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Il modello tedesco serve anche al sindacato

“Fare come i tedeschi“: è la parola d’ordine di tutti coloro che si interessano del mercato del lavoro. Mi sembra un’indicazione saggia perché il mercato del lavoro tedesco funziona bene. Funzionava tutto sommato assai bene anche quando la Germania era accusata di essere la tartaruga d’Europa ma ha funzionato ancora meglio negli ultimi dieci anni, dopo che Schroeder ha proposto e fatto approvare ulteriori miglioramenti, che riguardano soprattutto la mobilità interna (cioè la possibilità di variare mansioni e orari per rispondere ai cambiamenti produttivi) e la perdita dell’indennità di disoccupazione se non si accettano proposte di lavoro alternative.

La direzione delle riforme tedesche è largamente condivisibile e non ci dobbiamo stupire se esse sono accompagnate da un coro di approvazione.

Dobbiamo tuttavia riflettere sul fatto che ogni riforma si inserisce in uno specifico contesto di sensibilità, tradizioni, strutture sociali ed organizzazioni scolastiche. In tutti questi campi le differenze fra Italia e Germania sono abissali.

La prima differenza riguarda la diversità del sistema di istruzione dei lavoratori e dei tecnici: dettagliato fino all’ossessione e operante su vasta scala in Germania, fragile e quantitativamente limitato in Italia.

A nord delle Alpi, inoltre, i periodi di disoccupazione sono obbligatoriamente utilizzati per aumentare l’apprendimento tramite una tradizione di alternanza fra scuola e lavoro che, pur attraverso profonde evoluzioni, gode di un’esperienza plurisecolare. Altrettanto antiche sono la pratica e l’apprezzamento sociale dell’apprendistato, anch’esso strettamente coordinato con il sistema scolastico. Non è un caso che le esperienze italiane più formalizzate e raffinate di alternanza scuola-lavoro stiano nascendo in questi giorni a Bologna per opera di due imprese di proprietà tedesca (Lamborghini e Ducati) e con un finanziamento straordinario della fondazione Volkswagen.

In secondo luogo la struttura di protezione sociale è totalmente diversa, con provvidenze generalizzate in Germania e discriminatorie in Italia, dove si garantisce una lunga e completa protezione per le casse di integrazione speciali e nessuna provvidenza per i precari.

La differenza più importante è tuttavia nel modo con cui l’attività di lavoro viene espletata perché, pur essendo doveroso prevedere regole di garanzia, bisogna convenire che, come ha recentemente dichiarato il prof. Treu, ” il potere cambiare la mansione di un dipendente è uno dei modi migliori per preservare il suo posto di lavoro e per combattere la precarietà”.

Per tutti questi motivi la riforma del mercato del lavoro è un problema così urgente da dovere essere considerato prioritario nell’agenda di governo. Tuttavia questi pochi esempi dimostrano che tale riforma non può avere effetti ” tedeschi” se non si germanizzano anche le condizioni di contorno.

Ai cambiamenti urgenti mi sembra quindi necessario affiancare un corposo libro bianco che accompagni a queste riforme le necessarie innovazioni nel campo delle scuole tecniche, dei rapporti scuola-lavoro, dell’apprendistato, delle reti di protezione, dei diritti e dei doveri dei lavoratori e delle modalità di risoluzione delle controversie. Il tutto per arrivare a un quadro legislativo in grado di superare le passate frammentazioni, affrontando i problemi del mondo del lavoro in modo organico e semplificato.

Se poi vogliamo davvero semplificare e rendere più efficiente questo mondo vi è un altro tabù da affrontare, quello dell’unità sindacale. Capisco di toccare un tasto più che delicato ma credo proprio che il pluralismo sindacale, così importante nella prima fase della formazione della nostra democrazia, abbia perduto la sua ragione d’essere. Mentre debbo infatti constatare che tutti i paesi saggi e riformisti hanno un sindacato unitario e collaborativo, non posso da parte mia dimenticare come, nelle lunghe notti di trattative a cui ho partecipato, sia come presidente dell’Iri che come presidente del Consiglio, la continua dialettica fra i sindacati abbia reso molto più difficile l’elaborazione di una linea coerente dei rapporti di lavoro. Se alle due di notte la CGIL partiva con una proposta si poteva essere sicuri che un’ora dopo la CISL replicava con una proposta alternativa e che poi, un’ora dopo, veniva il turno della UIL. Come risultato, alle cinque di mattina, si andava a letto con un accordo che faceva fatica a stare insieme.

Per questo motivo, e non per compiacere la Confindustria, quand’ero presidente dell’IRI, ho preso la difficile decisione di sciogliere il pur raffinato sindacato che rappresentava le imprese pubbliche. Mi sembrava infatti assurdo che i pilastri fondamentali del contratto di lavoro dell’Alfa Romeo fossero diversi da quelli della Fiat.

Aggiungo inoltre che se chiediamo con tanta insistenza la semplificazione e la contrazione dei costi delle nostre istituzioni, delle imprese pubbliche e dei partiti politici dobbiamo esprimere la stessa esigenza nei confronti dell’altro grande pilastro della democrazia che è il sindacato. Anche questo è un passo difficile ma necessario per “fare come i tedeschi”.

 

 (*)  da “Il Messaggero” del 7 settembre 2014

 

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