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L’eredità politica di Romano Prodi vista da Marco Damilano

Nel ventennale  dell’Ulivo Marco Damilano, cronista parlamentare dell’Espresso, ha pubblicato, per Laterza, una lungo libro-intervista al suo “padre fondatore”: Romano Prodi. Il titolo del volume è assai significativo: “Romano Prodi, Missione incompiuta. Intervista  su politica e democrazia” (pagg. 180, € 12,00). In questa intervista ripercorriamo i punti fondamentali dell’eredità politica del Professore. 

Damilano, in questo suo libro-intervista a Romano Prodi, che lei stesso definisce come una “lettera ad un  partito mai nato”, ci offre l’occasione, tra l’altro, di comprendere meglio la figura del Professore. Ne esce un quadro di un riformista “solido”.Cita, al riguardo, Edmondo Berselli: «Romano ama i macchinari, gli strumenti tecnici, l’automazione, le gru, i carrelli elevatori, la verniciatura, il montaggio, l’assemblaggio, lo stoccaggio, l’imballaggio. Nelle sue parole, e anche nei suoi gesti, la piastrella di Sassuolo diventava un oggetto raggiunto da un soffio di vita che animava l’argilla. Ai politici, abituati ai giochi di corridoio per strappare un assessorato, offriva la sensazione irresistibile del ritmo e del rumore della modernità». Cosa intendeva dire Berselli con queste parole?

«Ho utilizzato questo bellissimo ritratto di Berselli per descrivere Prodi, riformista atipico, “empirico brutale”, come si definisce lui stesso. Con un qualche vezzo Prodi dice di essere incapace di fare un discorso teorico, filosofico, ideologico. “È stato per me un fattore di forza, ma anche di debolezza. La sistemazione teorica generale in questo Paese fa premio”. In realtà Prodi è stato un economista che già nel 1968 parlava del capitalismo renano, il modello tedesco di economia sociale, mentre gli studiosi vagheggiavano un nuovo modello di sviluppo di impostazione marxista, salvo poi rifugiarsi nei decenni successivi nella difesa del pensiero unico mercatista. Prodi è stato il presidente del Consiglio dell’ingresso nell’euro e il presidente della Commissione europea dell’allargamento dell’Europa ai paesi dell’Est, oggi se ne può discutere ma all’epoca furono due grandi progetti strategici, portati avanti con grande pragmatismo».  

 

Veniamo, più in profondità, alle “radici” cattoliche di Romano Prodi. Lui stesso si è autodefinito un “cattolico adulto”, affermazione che gli ha creato non pochi problemi, in particolare con il Cardinale Ruini. Eppure la definizione di “cattolico adulto” è molto conciliare. Dove stava la ragione strategica del conflitto con Ruini?

 «Nella ricostruzione che ne fa Prodi la rottura – lui nega che ci sia stata ma storicamente è difficile definirla diversamente – ci fu al momento della sua decisione di candidarsi alla guida della coalizione di centrosinistra, nel 1995, il nascente Ulivo. Il cardinale-presidente della Cei in quel momento e successivamente riteneva che i cattolici dovessero piuttosto impegnarsi in un polo moderato, per strappare in prospettiva a Berlusconi l’egemonia del centrodestra. Eppure il ritratto che Prodi fa di Ruini è davvero non banale. Una figura appassionata di politica e con un tratto pessimista, convinto in fondo che senza potere politico, senza un legame forte con la politica, il cattolicesimo italiano sia destinato a indebolirsi, a diventare irrilevante, come è successo in Francia dopo la fine del partito democristiano. C’è un filo nell’intervista, l’incontro di Prodi con grandi personaggi che hanno in comune una visione pessimista della realtà. Un altro è il presidente di Mediobanca Enrico Cuccia: non crede nelle novità, esprime giudizi taglienti sugli homines novi, al fondo crede che senza il suo salotto buono il sistema sia destinato a crollare».

Certo è che tutto l’itinerario dell’esperienza di Prodi, dall’Università – passando per il grande impegno di Presidente dell’IRI – all’impegno di Premier italiano fino alla Presidenza della Commissione europea,  é stato  quello, che lui stesso ha definito,  come la “politica del cacciavite”. Però questa politica era, ed è, animata da una profonda visione strategica e ideale. Qual’è questa visione ideale?

 «Sul piano economico-sociale sicuramente l’impostazione keynesiana. La complessità del reale. Un ruolo del pubblico e dello Stato come leva dello sviluppo. Sul piano politico, l’intuizione di venti anni fa, l’Ulivo. Il più ambizioso tentativo di dare forza e soggettività politica al riformismo italiano. Un popolo e una cultura di governo. Il pragmatismo delle soluzioni e una visione complessiva delle riforme più urgenti. Il superamento degli steccati tra laici e cattolici, la difesa del bipolarismo che significa competizione tra proposte alternative di governo, qualcosa di più di uno schema politologico. Un valore in sé per un paese come l’Italia, condannato quasi sempre nella sua storia a dividersi tra un corpaccione moderato di governo e minoranze di testimonianza, più o meno nobili, ma incapaci di proporsi come alternative di governo, appagate dalla loro purezza di oppositori».

Nel libro viene fuori la figura di un grande europeista. E’ ancora attuale la visione sull’Europa di Romano Prodi?

 «Nel libro c’è la scena della notte di capodanno del 2002, quando Prodi da presidente della Commissione europea comprò allo scoccare della mezzanotte a Vienna un mazzo di fiori per sua moglie Flavia con le prime banconote di euro. “Il mio ricordo più bello”, dice il Professore. Quella moneta sembrava il futuro, invece nel decennio successivo è diventata il simbolo della divisione. L’Europa di fine anni Novanta, la moneta unica e l’allargamento all’est, era un progetto politico, dalla guerra in Iraq in poi è stato sostituito dal ritorno degli egoismi nazionali: sotto forma di populismi, pronti ad approfittare della grande recessione per incolpare l’euro, o dei governi che difendono il loro territorio come quello di Angela Merkel. Ma quel progetto resta attuale, perché o si torna indietro o si va avanti. E se si va avanti con la costruzione dell’Europa politica non si può non ritornare alle intuizioni di quella stagione e dei suoi protagonisti: Kohl, Ciampi, Prodi…».

Il capolavoro politico di Prodi, come si sa, è stato l’Ulivo. Ovvero quell’incontro tra riformismi di diverse componenti (i riformismi storici dell’Italia) che ha consentito al centrosinistra di vincere su Berlusconi. Molte sono state le ragioni della sua fine. Ma se dovesse trovare una causa che inglobi le altre, quale potrebbe essere?

 «L’Ulivo, ammette Prodi, “non ha fallito, è stato sconfitto”. Per resistenze esterne, aggiungo io, ma anche per contraddizioni interne, per gelosie di apparato, per la debolezza delle sue leadership, per l’incapacità di fondare una cultura politica condivisa che sorreggesse l’opera di governo. Prodi ammette di aver sbagliato a non fare una sua lista alle elezioni del 2006, dopo le trionfali primarie del 2005 che lo avevano eletto a candidato premier del centrosinistra, dice la verità, quel progetto era già stato logorato dal ritorno in campo dei partiti che non avevano mai accettato fino in fondo l’anomalia ulivista. L’altro fattore di debolezza è che non si è mai riusciti a dare un compimento istituzionale al bipolarismo: soltanto enunciato, con un paese in cui la cultura politica restava proporzionalista, profondamente ostile alla competizione in politica (e alla concorrenza in economia…)».

 Rimaniamo sempre sull’Ulivo. Quell’esperienza aveva una carica ideale, davvero imparagonabile a quella dei giorni nostri, un “popolo” motivato. Insomma l’Ulivo scaldava i cuori e le menti degli italiani e in più proponeva un’idea di futuro. Oggi c’è il PD. Quanto Ulivo c’è nel PD? E ancora: Prodi esprime un giudizio duro su un ipotetico “Partito della Nazione”, perché?

 «Il Partito della Nazione è l’opposto dell’Ulivo. L’Ulivo è il sogno di una democrazia della competizione tra schieramenti alternativi, il partito della Nazione ripropone il vizio della politica italiana, da Cavour in poi. Si governa dal centro, con un partito unico (o con un’area modello pentapartito) che raggruppa tutte le culture e tutti i personaggi che indistintamente si aggregano per restare al potere. Se così fosse, il Pd partito della Nazione si trasformerebbe in un motore immobile, un fattore di paralisi e non di modernizzazione».

 Veniamo a Matteo Renzi. E’ figlio dell’Ulivo?

«Un amico ha ritrovato un foglio con i numeri telefonici dei comitati Italia che vogliamo di venti anni fa, i comitati prodiani e ulivisti: c’era anche Matteo Renzi, all’epoca ventenne. Di quell’esperienza c’è molto nell’intuizione originale di Renzi. Un leader competitivo che supera le culture del Novecento. Ma nell’Ulivo c’era molto altro: la partecipazione dei cittadini (il programma nel 1995 fu votato in assemblee popolari da migliaia di persone), le primarie, il dialogo tra culture diverse, il rispetto dei corpi intermedi… Tutte cose che non si vedono nel secondo Renzi, il Renzi onnipotente e egemone di Palazzo Chigi».

 Ultima domanda: Lei chiude il libro affermando che l’eredità dell’Ulivo aspetta ancora di essere realizzata. Ovvero si tratta di una  missione che è rimasta incompiuta ma che è, su alcune cose, una missione in attesa di compimento?  Cosa intende dire?

«La costruzione di un sistema politico moderno è qualcosa di più della riforma del Senato e perfino della riforma elettorale. Richiede una cultura e una classe dirigente nuova. Da questo punto di vista tutto resta ancora da fare, da compiere».

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