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In tempi di globalizzazione, il lavoro richiede politiche ad hoc

Se il lavoro non è una merce qualsiasi, perché investe la dignità del cittadino,  la piena occupazione diventa dovere dello Stato democratico, tanto più di uno Stato che all’art.1 della sua Costituzione recita “L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”. 

Poiché da sempre il progresso tecnico produce aumenti continui della produttività, storicamente la piena occupazione, raggiunta da quasi tutti i paesi industriali  alla fine degli anni ’70-’80, si è ottenuta in due modi: la crescita della produzione ed una continua riduzione della durata del lavoro. Nel secolo scorso, grazie  all’azione sindacale, si ottennero le 40 ore, i diritti di ferie, malattia e maternità, talchè la durata annua del lavoro in Europa si è quasi dimezzata da 3000 a 1600 ore. Da decenni il processo storico di riduzione dalla durata del lavoro si è arrestato in molti paesi, tra cui l’Italia ed il risultato è che oggi il paese vive un vero e proprio dramma occupazionale, a differenza di molti paesi del Nord Europa, Germania in testa, che hanno adottato politiche del lavoro ad hoc, indipendenti dalla crescita.

E l’Italia? È andata in direzioni  opposte e neanche il Jobs Act approvato di recente al Senato sembra avere quelle caratteristiche di novità che sarebbero necessarie per far uscire il  paese dal dramma occupazionale in cui si trova. È sperabile che i decreti che usciranno dalla delega riescano a correggere una  linea che, oggi come oggi, non contribuirà a creare un solo posto di lavoro in più, tanto meno i 3 milioni che ci servirebbero per non morire…di vecchiaia. 

Il dramma è che in Italia lavorano 3 milioni in meno rispetto all’Europa e 6 rispetto alla Germania.      

La  misura reale del dramma occupazionale italiano non è il tasso di disoccupazione, oggi al 12,6%,  simile a quello dell’eurozona all’11,7%, ma il tasso di occupazione (occupati su popolazione in età da lavoro), che è di 8 punti inferiore a quello dell’eurozona, 59,8% rispetto al 67,7% e di quasi 20 punti inferiore a quello dei paesi del Nord Europa, Germania in  testa che ha un tasso di occupazione del 77% (dati Eurostat).  Otto punti di differenza tra Italia ed Europa, su una popolazione in età da lavoro di quasi 4 milioni, significa che all’Italia mancano più di 3 milioni di occupati per essere in media europea, quasi 7 milioni per essere come i tedeschi. 

 I posti  di lavoro che mancano all’Italia sono tutti nei servizi, dove siamo debolissimi. Mentre gli altri paesi industriali hanno compensato la deindustrializzazione seguita alla globalizzazione con forte crescita dei servizi, in Italia la crescita è stata meno impetuosa, tanto che oggi il peso dei servizi italiani su Pil ed occupazione è di 7 punti inferiore al quello dei maggiori paesi industriali, 68% contro il 75%. Altro grave fattore di indebolimento dei livelli occupazionali italiani sono nel prevalere di fattori di quantità sulla qualità.  L’Italia, malgrado la crisi, è oggi, con la Grecia, il paese dove la durata media del lavoro è la  più lunga, 1800 ore contro le 1500 dei paesi del Nord Europa, perché fa pagare lo straordinario meno del lavoro ordinario e  non incentiva le riduzioni di orario, come in Olanda, Germania, Danimarca, Svezia, Francia, etc… 

Occupazione senza crescita, possibile con politiche ad hoc

Oggi – hanno  scritto Ocse, Bit, Fmi – il rischio maggiore è il jobless growth, crescita senza occupazione Alcuni paesi sono andati in senso contrario, aumentando l’occupazione anche senza crescita. Aumentare l’occupazione, anche in tempi difficili, di limiti alla crescita, è possibile se si fanno politiche ad hoc. Oggi, a  differenza del limiti del 1972, quando  il rapporto  del Club di Roma “The limit of growth”, ne parlava, i nuovi limiti non vengono tanto e solo dallo spreco delle risorse non rinnovabili che non sono infinite, ma vengono dal pil mondiale che continua crescere del 3% ma con alta crescita del Pil dei paesi emergenti e bassi dei paesi industriali. In questi ultimi, la crescita della produzione è in inferiore a quella della produttività e l’occupazione non cresce senza redistribuzione del lavoro. 

Nel 2009 in Germania il Pil si è ridotto del 5,5%, così anche il monte ore da 60 a 57 miliardi ma l’occupazione non si è ridotta.

La globalizzazione è il nuovo limite della crescita. Nel periodo 2000-2013 il pil degli   USA, paese più giovane dell’Europa, è cresciuto dell’1,7% l’anno, quello dell’EU27 dell’1,3% e quello di Italia e Giappone, paesi  più vecchi  del mondo dello 0,9%. L’andamento degli Ide-in, investimenti diretti esteri, è stato analogo, con spostamento massiccio degli Ide  dai paesi industriali a quelli emergenti.  

Negli ultimi sei anni, il record negativo degli Ide-in sono stati  lo 0% del Pil in Giappone, lo 0,4% del Pil  in Italia. Come fanno i paesi industriali a mantenere buoni livelli di occupazione con tassi di crescita così bassi e con la deindustrializzazione accelerata dalla globalizzazione? In due modi, con una terziarizzazione spinta, la produzione di prodotti intelligenti e l’export di servizi è diventato il futuro dei paesi industriali e con politiche di redistribuzione del lavoro. In pratica, aumentando la qualità e riducendo le ore lavorate pro capite. L’Italia marcia in opposte direzioni.

La Germania è il caso più emblematico di buone pratiche occupazionali. Nel 2009 con il Pil a -5,5% l’occupazione non si è mossa, grazie ad un grosso processo di redistribuzione del  lavoro. Nel decennio 2000-2013 ha addirittura aumentato l’occupazione, il tasso di occupazione è passato dal 68,4% al 77,1% (dati Eurostat), malgrado una crescita annua del Pil di poco superiore all’1%. E malgrado un  monte ore annuo ridotto da 60 a 57 miliardi, l’occupazione è aumentata essendosi  ridotte le ore lavorate pro capite (kurzarbeit  e 35 ore).

L’Italia, che ha avuto nello stesso periodo un andamento del Pil simile a quello tedesco, 1% l’anno, ha invece ridotto l’occupazione ed aumentata la disoccupazione perché ha seguito politiche anti-occupazione, facendo pagare gli straordinari meno dell’ora ordinaria, non finanziando a sufficienza i contratti di solidarietà –con cui lo Stato rimborsa ai lavoratori la metà del salario perso con gli orari ridotti – aumentando l’età pensionabile a 67 anni senza alcuna possibilità di “progressiv pension” come in Germania ed altri paesi. 

Jobs Act ed abolizione dell’art.18 aumenteranno la precarietà, male del secolo e non produrranno un solo posto di lavoro in più.

Del Jobs Act sinora abbiamo visto la legge Poletti, che ha liberalizzato ulteriormente i contratti a tempo determinato e la bozza di legge governativa approvata dalla commissione lavoro del Senato, che introduce il (titolo del) lavoro a tutele crescenti, che entra in concorrenza diretta col lavoro a tempo determinato (se si può assumere col contratto a termine senza alcuna giustificazione perché mai l’imprenditore dovrebbe utilizzare il nuovo contratto?). Del Jobs Act, purtroppo, si è intuito anche altro, cioè che al termine del famoso periodo di 3 anni del CTC l’eventuale assunzione a tempo indeterminato avverrebbe con esclusione dei diritti dell’art.18. 

Mentre penso sia giusto eliminare le incertezze che preoccupano alcuni imprenditori, tempi e costi degli esiti giudiziari, eliminare completamente l’art. 18 per i giovani avrebbe due risvolti negativi, la probabile anticostituzionalità e l’ulteriore ghettizzazione dei giovani già penalizzati dalle 40 forme di lavoro precario che, sembra di capire, saranno abolite solo in piccola parte. 

La più grossa sciocchezza dei fautori della cancellazione dell’art.18 è quella che impedirebbero gli investimenti esteri. Da anni le multinazionali non investono più in paesi vecchi. Infatti Giappone, Italia e Germania i paesi più vecchi del mondo (45 anni di età media contro i 25 dei paesi emergenti) hanno il record mondiale negativo degli IDE, investimenti diretti esteri, che invece vanno sempre più verso l’Africa ed altri paesi giovani, malgrado guerre ed incertezze varie.

Insomma, si torna al vecchio vizio italico di inseguire la flexi senza la security, come si è fatto dal pacchetto Treu del ’97 ad oggi. Dal Jobs Act sappiamo che vuole abolire l’art.18 ma non ancora a quanti altri lavoratori, più o meno precari, saranno  estesi gli ammortizzatori, Aspi ac similia.

Se il Jobs Act seguirà le strade che ha lasciato trapelare, purtroppo avremo un aumento della precarietà, nessun investimento estero in più dello zero attuale e non un solo posto lavoro in più rispetto a i 3 milioni che invece servirebbero all’Italia perché non muoia… di vecchiaia.

 

 (*) Presidente della società di business intelligence Onesis di Roma

 

 

 

 

 

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