594mila e di questi, il 75% percepisce solo pensioni di tipo Invalidità, Vecchiaia e Superstiti (Ivs), mentre il restante 25% riceve pensioni di tipo indennitario e assistenziale, eventualmente cumulate con pensioni Ivs.

Per arrivare ad una lettura coerente della Costituzione così come oggi la leggiamo è forse il caso di ricordare alcuni punti fermi.

E’ ben vero che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, ma è altrettanto vero che richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica economica e sociale.

Ricordiamo questi (ovvi) principi per verificare come possano essere applicati al quesito che ci siamo posti e per verificare come si possano conciliare con le misure per fronteggiare i costi.

La Corte Costituzionale è stata chiara al riguardo, affermando che la spesa pubblica si fronteggia con la leva della fiscalità generale alimentata dalla capacità contributiva di tutti i contribuenti.

Ma proprio i doveri inderogabili di solidarietà consentono l’imposizione di contributi di solidarietà. E qui il discorso si complica, perché è facile scivolare nell’elusione dell’obbligo generale dell’art. 53.

Solidarietà fra chi ? Fra i pensionati o fra i pensionandi ? E quali?

La garanzia dell’art. 38 riguarda i “lavoratori” senza altra aggettivazione e quindi la solidarietà per far fronte a quella garanzia non può che riguardare i lavoratori, tutti i lavoratori, proprio perché la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35).

Ciò significa – come già abbiamo avuto modo di segnalare – che i contributi di solidarietà per far fronte alla spesa previdenziale ( e solo alla spesa previdenziale) non possono che riguardare i redditi da lavoro oltre che quelli da pensione e assimilati, nella misura fissata dalla legge. Per essere ancora più chiari, se vanno colpite le pensioni d’oro o i vitalizi, a maggior ragione andranno colpite le stock options.

Anche il Parlamento sembra essersi reso conto della necessità di riflettere bene sulla materia, come si evince dalla mozione congiunta approvata il 9 gennaio scorso alla Camera che da una parte prende atto dell’orientamento della Consulta che non consente forme di prelievo coattivo che colpiscano solo alcune forme di reddito e dall’altra riconosce la necessità di coniugare il principio di equità con quello di solidarietà. Fatto sta che la Legge di stabilità non sembra essersi orientata in tal senso, sia pure con norma transitoria.

Per la spesa  assistenziale  – pari come abbiamo visto  al 25% dei pensionati – l’onere è necessariamente a carico della fiscalità generale, ma il discorso è del tutto teorico se parliamo di contribuzione di solidarietà. Ma neanche tanto se non si osserva la distinzione fra spesa previdenziale e spesa assistenziale.

Un altro aspetto della spesa previdenziale non va trascurato, anche se non sempre viene considerato.

Lo Stato e le Pubbliche Amministrazioni sono datori di lavoro e il rapporto di lavoro con gli stessi è del tutto equiparato ai rapporti di lavoro privato, tranne alcune perduranti isole di privilegio che ci si dovrebbe affrettare a superare.

Ma così non è se lo Stato si arroga il diritto di risolvere unilateralmente il rapporto di lavoro anche se il lavoratore non ha raggiunto i requisiti per la pensione di vecchiaia, ma solo quelli per la pensione di anzianità, che, quindi, dopo essere stata fortemente avversata diventa obbligatoria e non più opzionale, trasformando un’opportunità facoltativa in una causa di licenziamento in tronco (vedi art. 24 del d.l. 201/2011, conv.to nella L. n. 214/2011).

Anche qui si pone un problema di conciliare la spesa pubblica con i diritti dei lavoratori pubblici, ma è troppo evidente il problema di disparità di trattamento non bilanciato dalla natura del rapporto di lavoro. 

Guido Carli quando parlava di “lacci e lacciuoli” che ostacolavano la libertà di impresa non risulta che si riferisse alla Costituzione italiana, che, finchè c’è, dovrà essere osservata anche dalla Ragioneria Generale dello Stato.

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