La discussione sul jobs act e, in particolare sull’art.18 dello Statuto dei lavoratori, è molto accesa per diversi motivi: l’impostazione nuova del governo Renzi intreccia infatti, oltre alla necessità che l’Italia ha di dare un messaggio alle istituzioni europee e soprattutto ai mercati stranieri potenzialmente investitori, una crisi economica e finanziaria mondiale che ha oggettivamente ridotto la sovranità in queste materie dei vari paesi, e la crisi del ruolo tradizionale dei sindacati. Per di più l’art.18 in questi 45 anni di vigenza dello Statuto è andato sempre più assumendo un valore simbolico di intoccabilità (per quanto sia stato già fortemente modificato due anni fa con la legge Fornero) che certo non aiuta il confronto e le possibili soluzioni.
La verità è che il mercato del lavoro rispetto a 45 anni fa è profondamente cambiato e fingere di non vederlo è un grave errore.
Io penso che sia giunto il tempo di una conversione culturale radicale: occorre imparare a guardare al problema del lavoro con gli occhi di chi il lavoro non l’ha e rischia di non averlo per lungo tempo se non cambiano le attuali condizioni.
Se chi si oppone alla “cistizzazione” dell’art. 18 pressochè ai soli diritti civili e politici (cioè alle discriminazioni) assumesse un atteggiamento più duttile, in cambio però di una strategia di creazione di nuove opportunità lavorative per le nuove generazioni, probabilmente riscontrerebbe quel consenso sociale che invece non ha più come in passato.
Se già oggi l’applicazione dell’art. 18 di fatto viene aggirata con la monetizzazione da parte di circa i due terzi di quanti sono beneficiari di una sentenza di reintegro (come risulterebbe da uno studio della CGIL) qualcosa significa. Lo stesso Massimo D’Alema nell’intervista al Corriere della Sera domenica 28 settembre osservava che: “Oggi il contenzioso tra datori di lavoro e dipendenti licenziati è risolto in sede extragiudiziale per larga parte dei casi”.
Anche per questo io penso sia necessario ridefinire in termini nuovi i diritti soggettivi all’interno del largo orizzonte del diritto costituzionale al lavoro. Purtroppo però non si riesce a parlarne perché su questa materia non si può sviluppare un vero dialogo, restando ognuno sulle proprie pregiudiziali, e volendo ciascun soggetto istituzionale difendere le proprie prerogative. Questa è anche una delle ragioni per cui le imprese in tutti questi anni, non avendo potuto conquistare flessibilità in uscita, hanno puntato tutto sulla flessibilità in entrata ottenendo forse ancor più di quanto chiedessero: si pensi solo al fatto che oggi si assume e retribuisce persino attraverso vaucher omnicomprensivi comprati dai datori di lavoro in tabaccheria: può continuare un simile scempio?
E, peraltro, se per tanti versi risulta comprensibile la resistenza dei sindacati sull’art. 18, temo che la loro forza politica sia stata compromessa negli anni scorsi, come ho detto prima, quando sull’altare di totem indiscutibili sono stati sacrificati, non per loro prevalente responsabilità ma in ogni caso sotto i loro occhi, i diritti fondamentali degli affamati di lavoro, di pane, di vita. E anche per questo i giovani senza lavoro sentono di non avere più avvocati-sociali e non si sentono rappresentati dai sindacati né da nessun altro, mettendo in questo modo, seppur non intenzionalmente, pressochè solo nelle mani di chi governa la responsabilità e l’opportunità di essere il loro interlocutore. Questo è un dato imprescindibile.
E’ vero che Renzi ogni giorno mostra di non credere e non volere seguire la strada tradizionale della mediazione, ma è anche vero che in questo caso si fa forte della debolezza rappresentativa del sindacato.
Il sindacato conserva indubitabilmente la prerogativa di rappresentare i lavoratori dipendenti iscritti in tutte le vertenze e le contrattazioni, ma se vuole recuperare forza politica deve poter rappresentare anche e soprattutto chi non è iscritto, non foss’altro perché un lavoro non ha.
Perciò si può ben dire che il sindacato oggi deve reinventarsi, altrimenti rischia una definitiva marginalizzazione.
E’ ben vero che per molti aspetti è anch’esso dentro quella crisi della rappresentanza che investe tutte le strutture associative e partecipative a partire dai partiti, ma la crisi dei sindacati è nondimeno figlia della difficoltà ulteriore di non riuscire essi a dar voce a chi voce non ha, funzione tipicamente politica.
Si aggiunga poi che, per ragioni e responsabilità storiche ben conosciute, in Italia, nonostante sia prevista la possibilità dall’art.46 della Costituzione, non si è mai attivata una concreta possibilità di partecipazione dei lavoratori alla “gestione delle aziende” e ciò ha indebolito, soprattutto in un contesto come l’attuale, la possibilità di una loro partecipazione alla gestione delle politiche industriali del paese. Anche di questa debolezza, in un certo senso, il governo oggi si fa forte. Ecco perché mi permetto insistere sulla necessità per i sindacati di reinventarsi.
Tutto ciò non mi porta peraltro alla conclusione che il jobs act e in particolare l’art. 18 siano risolutivi del problema del lavoro: con le leggi non si creano posti di lavoro, si possono al massimo creare le condizioni che li facilitano.
Occorrono infatti, insieme a una legislazione lavoristica moderna, almeno altre due strategie.
La prima che potremmo definire di natura Keynesiana: se le aspettative degli imprenditori sono a dir poco pessime, nessun sacrificio dei lavoratori potrà mai rendere convenienti nuovi investimenti e, dunque, nuove assunzioni. Per programmare gli investimenti gli imprenditori confrontano il costo del denaro con il rendimento atteso, quindi il sistema bancario ha un ruolo fondamentale: la BCE se ne è convinta con molto (colpevole) ritardo, ma il sistema bancario italiano continua colpevolmente a fare orecchie da mercante. Tutto ciò deve urgentemente cessare.
La seconda, di natura Schumpeteriana: lo sviluppo economico si caratterizza per continue innovazioni di processo e di prodotto, chi prima innova meglio alloggia e sopravvive: gli altri o si adeguano o spariscono. Se le innovazioni di processo tendono a risparmiare lavoro, quelle di prodotto sono generatrici di lavoro. La sostenibilità sociale dei processi di innovazione dipende dalla capacità del sistema socio-economico di far confluire opportunità di lavoro da settori con innovazioni di processo a settori con innovazioni di prodotto. Tale prospettiva è socialmente sostenibile se la somma algebrica dei lavoratori nei due tipi di settore è positiva: se cioè le assunzioni superano i licenziamenti.
Rendere i processi di innovazione socialmente sostenibili è la sfida delle istituzioni pubbliche, chiamate ad agire sui fattori di innovazione interni ed esterni. Per ciò servono politiche di sviluppo, politiche industriali e politiche dell’innovazione.
E serve che il sindacato e le forze politiche alzino lo sguardo e avanzino proposte e sfide alle imprese e al governo su tutto ciò.
* Presidente Associazioni Popolari