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Imparando dalla pandemia: discontinuità e maggiore equità

Liste di attesa. Giovanni, un anziano signore di 80 anni si presenta allo sportello di una struttura del Ssn: “Buongiorno, questa è la richiesta del mio medico curante che mi ha prescritto una visita oculistica abbastanza urgente, vedo male e tutto offuscato” – “Il primo posto libero è tra 10 mesi” – “Mi scusi, io non ci vedo e alla mia età non posso aspettare tanto tempo, come posso fare?” – “In alternativa può prenotare una visita privata a pagamento, il primo posto libero è tra tre giorni” – “E per un intervento alla cataratta quanto tempo dovrei aspettare?” – “Meglio chiedere all’oculista ma per un intervento alla cataratta si va dai 12 ai 18 mesi”. 

Continuità assistenziale e dimissioni protette. “Buongiorno, voi siete i parenti della signora Maria?” – “Beh dottore, più che parenti noi siamo i vicini di casa da anni della signora Maria, 80 anni, vedova da oltre 20 anni e senza figli”. – “Questo è un problema perché noi oggi dobbiamo dimettere la signora Maria. Abbiamo bisogno del letto per fare posto a un altro malato grave che arriva dal pronto soccorso. E la dobbiamo dimettere, anche se non so come Lei potrà organizzarsi a casa, da sola, con i problemi motori che l’ictus cerebrale le ha causato”. 

Due dialoghi immaginari, con persone immaginarie, ma che nella realtà capita spesso di sentire da persone che hanno avuto esperienze simili nella sanità italiana di oggi.

Il fronte delle liste di attesa, in questo Paese, non risparmia nessuna regione, da Nord a Sud. Nelle varie inchieste emergono casi in cui si aspettano 10 mesi per una prima visita dermatologica, quasi un anno e mezzo per una gastroscopia programmabile, dai 12 ai 18 mesi per un intervento alla cataratta. E questi sono solo alcuni esempi di tempi di attesa segnalati dai cittadini, che lamentano anche disfunzioni nei servizi di accesso e prenotazione, spesso determinati dal mancato rispetto dei tempi di priorità, dalle difficoltà a contattare telefonicamente il Cup, dall’impossibilità a prenotare per le liste d’attesa bloccate. In molti casi la conseguenza è la rinuncia a curarsi, e sono sempre di più gli italiani che rinunciano alle cure a causa delle lunghe liste d’attesa. Secondo l’Istat, l’anno scorso oltre 4 milioni di italiani (il 7% della popolazione) ha rinunciato a cure di cui aveva bisogno. E questo riguarda tutte le fasce d’età, senza distinzioni tra Nord e Sud.

Cresce la spesa privata a carico dei cittadini che possono pagare, e quelli che non possono non si curano. Nel 2021 la spesa sanitaria privata ha superato la soglia dei 37 miliardi, raggiungendo livelli mai visti prima della pandemia. A questi si devono sommare anche i 4,5 miliardi della sanità integrativa, sempre a carico dei cittadini, fissando così un nuovo dato “storico”: il 25% della spesa per la salute è a carico dei cittadini, vale a dire un euro su quattro lo tirano fuori di tasca gli italiani. Mentre la spesa pubblica, dopo essere balzata per i costi legati al Covid al 7,4% del Pil nel 2020 e al 7,2% nel 2021, sta scendendo rapidamente e passerà dal 6,6% al 6,4% del Pil per gli anni 2024-2025.

Intorno ad un intervento chirurgico c’è sempre una persona con la sua dignità. Le dimissioni, che dovrebbero essere un momento lieto, il ritorno finalmente a casa dopo un ricovero in ospedale, diventano talvolta fonte di angoscia per l’assistito e/o per i familiari, quando ci sono. A volte, al momento della comunicazione della “bella notizia”, il rientro a casa può rattristare e preoccupare quasi più del ricovero. Soprattutto se non si è completamente guariti, e magari sono presenti patologie debilitanti che assumono contorni di cronicità. A una persona anziana, tornare a casa può fare paura, soprattutto quando si vive soli. Il pensiero di solitudine, di fragilità, di non autosufficienza, di non avere più quella sicurezza rappresentata dal personale di reparto, di ospitalità, di risposta immediata ad ogni necessità spaventa, eccome!

E quando la decantata “appropriatezza” impone al medico ospedaliero di liberare un letto per acuti, il sistema sanitario, molto spesso, non prende in considerazione né l’età del ricoverato, né il contesto sociale e familiare in cui vive, che magari rendono difficile, se non impossibile, l’immediato rientro al domicilio. Pertanto, la necessità di continuità assistenziale, o di assistenza domiciliare, o di riabilitazione o di altre cure che il caso clinico e sociale richiederebbe, è molto spesso disattesa e il “prendersi cura della persona”, che il sistema deve costituzionalmente garantire a tutti i cittadini, è scaricato all’assistito e/o alla famiglia, quando è presente. Ecco che improvvisamente, da un giorno all’altro, ci si trova direttamente o indirettamente coinvolti a fare insieme da badante, volontario, caregiver (chi presta le cure e si prende cura) senza alcuna precisa indicazione. Un vero e proprio “tsunami” per chi se ne fa carico senza la necessaria preparazione. Il prendersi cura di un coniuge, partner, figlio, genitore o altra persona cara non autosufficiente può diventare logorante, pieno di alti e bassi e di imprevisti che possono capitare quando si segue un malato di questo tipo. È un percorso reso ancora più complicato perché inevitabilmente accompagnato da stress fisico, sociale e gravoso anche dal punto di vista economico, e, senza precise indicazioni e adeguati sostegni psicologici, si rischia di “bruciarsi in fretta” anche se pervasi dai migliori propositi e intenzioni.

Un altro evidente “problema”, che non aiuta la buona integrazione tra assistenza sanitaria e sociale all’interno del nostro sistema sanitario e sociosanitario di welfare, è spesso anche il Medico di medicina generale (Mmg). Questo “professionista”, chiamato anche medico di famiglia, ha, purtroppo, perso nel tempo il suo ruolo fondamentale di “punto di riferimento” dell’assistito, sia dal punto di vista professionale e che sociale. Sempre più declassato è ormai percepito come semplice “burocrate e compilatore di ricette”. Nel sistema sanitario è stata fatta passare la logica di rivolgersi direttamente al medico specialista, che, di fatto, ha esautorato il Mmg da quel ruolo di “referente” per i bisogni sanitari dell’assistito. Dal mio osservatorio privilegiato assisto al “mercato” dei clienti che continuano a girare medici specialisti, da Sud a Nord del Paese. Ognuno di questi medici specialisti vede e analizza il problema dell’assistito con una logica ovviamente ristretta al settore di competenza. Quindi, si è persa nel tempo quella funzione del Mmg di aiutare l’assistito a distinguere, a comprendere la sua situazione clinica per poter avere una visione generale del suo stato di salute.

Al riguardo, in Italia mancano 2.900 medici di base e nei prossimi due anni ne perderemo altri 3.400. Questo significa che due medici su cinque superano ampiamente il numero ottimale di pazienti che dovrebbero seguire, ossia 1.000. Le ultime proiezioni ipotizzano che nei prossimi dieci anni andranno in pensione 20.000 medici di medicina generale. È probabile una riduzione anche per i Pediatri di Libera Scelta (Pls); già oggi ne mancano almeno 840, e ognuno di quelli in servizio deve seguire almeno 100 bambini in più oltre la soglia massimale fissata per legge di 800 piccoli.

I cambiamenti sociali, economici e soprattutto demografici, stanno modificando gli scenari assistenziali nel nostro Paese. Ci troviamo davanti ad una società sempre più anziana e la risposta ai suoi bisogni non può essere solo l’ospedale. Occorre potenziare il territorio con un nuovo modello di medicina territoriale, per cui servono nuove forme di accreditamento anche per strutture convenzionate, in grado di garantire un’ assistenza di qualità ai pazienti più fragili e alle loro famiglie. Ma servono anche modelli meno burocratici e più orientati alla soluzione dei problemi più urgenti. La curva demografica disegna una piramide rovesciata, con oltre 15 milioni di anziani over 65, di cui la metà sono over 75. La maggioranza di loro vive sola o in compagnia di un altro anziano, entrambi affetti da qualche patologia cronica a carattere progressivo, che non si risolve con la semplice assunzione di farmaci, per quanto mirati. Hanno bisogno di un’assistenza sociosanitaria, e l’accento va posto proprio sull’aspetto sociale.

Negli ultimi 20 anni in Italia si sono chiusi ospedali senza affiancare interventi territoriali e residenziali, si sono tagliati migliaia di posti letto, si sono ridotti il numero di medici e infermieri, facendo finta di non vedere l’aumento della domanda di cure, conseguenza inevitabile dell’invecchiamento della popolazione.

L’assistenza sul territorio e le cure domiciliari per prendere in carico le persone con cronicità, fanno parte di un sistema ancora tutto da comporre, che presenta grandi disomogeneità nel Paese. E in questo contesto, il pronto soccorso dell’ospedale (preso d’assalto) è, ancora, oggi, il principale punto di riferimento in materia di assistenza sanitaria. 

E nonostante le scelte “inopportune” della nostra politica, la sanità italiana, grazie alla professionalità e al senso di responsabilità dei suoi operatori in prima linea, è ancora oggi una delle migliori sanità del mondo. Sia per l’ottima posizione di cui ancora gode il nostro Paese in termini di mortalità, tra le più basse in Europa; sia per la speranza di vita alla nascita; sia per un livello di spesa sanitaria, pro capite, nettamente inferiore rispetto ai maggiori Paesi, non solo europei, con dati comparabili ai nostri.

In questo contesto di “malcontento” che si è diffuso dentro le strutture sanitarie e nel Paese, da dove ricominciare? 

È vero che per la sanità c’è bisogno di più risorse economiche, ma quelle da sole non risolvono tutti i problemi. Non è solo un problema di soldi ma anche di come si spendono.  Bisogna imparare a spendere meglio prima ancora che spendere di più. In primis occorre valorizzare i nostri medici, i nostri infermieri, evitando che emigrino all’estero in cerca di riconoscimento di ruolo, prima ancora che di aumenti di stipendio. 

Più soldi sicuramente da destinare alle politiche socio sanitarie ma al tempo stesso servono più visioni e strategie a lungo termine.  Discontinuità con il passato, quindi fare l’opposto rispetto alla strada intrapresa negli ultimi 20 anni dai diversi governi, che hanno favorito l’indebolimento del Ssn pubblico con logiche e meccanismi che hanno introdotto un disegno di lenta privatizzazione del sistema sanitario italiano. Serve una programmazione, una visione strategica che superi il limite dell’emergenza “qui e subito” e che sappia, con coraggio, prevedere un sistema sanitario e sociale a medio e lungo termine.

La sanità deve passare da “spesa” a “investimento” per il futuro del Paese. Quindi si richiede discontinuità, e bisogna avere il coraggio di sostituire la parola “spesa sanitaria e sociale” con “investimento sanitario e sociale”, per incoraggiare un approccio più sereno dal punto di vista finanziario, dove è ovvio che le risorse non sono illimitate ma senza “strapparsi le vesti”, ogniqualvolta in termini di bilancio, si teme per la sostenibilità del sistema Paese. E questa discontinuità chiama in causa la responsabilità di tutti i soggetti coinvolti: in primis Regioni, Stato, Enti locali e tutti gli addetti ai lavori.

Per alcuni aspetti la pandemia ha dato importanti indicazioni ai cittadini, agli addetti ai lavori, alla politica, alle Istituzioni. Innanzitutto, la drammatica esperienza ci ha fatto prendere, o meglio riprendere, coscienza di una evidenza indiscutibile: la salute del singolo, quella di ognuno di noi, non può essere più pensata come una faccenda puramente privata, o al massimo familiare. Oggi l’epidemia ci ha reso consapevoli che la salute ha tutte le caratteristiche per essere considerata un bene comune globale. Lo ha detto anche Papa Francesco qualche tempo fa: “nessuno si salva da solo”. 

Occorre costringere la politica a scendere allo scoperto. A dire con chiarezza quale modello di Ssn pubblico e universalistico propone per il prossimo futuro, quali competenze deve avere il pubblico e quale ruolo deve avere il privato, quale sarà il preciso ruolo dello Stato, delle Regioni e dei Comuni. 

Occorre costringere la politica a dichiarare guerra all’evasione fiscale, al malaffare, alla corruzione con provvedimenti concreti, perché solo con il contributo della fiscalità generale si possono trovare risorse adeguate per finanziare un sistema sanitario e di welfare realmente pubblico, equo e universalistico. Il modello di un servizio sanitario pubblico così concepito, è una conquista sociale e di civiltà irrinunciabile per tutti i cittadini che, come sancito dalla nostra Costituzione, hanno pari dignità e sono eguali davanti al Ssn, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

Bisogna convincere i cittadini che la tutela della salute è uno dei cardini della sicurezza globale di ogni Paese e del mondo. Quest’idea dovrebbe diventare “voce” di ogni cittadino e il servizio sanitario deve tornare al centro del dibattito pubblico. Se questo non accadrà, per quanto il nuovo Ministro si sforzi, la sanità rimarrà ai margini del confronto politico. Tutti a parole sono a favore della sanità pubblica ma pochi sono disponibili poi a rischiare in proprio per il bene comune.

I principi fondanti del nostro Ssn, universalità, uguaglianza, equità delle cure vengono ogni giorno disattesi senza che si prenda consapevolezza dei danni che si stanno creando, con le differenze tra chi può pagare le cure e chi no, tra chi risiede a Bolzano e chi a Reggio Calabria.

Da tempo la Fnp Cisl pensionati, insieme alla Cisl, ha proposto in modo chiaro un “tavolo di confronto” tra Governo, sindacati, istituzioni e rappresentanze sociali per promuovere la salvaguardia del Ssn pubblico, anche se non tutti i soggetti hanno la stessa visione di salute pubblica. In questa azione comune di salvaguardia del Ssn è necessario coinvolgere anche i cittadini, forse ancora poco consapevoli di quanto stanno perdendo ma, allo stesso tempo, arrabbiati con gli operatori sanitari, convinti che siano i medici e gli infermieri a negare loro le cure nei tempi e nei modi necessari.

Il Ssn è un pilastro della nostra società che sta scricchiolando, per questo va difeso e preservato. Qui o ci salviamo tutti o non si salva nessuno perché tutti, prima o poi, avremo bisogno di usufruire del nostro Ssn pubblico che finora ha davvero garantito a tutti, ricchi e poveri, un uguale ed equo accesso alle cure.

Non lasciamoci portare via questo bene prezioso che è patrimonio di tutti e da tutti deve essere salvato. Nel frattempo, in attesa di risposte concrete e coerenti da questo Governo, lancio uno slogan: “Salviamo il nostro Ssn pubblico e universalistico per le future generazioni”, consapevole che in mezzo a tante difficoltà nascono anche importanti opportunità. 

*Segretario generale Fnp Cisl pensionati

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