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Il problema c’è, ma la soluzione non può essere uno slogan

Recentemente, la Ministra del Lavoro Catalfo è ritornata a ribadire che “l’introduzione di un salario minimo legale è indispensabile” (audizione presso la Commissione Lavoro del Senato, 14/01/2021). La questione si trascina da qualche anno senza trovare punti fermi da cui trarre una considerazione come quella fatta dalla Ministra. Se ci fossero, probabilmente si sarebbe già trovata un’equa soluzione e fatto lavorare meno (e spesso inutilmente) giuristi, esperti, politici, parlamentari, parti sociali. La quadratura del cerchio, invece, stenta a delinearsi e non dipende   soltanto dalla buona volontà del legislatore.

La tematica esiste e sta diventando sempre più grave. Molte persone sono sottopagate in relazione al lavoro che fanno. Il calcolo non è facile da farsi, ma mettendo assieme le platee, spesso eterogenee, dei precari esistenti nei vari settori dell’economia, si raggiungono alcuni milioni di interessati (vedere l’articolo di Ichino). Con la pandemia, molti di questi si stanno aggiungendo ai disoccupati da essa prodotti (soprattutto giovani e a contratti a tempo determinato) e non tutti possono accedere agli ammortizzatori sociali emergenziali che in qualche modo sta tenendo bassa la tensione sociale.

Con o senza pandemia, ritengo francamente che il tema è posto ma la risposta non è ben data. La cura per migliorare la tutela dell’area dei “poor workers” non passa per il salario minimo, non passa per alchimie legislative. L’immaginifico non si addice alla concretezza dell’incontro tra domanda e offerta del lavoro. Abbiamo passato un ventennio a manipolare la legislazione del lavoro senza cavare un ragno dal buco. C’è stato un periodo – quello del primo Governo Berlusconi – in cui si è cercato di mettere il bastone tra le ruote della contrattazione pur di creare sostegni artificiosi all’intervento legislativo a favore di una più accentuata discrezionalità aziendale in fatto di salario. Insistere sarebbe diabolico.

Si sostiene che nel mondo e anche in Europa sono più i Paesi che hanno il salario minimo legale che quelli che non ce l’hanno; è vero. Forse la Ministra Catalfo avrà applaudito Biden che, tra i primi provvedimenti da Presidente, ha elevato a 15 $ quello degli Stati Uniti. Anche io sono contento. Ma negli USA non esiste il Contratto nazionale di categoria! Ci sono tanti contratti aziendali, soprattutto nelle grandi aziende sindacalizzate (situazione dura da raggiungere per le regole capestro che presiedono alla presenza del sindacato nei luoghi di lavoro), ma anche un oceano di aziende e lavoratori che non sanno cos’è un contratto collettivo. Quindi impossibile paragonare fischi con fiaschi. Il paragone si deve fare con i paesi a struttura contrattuale matura e diffusa. E questi non hanno il salario minimo legale (vedere la tabella nell’articolo di Cazzola) perché i minimi contrattuali fanno da riferimento base per le retribuzioni.

D’altra parte – a meno che non si pensi che bisogna mandare in soffitta il contratto nazionale di categoria – se si adottasse un salario minimo legale, uguale per tutte le categorie (la Ministra quando era Presidente della Commissione Lavoro del Senato presentò un disegno di legge che lo concretizzava in 9 euro per ora lavorata), se fosse troppo vicino al minimo contrattuale di una categoria non si capirebbe perché adottarlo; se fosse troppo lontano dal minimo contrattuale di un’altra categoria, sarebbe un incentivo smaccato per derogare dai contratti collettivi e anche il più devoto a Padre Pio tra gli imprenditori sarebbe tentato di uscire dall’associazione di rappresentanza e disconoscere il contratto. In ambo i casi, però, quel lavoratore che è stufo di farsi sottopagare rispetto al salario minimo legale non può che fare causa al datore di lavoro e non ci sarà avvocato, anche il più scalcagnato, che gli suggerirà di limitarsi a quello e non a richiedere che gli sia riconosciuto il salario minimo contrattuale di categoria. Esattamente quello che avviene, anche se con sempre maggiori difficoltà, prima fra tutte le lungaggini della magistratura e i costi vertenziali.

Ma si dice: senza il salario minimo legale si perpetuerà la fuga delle aziende verso i “contratti pirata” che la contabilità del CNEL certifica che sono in stato di prosperità. E’ proprio il contrario. Con esso si santificheranno, dato che spesso questi non derogano soltanto sui minimi contrattuali ma su tante altre norme contrattuali e nello stesso tempo – problematica non secondaria – continuerebbero a legittimare le richieste dei sindacati di comodo di gestire la formazione professionale, i patronati e tanti altri servizi delegati dallo Stato.

Il prosciugamento delle situazioni di sotto pagamento del lavoro è, purtroppo, questione ben più complessa. Ma se si vuole fare un passo  significativo in questa direzione, senza illudere nessuno, si proceda: dando valore erga omnes ai contratti stipulati soltanto da quelle organizzazioni delle parti sociali che certificano la loro rappresentanza come da protocollo Confindustria, CGIL, CISL, UIL; autorizzando il CNEL e l’INPS ad esercitare un controllo preventivo e di merito sulle condizioni effettive di agibilità dei soggetti firmatari, nelle more della piena attuazione delle modalità di certificazione della rappresentanza; potenziando l’Ispettorato Nazionale del Lavoro mantenuto sempre sottorganico e così le imprese libertine procedono sicure di non essere controllate nell’utilizzo di contratti capestro; assicurando ai lavoratori sia il gratuito patrocinio in caso di conflitto giudiziario per il riconoscimento dei minimi contrattuali, sia una corsia preferenziale per accelerare i processi.

L’autonomia contrattuale delle parti sociali va responsabilizzata, non scalzata dalla legge (vedere articolo di Treu). Essa deve essere esercitata in modo corretto e non truffaldino e per realizzare questo obiettivo si devono rimuovere le incongruenze che si sono evidenziate in questi anni. Nello stesso tempo, vanno sollecitate le parti sociali più rappresentative di certificarsi sul serio, senza perdite ulteriori di tempo, puntando a dare senso egemonico alla loro funzione di governo delle dinamiche salariali e delle condizioni di lavoro sia dei più garantiti che di quelli più esposti a lavorare male e remunerati peggio.

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NEWSLETTER NUOVI LAVORI – DIRETTORE RESPONSABILE: PierLuigi Mele – COMITATO DI REDAZIONE: Maurizio BENETTI, Cecilia BRIGHI, Giuseppantonio CELA, Mario CONCLAVE, Luigi DELLE CAVE, Andrea GANDINI, Erika HANKO, Marino LIZZA, Vittorio MARTONE, Pier Luigi MELE, Raffaele MORESE, Gabriele OLINI, Antonio TURSILLI – Lucia VALENTE – Manlio VENDITTELLI – EDITORE: Associazione Nuovi Lavori – PERIODICO QUINDICINALE, registrazione del Tribunale di Roma n.228 del 16.06.2008

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