Dal punto di vista strettamente macro-economico l’accordo di coalizione tedesco di febbraio contiene elementi ”prima facie” importanti e positivi, per la Germania e per l’Europa, che vanno oltre la conferma della stabilità democratica nel principale paese del continente.
Dal 1998 al 2017 l’economia tedesca è semplicemente cresciuta troppo poco, sia in assoluto (con il Pil a +1,4% in media annua), sia rispetto al suo vero potenziale di medio termine (+2,5% e oltre). Il governo tedesco non è nemmeno riuscito a evitare che il Pil crollasse quasi del 6% nel 2009…
La crescita aveva incontrato il suo limite non tanto nella produttività, o dal lato dell’offerta, ma nel ristagno della domanda interna (soltanto +1% l’anno nel ventennio). In particolare, gli investimenti hanno oscillato sul 19% del Pil, mentre il risparmio nazionale balzava dal 22 al 28% del Pil. La carenza dell’accumulazione di capitale rispetto al risparmio si è tradotta in un surplus crescente della bilancia dei pagamenti correnti, sino all’8% del Pil toccato negli ultimi tre anni: un livello smodato, neo- mercantilista, che ha comprensibilmente suscitato critiche – blande! – in Europa e – dure! – da parte dell’amministrazione Trump.
Specularmente, di fronte a tali abnormi avanzi di parte corrente, la posizione creditoria netta della Germania verso il resto del mondo è giunta a lambire i 2mila miliardi di dollari. È sorto il sospetto che essa costituisca un obiettivo della diplomazia tedesca, strumentale all’esercizio di una egemonia politica della Germania sui paesi debitori, segnatamente in Europa. La stessa, nazionalistica, Brexit inglese potrebbe avervi trovato una giustificazione.
Ma, al netto di un siffatto sospetto, il rigore di bilancio imperniato sul taglio degli investimenti pubblici (scesi negli anni dal 3 al 2% del Pil) ha di fatto comportato costi pesanti per il popolo tedesco: centinaia di miliardi di euro di mancato reddito, cumulati nel ventennio; cessione all’estero di risorse reali – come detto prossime ai 2mila miliardi di dollari! – non utilizzate all’interno; minusvalenze per decine di miliardi di euro sugli investimenti finanziari internazionali; occupazione insoddisfacente, precaria e mal pagata dei giovani; sperequazioni distributive fra i lavoratori; permanenza del dualismo Est-Ovest; aumento dei cittadini al disotto della soglia di povertà; rigurgiti reazionari, se non neo-nazisti. La stessa crisi elettorale di settembre 2017 è dovuta, oltre che alla spinosa questione degli immigrati, al sottoutilizzo e al cattivo impiego delle risorse potenziali e alle loro ripercussioni sociali.
L’accordo appena raggiunto – che attende l’avallo della base dei tre partiti firmatari – sembra indicare che la “lezione” di settembre sia stata, sul piano economico, compresa. L’accordo prevede spese sociali (sanità e altre) e soprattutto investimenti pubblici. Questi possono esprimere un alto moltiplicatore della domanda globale, come pure della produttività delle imprese (si riaprirà il famigerato ponte di Leverkusen?). È decisiva l’intenzione di allentare le competenze degli enti locali, che hanno frenato le opere pubbliche in passato.
Anche senza rileggere Keynes – il quale aborriva i disavanzi pubblici, il debito pubblico, lo “scavare le buche”, gli sprechi della spesa corrente – gli esperti economici tedeschi constateranno che i buoni investimenti statali non collidono affatto con il doveroso rigore fiscale. Al di là dei margini insiti in un bilancio pubblico dal 2014 in avanzo, quegli investimenti nel volgere di due o tre anni si autofinanzierebbero: un punto di Pil di investimenti può generare oltre 1,5 punti di maggior Pil, che a propria volta ceteris paribus migliorano il saldo di bilancio (gettito aggiuntivo, minore spesa corrente) quasi di un punto rispetto al Pil, l’ordine di grandezza degli investimenti effettuati.
Sarà, questa, la conferma dell’errore che ha indotto l’Europa alla freddezza rispetto alla cosiddetta golden rule – la copertura al limite con debito degli investimenti pubblici produttivi – che nel Regno Unito era stata introdotta negli anni Novanta da Gordon Brown e applicata fino al 2009.
Il discreto aumento salariale previsto dall’accordo potrà anch’esso restituire tono alla languente domanda interna tedesca, per consumi e quindi per investimenti privati. Inoltre una dinamica più vivace dei salari costringerà le imprese a ricercare l’innovazione, il progresso tecnico, l’efficienza, in una parola la produttività. Nell’intera economia tedesca la produttività del lavoro, dopo essere addirittura diminuita nel 2008-2013, è aumentata meno dell’1% l’anno dal 2014 al 2017.
Una crescita del Pil tedesco superiore al 2,3% attualmente previsto dalla Commissione europea contribuirebbe a riassorbire l’avanzo commerciale verso l’estero. Fugherebbe i sospetti di neo-mercantilismo e di egemonia finanziaria nei confronti della Germania. Sosterrebbe in Europa la crescita del Pil, oggi in diverse economie (U.K., Italia, Francia, Belgio, Portogallo) prevista al disotto del 2% l’anno. Nella misura in cui il tasso di disoccupazione scendesse nei paesi mediterranei d’Europa, si ridurrebbe la pressione dei flussi migratori verso il mercato del lavoro tedesco.
Va ribadito che nelle economie europee più deboli non si deroghi all’impegno di risanare le pubbliche finanze e attuare le politiche anticicliche e le riforme necessarie a rimettere “la casa in ordine”, a ritrovare, dall’interno, un sentiero di crescita stabile. Questo impegno – a cui la Germania giustamente, da anni, richiama i partner – è in modo particolare urgente in Italia, alla luce dei limitati progressi realizzati dalla sua economia e del delicato passaggio elettorale di marzo.
(*) banchiere ed economista