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Il mercato del lavoro arranca tra innovazione e crisi economica

L’11a Commissione Lavoro e previdenza sociale del Senato lo scorso mese ha concluso le attività relative all’indagine conoscitiva “Impatto sul mercato del lavoro della quarta rivoluzione industriale”, che utilizza principalmente dati comparativi di fonte OCSE.

L’indagine verte su un tema ormai costantemente al centro del dibattito pubblico, ovvero il rapporto tra tecnologia e lavoro. Più nello specifico, la nuova rivoluzione industriale in atto (industria 4.0) appare caratterizzata da tecnologie sempre più disponibili e a basso costo, sia per le imprese che per le persone, destinate ad evolvere con ritmi e contenuti imprevedibili. Questo comporta una naturale e legittima paura legata alla distruzione del lavoro come conseguenza all’introduzione di nuovi strumenti di produzione di beni e servizi e nuovi processi ad alto contenuto tecnologico.

Il documento compie un’analisi storica del controverso rapporto fra innovazione tecnologica e lavoro, con particolare attenzione ai fattori che in pochi decenni hanno concorso a minare i pilastri su cui si fondava l’assetto nato dalla precedente rivoluzione industriale, nel quale la tecnologia andava ad affiancarsi al lavoratore e non a sostituirlo. 

Dall’introduzione delle prime tecnologie dell’informazione nei sistemi produttivi, che hanno portato agli iniziali esempi di digitalizzazione dei processi e di robotica industriale, l’indagine ricostruisce i meccanismi che hanno fatto andare in crisi un mercato del lavoro che ha finora continuato a basarsi su percorsi lineari: essenzialmente sulla staffetta generazionale fra nuovi ingressi e pensionamenti, sulla specificità delle competenze fornite dal sistema di istruzione/formazione e sul funzionamento degli ammortizzatori sociali come strumento di intervento nei casi di “fallimento del mercato”.

I cambiamenti in atto in questi anni ci pongono invece di fronte a un modello nuovo di economia che si concretizza nell’interconnessione, la quale smaterializza le filiere produttive abilitando ancor di più le catene globali del valore e internazionalizzando non solo la produzione ma anche i suoi fattori a partire dal lavoro. E, soprattutto, siamo di fronte a un modello economico che contribuisce alla decostruzione dei settori produttivi tradizionali, ampliando le opportunità delle imprese che possono collocarsi su nuovi ambiti di mercato combinando beni e servizi in offerte nuove. Una rivoluzione, quindi, che ha come caratteristica principale quella della rottura dei confini, siano essi geografici, settoriali o le mura fisiche della stessa impresa. 

Lo scenario descritto non ha precedenti storici e coinvolge naturalmente anche l’Italia, che affronta la rivoluzione rispetto ai vicini Paesi europei in condizioni di annosa criticità e di svantaggio comparativo, contraddistinto dalle seguenti caratteristiche: minore occupazione rispetto alla media europea; disoccupazione elevata, specie in alcune fasce demografiche; ingente percentuale di soggetti inattivi; marcato invecchiamento della popolazione attiva (l’età media del lavoratore italiano ha raggiunto i 44 anni); persistente dualismo generazionale, territoriale e di genere.

Alle criticità strutturali del mercato del lavoro italiano si sommano le profonde trasformazioni indotte dalla lunga crisi recente, che a loro volta possono essere sintetizzate con le seguenti informazioni: 

  1. il numero di operai in un decennio si è contratto di circa un milione di unità, interessando per circa la metà le professionalità tecniche e qualificate; 
  2. si è incrementato di almeno 480 mila unità il numero di lavoratori non qualificati o a bassa qualifica e si è fortemente accresciuta la quota delle professioni esecutive nel settore terziario.

I dati OCSE, riassunti dalla successiva figura, mostrano come la crescita dell’occupazione nell’ultimo decennio, in Italia più che altrove, si sia “polarizzata” attorno alle attività a bassa specializzazione e in quelle a professionalità molto elevata, in corrispondenza di una drastica riduzione della quantità di occupati nella fascia intermedia, che in Italia era la componente principale della popolazione lavorativa, ampiamente superiore alla media europea.

 

Fig. 1: Le trasformazioni nel mercato del lavoro in termini di qualifica dell’occupazione dal 1995 al 2015 nei Paesi OCSE (punti in percentuale rispetto al totale della forza lavoro)

Fonte: OCSE Employment Outlook 2017,

 

Allo stesso modo, relativamente alla diffusione delle cosiddette high-performance work practices, ovvero le professionalità ad alta specializzazione, il nostro Paese si trova all’ultimo posto tra i Paesi OCSE, come mostra la successiva figura. Alla base di questo dato bisogna tuttavia ricordare come tra le origini dei cronici bassi tassi di occupazione italiani (in particolare per le occupazioni ad alta specializzazione) vi sia stata la scelta delle imprese nel secondo dopoguerra di investire esageratamente in tecnologie di processo labour saving, anche al prezzo di rallentare l’innovazione dei prodotti quale conseguenza delle necessità di ammortamento degli impianti.

 

Fig. 2: Professioni ad alta professionalità (high-performance work practices – HPWP) nei Paesi OCSE (quota di posti di lavoro e indice medio)

Fonte: OCSE Employment Outlook 2017,

 

Alla luce di ciò, la crescita dell’occupazione attorno alle occupazioni a bassa produttività pone in maniera pressante il problema di come l’innovazione, anche nella modalità digitale, possa diventare nel nostro Paese uno strumento in grado di contribuire al miglioramento dei fattori della produzione e alla competitività delle imprese.

La necessità di intercettare i fabbisogni di nuove competenze e di ridurre il divario esistente tra velocità dell’innovazione nel mercato e velocità dell’apprendimento, diventano la chiave di volta per provare oggi a gestire economicamente e socialmente la rivoluzione in atto. Da qui la convinzione che il motore dell’utilizzo della tecnologia (e dell’influenza di tale utilizzo sul lavoro) si collochi anche nelle scelte compiute dal decisore politico, per cui il cambiamento in atto, per quanto assolutamente nuovo nella storia della civiltà umana, debba essere “governato” mediante opportune valutazioni di politica economica.

Le trasformazioni del sistema economico e dei processi produttivi, che concretamente si articolano soprattutto in riduzione dei cicli di vita dei prodotti, nella minor durata e nell’intercambiabilità tra i modelli di business e nello sviluppo di reti di imprese, hanno conseguenze anche sul diritto del lavoro. Questo comporta, ad esempio, una destrutturazione delle forme di protezione del lavoro tradizionali, incentrate sui concetti di luogo e di orario di lavoro, delle tipologie contrattuali e dei tradizionali modelli di politiche del lavoro. I cambiamenti del mercato sono, soprattutto, difficilmente codificabili con uno strumento rigido come quello legislativo. 

In tale scenario, la contrattazione collettiva assume un ruolo centrale per regolare in modo adattivo e duttile i rapporti di lavoro, purché questa evolva verso strumenti più moderni ed attuali, quali ad esempio: formazione continua di qualità ed esigibilità del diritto all’apprendimento; riconoscimento della centralità di accordi di prossimità (azienda, filiera, territorio) finalizzati all’incremento di produttività e alla condivisione dei benefici con i lavoratori; interpretazione dinamica degli inquadramenti professionali. 

La pratica contrattuale deve diventare lo spazio nuovo per disincentivare i comportamenti opportunistici e al contrario incentivare la convergenza degli interessi, la condivisione, l’adattabilità e la partecipazione dei lavoratori ai processi di impresa.

In conclusione, il progresso tecnologico non avrà negli anni a venire, come non ha mai avuto in passato, il potere di rendere definitivamente inutile il lavoro umano. Se sapremo valorizzarlo, continuerà ad avere campi amplissimi nei quali esprimersi, rispondendo a esigenze vitali delle singole persone e della società. 

Però è altrettanto vero che l’avvento della robotica e dell’intelligenza artificiale pone a rischio di sostituzione non più soltanto i mestieri di basso contenuto professionale, bensì anche quelli di contenuto elevato. E ciò potrà rendere più lunga e impegnativa la transizione dai vecchi ai nuovi lavori.

La soluzione, in ultima analisi, risiede in un drastico miglioramento dell’efficienza dei servizi di istruzione, di orientamento e di formazione professionale, così come nella loro coniugazione con un congruo ed efficiente sistema di sostegno del reddito delle persone coinvolte, affinché la disponibilità di lavoro umano generata dalla scomparsa dei vecchi mestieri costituisca la via per stimolare la capacità di inventarne di nuovi.

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