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Il Governo deve osare di più per la crescita

La manovra finanziaria del 2015 cambia verso rispetto a quelle precedenti, più orientate al contenimento dei costi e alla tenuta dei vincoli finanziari europei, piuttosto che alla crescita.

Al contrario, la legge di stabilità 2015 ha dichiaratamente l’obiettivo di sostenere la crescita e il lavoro, e il Governo ha fatto valere oggi, con più forza che nel passato, gli interessi dell’Italia nei confronti della Commissione Europea e della politica di cieca austerità voluta e presidiata in questi anni – e non senza vantaggi economici e industriali per il proprio paese – dal Governo tedesco.

Una manovra da 36 miliardi, di cui 18 destinati a ridurre le tasse sui lavoratori e sulle imprese e a sostenere la decontribuzione per le nuove assunzioni a tempo indeterminato, corrisponde a quello che la Cisl e tutto il sindacato confederale in questi anni hanno chiesto e rivendicato nei documenti e nelle piazze.

In particolare, l’eliminazione della componente lavoro dall’IRAP ai soli contratti a tempo indeterminato e la loro contemporanea decontribuzione ha indubbi effetti positivi sul costo del lavoro e può concretamente favorire l’uscita dalla precarietà di un numero significativo di giovani.

Su questo c’è da verificare nel Jobs Act se, in coerenza con l’introduzione del nuovo contratto a tutele progressive, si riduce concretamente il numero dei contratti precari; e dobbiamo chiedere al Governo di vincolare la riduzione dell’IRAP a programmi certi di investimenti e/o a nuove assunzioni da parte delle imprese.

 

La mancata estensione del bonus degli 80 euro ai pensionati e la conferma del blocco dei contratti pubblici rende più debole la manovra sul versante degli stimoli alla ripresa della domanda dei consumi interni.

Quanto all’operazione del TFR in busta paga, non solo non è condivisibile perché disincentiva la previdenza integrativa e aumenta la tassazione applicata, ma anche perché è destinata ad avere un effetto modesto sui consumi.

Proporre poi il TFR in busta paga e contemporaneamente aumentare la tassazione sulla previdenza integrativa, è un vero e proprio attentato al futuro pensionistico delle nuove generazioni.

Ci sono altri provvedimenti, con stanziamenti minori che vanno nella direzione di finanziare la crescita e le protezioni sociali. E tra questi la “furba”, ma  positiva, estensione degli 80 euro alle neomamme. C’è poi da verificare se lo stanziamento previsto per gli ammortizzatori sociali sia adeguato all’ emergenza occupazionale che il Paese attraversa, o non sia necessario individuare nuove soluzioni che permettano di ridurre il ricorso agli ammortizzatori sociali e consentano invece un più facile pensionamento dei lavoratori anziani, chiedendo su questo un contributo alle imprese.

Le risorse necessarie a sostenere la riduzione fiscale, gli incentivi alla crescita e le protezioni sociali derivano prevalentemente dai tagli alla spesa, dal recupero dell’evasione fiscale e dalle risorse ricavate dall’uso flessibile dei parametri europei.

Su questo c’è da rilevare che sull’evasione fiscale si può fare certamente di più e occorre soprattutto evitare che i tagli previsti agli enti locali, anziché in riduzione di sprechi e inefficienze si traducano in un aumento delle tasse locali e/o in una riduzione dei servizi e delle prestazioni sociali: ciò significherebbe azzerare in un solo colpo i vantaggi del bonus fiscale per i lavoratori e rappresenterebbe una beffa per i pensionati e gli incapienti che vedrebbero persino impoverire ancora di più i loro redditi.

E’ necessario per questo introdurre una clausola che vincoli i comuni e le regioni a non aumentare le tasse locali; sarà invece compito dei sindacati territoriali assumere iniziative per impedire che, anziché gli sprechi, vengano tagliati i servizi e le prestazioni sociali.

L’impianto e gli obiettivi della manovra si muovono quindi nella giusta direzione, e come in ogni finanziaria ci sono provvedimenti positivi , altri da migliorare, e altri ancora da cancellare; ma alla domanda “se questo basterà ad invertire la tendenza recessiva e a far ripartire l’economia e il lavoro” la risposta è “no, non basterà”.

Del resto a leggere quanto è contenuto nello stesso documento inviato a Bruxelles dal Ministro dell’Economia Padoan, circa gli effetti che la manovra potrà avere sulla crescita in Italia, c’è da rimanere delusi.

Nei “1000 giorni” programmati dal Governo è previsto, infatti, solo un lento e modesto incremento del PIL e la legge di stabilità non pare in grado di dare la scossa necessaria a far ripartire crescita e occupazione. Mancano gli investimenti pubblici e un progetto di sviluppo per il Paese. Manca un programma di ammodernamento delle infrastrutture, come latitano progetti e risorse per il rilancio dei settori industriali. La manovra del Governo non va in profondità, difetta di visione del futuro.

E’ su questo che il Governo va incalzato, mantenendo alta la mobilitazione sindacale. Perché la crescita e il lavoro non potranno prescindere dagli investimenti e dal rilancio della nostra industria.

Non basta ridurre le tasse e affidarsi al mercato privato perché tornino gli investimenti e il lavoro, né basteranno gli 80 euro per far ripartire i consumi interni se non si intravedono un progetto di futuro per il Paese ed effettive possibilità di nuovo lavoro.

Al tempo stesso è difficile che la produttività torni a crescere se si riducono i finanziamenti al salario di produttività e non si interviene in modo strutturale e duraturo per rimuovere gli ostacoli che penalizzano la competitività delle nostre imprese e dei nostri territori.

Il Governo va incalzato nelle piazze e nei tavoli di trattativa. Occorre mobilitarsi ma anche sfruttare tutti gli spazi negoziali disponili per cambiare e migliorare la manovra, per chiedere al Governo di osare di più sulla crescita, di investire di più sul lavoro e sul futuro del Paese.

E’ un peccato che la CGIL abbia scelto di fare da sola, con parole d’ordine e alleanze che la confondono con la politica e con la lotta interna agli schieramenti dei partiti. Perché si rivelano soprattutto qui e nell’incapacità di sintonizzarsi con i cambiamenti, più che nelle accuse di Renzi, i sintomi del declino del sindacato confederale italiano.

 

(*) Segretario Generale FIM-CISL

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