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L’orario di lavoro cala dovunque, tranne in Italia

Sui problemi del lavoro ci sono paradossi che nessuno spiega: a) da  duecento anni  gli orari di lavoro si sono dimezzati, da 3000 a 1500 ore/anno e questo ha consentito l’aumento generalizzato dei tassi di occupazione; b) tassi di occupazione che si sarebbero  ridotti a parità di orario, per il semplice motivo che la produttività oraria cresce mediamente più della produzione; c) in tutta Europa è evidente la relazione inversa tra orari di lavoro e disoccupazione, questa essendo più bassa nei paesi con orari più corti. Come è possibile che i paesi a più alta disoccupazione, Spagna, Grecia, Italia, etc. sono anche i paesi con orari di lavoro più lunghi, quasi 1800 ore annue di lavoro in Italia e più di 2000 ore nei paesi più poveri come Grecia, Ungheria, contro le 1400 ore medie di Germania, Olanda, Francia (dati OCSE)?.

 Gli orari italiani più lunghi, più che da prassi contrattuali, derivano soprattutto dalla stranezza di far pagare gli straordinari meno dell’ora di lavoro ordinario. È l’unico paese europeo dove ciò accade, mentre all’estero costano dal 10% al 25% in più, proprio per favorire le assunzioni.  D’altra parte è dall’avvento della prima rivoluzione industriale del vapore, secolo diciottesimo, che la produttività cresce più della produzione e se l’occupazione è sempre aumentata ciò è avvenuto solo grazie ad una riduzione continua degli orari annui di lavoro.  

In Italia, dove tutti mettono i problemi dell’occupazione al primo posto, l’assenza di un dibattito serio sul tema degli orari è indice del basso livello culturale della classe dirigente, politica, sindacale ed imprenditoriale.

Sulla base del recente contratto tra le imprese meccaniche del Baden Wuttemberg e sindacato meccanici tedesco, sulle 28 ore di lavoro invece delle 35, tra poco i 4 milioni di metalmeccanici dell’intera Germania potranno lavorare meno di 30 ore a settimana perdendo una parte minima di salario, meno del 10%.

In tutta Europa il dibattito su orari di lavoro, lavoro part time, smart work con pezzi di lavoro a casa, orario flessibile, etc. è vivace anche se contrastato ma presente, a differenza che in Italia.

In Francia da quasi 10 anni sono in vigore le 35 ore varate dalla ministra socialista Aubry, criticate da tutti, Sarkosi, Hollande e compreso l’attuale presidente Macron, ma mai toccate perché ha dato vantaggi a tutti, turismo, lavoratori ed imprenditori compresi, che in compenso hanno la flessibilità annuale degli orari (lavorano di più nelle settimane di boom e di meno nelle altre settimane). In tutta Europa, centrale e del Nord, si sperimentano da anni orari di lavoro più corti per favorire l’occupazione ed infatti in tutti i paesi europei, centrali e del Nord, i tassi di occupazione sono di 10-20 punti superiori a quelli dei paesi dell’Europa meridionale.

Molti economisti, tra cui l’italiano Enrico Marchetti, autorevole professore all’Università di Berkley, California, sostengono la tesi che i livelli occupazionali non saranno toccati dal progresso tecnico perché “i lavori distrutti da Robot ed intelligenza artificiale saranno più che compensati da quelli creati nei servizi ed in tutti gli altri settori, come è sempre avvenuto in passato” (Repubblica, 12/2). Moretti pone a base della sua tesi il dato, reale, che da decenni il tasso di occupazione (quota di popolazione occupata sulla popolazione in età da lavoro) sia dovunque aumentato malgrado tutte le innovazioni tecnologiche, vapore, elettricità, informatica. Egli dimentica il …piccolo particolare che da decenni gli orari annui di lavoro si siano continuamente ridotti, più che dimezzati i da 3000 a 1500 ore, dai primi del ‘900 alla fine del ventesimo secolo.

Lo sviluppo ed il progresso tecnico sono necessari all’occupazione ma non sufficienti; è sempre stato così a partire dalla prima rivoluzione industriale. L’evidenza mostra che proprio grazie al progresso tecnico la produttività è sempre aumentata più della produzione ed è stato solo per le continue riduzioni di orario se i livelli occupazionali siano aumentati.

Il 5 maggio 1906 16.000 operai del settore meccanico invadono il centro di Torino per rivendicare le 10 ore giornaliere, pochi giorni dopo che alla Fiat s’era stipulato un accordo che all’art,2 recitava: “l’orario normale di lavoro è di 10 ore, le prime due ore di straordinario oltre le 10 vanno retribuite col salario maggiorato del 25% quelle oltre le due ore col salario maggiorato del 50%”. All’inizio del novecento l’orario annuo minimo di lavoro era sulle 3000 ore, sulla base di 50 settimane lavorate alla media di 60 ore settimanali.  Il primo importante accordo per le 48 ore viene stipulato il 20 febbraio 1919 tra la Federazione degli industriali metallurgici e la Fiom. L’accordo è fortemente contestato dalla maggioranza dell’imprenditoria italiana, alla cui testa ci sono agrari ed industriali tessili. Il presidente dei cotonieri Costanzo Cantoni scrive: “dobbiamo sottolineare gli effetti negativi sui costi di produzione delle riduzioni di orario, ed essere preoccupati delle ripercussioni anche in sede politica dell’accordo dei metalmeccanici” e scrive anche: “le autorità governative e comunali si intromettono apertamente e danno spesso appoggio alle più esagerate pretese”.

Guardando al panorama imprenditoriale attuale bisogna concludere che in 100 anni gli industriali non hanno fatto molta strada. Ed oggi l’Italia resta il paese che, malgrado il dramma occupazionale, soprattutto giovanile, resta:

-il paese europeo che ha l’orario annuo di lavoro quasi del 30% superiore a quello tedesco, 1725 ore annue contro 1371 (dati OCSE 2015);

-il paese europeo con 4 milioni di occupati in meno rispetto alla Germania, tasso occupazione italiano del 57% e tedesco del 74%;

-l’unico paese europeo in cui l’ora di straordinario costa meno dell’ora ordinaria.

È curioso che la comprensione di questo semplice meccanismo, “ la produttività oraria cresce più della produzione sin dall’avvento  della rivoluzione industriale, e quindi l’occupazione non può che ridursi a parità di orario”, sfugga da sempre agli industriali italiani con una sola eccezione rilevante anche se vecchia di quasi un secolo, quella del senatore Giovanni Agnelli  senior che nel pieno della grande crisi degli anni trenta  propone  quello scambio tra produttività ed orario realizzato in molti paesi europei  tranne che in Italia.

Così si esprimeva il senatore Agnelli in uno scambio di  lettere con Luigi Einaudi: “Il danno (per l’occupazione) deriva dallo sfasamento esistente tra due velocità, quella del progresso tecnico e quella dell’organizzazione  del lavoro, per  cui l’operaio  continua a lavorare le stesse ore di prima….rendiamo eguali le due velocità poiché essi producano la stessa massa di beni di prima con meno ore, il salario resterà immutato, la domanda di beni e servizi resta immutata, non c’è disoccupazione, non c’è crisi”.

A novant’anni da quella testimonianza, importante anche se priva di effetti pratici, gli epigoni del sen. Agnelli, ma anche i sindacalisti ed i politici, non hanno fatto molti sforzi di analisi e proposte per ovviare al problema che “lo sviluppo è necessario ma non basta a creare l’occupazione che serve, occorre intervenire, con misura ed accortezza, anche sugli orari di lavoro”.

 

 (*) Presidente della società di business intelligence Onesis di Roma

 

 

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