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L’unica ricetta è distinguere tra flessibilità “buone” e “cattive”

Condividiamo la forte attenzione al lavoro da parte del Governo, nonchè la convinzione che l’occupazione non si crei con le leggi. Infatti dai primi interventi emerge una forte attenzione alla crescita ed alle politiche di contesto che possono favorirla (riduzione del cuneo fiscale, pagamento debiti P.A., costi energia,  riduzione spesa,  semplificazione burocratica).

Questi sono per noi i nodi da affrontare con urgenza in questa fase, evitando di avviare discussioni infruttuose sull’ennesima  riforma complessiva della legislazione lavoristica che non produrrà  maggiore occupazione e  che sarebbe la quarta in quattro anni(Decreto Sacconi 2011, Legge Fornero 2012, pacchetto Letta 2013), peraltro sempre su sollecitazione dall’Europa. Le continue modifiche non danno alle imprese la possibilità di assimilare con i tempi necessari regole sempre rinnovate, creando incertezza e favorendo  avvocati e consulenti del lavoro piuttosto che l’occupazione. 

Sarebbe invece utile concentrare l’attenzione su pochi interventi forti e mirati, per affrontare i problemi rimasti aperti dopo le riforme degli ultimi anni.

Abbiamo espresso queste opinioni al Ministro del Lavoro nell’unica occasione di incontro occorsa fino ad ora,  e sembra che le nostre perplessità stiano ricevendo attenzione. Infatti nei primi interventi sul lavoro è stato lasciato sullo sfondo  il contratto  a tutele crescenti, di cui tanto si era parlato e che, secondo alcune anticipazioni, avrebbe dovuto sostituire alcune delle tipologie contrattuali, e si è scelto di intervenire, per ora, solo sul contratto a termine e sull’apprendistato.

Ma andiamo con ordine.

Il problema del precariato giovanile non dipende dal numero delle forme contrattuali esistenti. Si tratta di un ragionamento a dir poco semplicistico e di una discussione fuorviante che, portata al limite, condurrebbe ad abrogare tutte le tipologie per evitare i comportamenti opportunistici, cosa che non è nei fatti. Esse sono senz’altro molte, ma si cannibalizzano tra loro. Peraltro qualcuno arriva a calcolarne oltre 40 utilizzando alcuni paradossi, come ad esempio contare 4 volte la stessa tipologia perché la si considera sia a tempo pieno che in forma di part-time orizzontale, verticale e misto, e con altri escamotage del genere. In realtà, al di là del contratto  a tempo indeterminato, le tipologie contrattuali di lavoro dipendente in Italia sono:  il contratto a termine , il contratto di apprendistato, a sua volta distinto in tre tipologie a seconda delle finalità,  la somministrazione, che può essere  a termine o a tempo indeterminato, il contratto di lavoro a chiamata. Possiamo aggiungere quel particolare rapporto rappresentato dal lavoro accessorio.

Discorso a sé stante andrebbe fatto per i tirocini, che non costituiscono un rapporto di lavoro.

Ad inquinare il mercato del lavoro sono soprattutto i rapporti parasubordinati ed autonomi, spesso utilizzati in sostituzione di lavoro dipendente. I rapporti parasubordinati sono costituiti dalla collaborazione a progetto (co.co.pro.) e dalla collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co.),  rimasta nelle Pubbliche Amministrazioni perché all’epoca non si volle estendere a queste ultime le legge 30 che aveva trasformato le co.co.co. nelle co.co.pro., più tutelate.  Vi è poi il lavoro autonomo vero e proprio, vale a dire il lavoro con  partita Iva (professionisti, artigiani, commercianti) e l’associazione in partecipazione, con cui l’associante (imprenditore) attribuisce all’associato (lavoratore) una  partecipazione agli utili della sua impresa verso il corrispettivo di una prestazione lavorativa. Negli ultimi anni si sono moltiplicati i casi in cui datori di lavoro con pochi scrupoli chiedono prestazioni di lavoro dipendente senza assumere il lavoratore, ma chiedendogli di aprire una partita Iva, come si trattasse di una prestazione autonoma, o imponendo la associazione in partecipazione. Si tratta di lavoratori che, alla stregua di un dipendente, seguono le indicazioni di un datore di lavoro senza margini di autonomia e devono rispettare un orario di lavoro, senza però avere le tutele del dipendente (malattia, maternità, indennità di disoccupazione, etc).

Questo è il vero cancro del nostro mercato del lavoro.

E’ ormai dimostrato che le tipologie contrattuali flessibili vengono utilizzate come “cuscinetto”: i contratti flessibili sono i primi ad essere dismessi in fasi di crisi ed i primi  ad essere  accesi in fase di ripresa. Ed infatti mentre negli anni pre-crisi i contratti flessibili crescevano, in questi anni di crisi l’incidenza di contratti flessibili sul totale degli occupati è scesa, mai superando, negli ultimi 20 anni, il valore medio del 12-13% dello stock degli occupati. E’ vero che considerando le nuove assunzioni, vale a dire il dato di flusso, quelle con contratti flessibili rappresentano ben oltre il 50%, ma evidentemente esse vengono via via riassorbite se la percentuale sullo stock è di tanto inferiore.  Il punto è che da questi dati, che comprendono anche le co.co.pro. e co.co.co., per le quali vige la comunicazione obbligatoria di assunzione, sono escluse le false partite Iva e  associazioni in partecipazione.  E’ certo che, potendole conteggiare, esse farebbero salire parecchio quel 12-13%.

Ecco quindi che il punto è quello di favorire le flessibilità “buone”, con le opportune garanzie e tutele, e contrastare quelle realmente portatrici di precarietà.

La legge Fornero aveva imboccato questa strada, secondo noi senza alcun contrasto con la legge Biagi, anzi in continuità con essa. Da una parte aveva allargato l’utilizzo del contratto a termine, anche senza causale, strada poi confermata dal pacchetto Letta, dall’altra aveva contrastato le forme autonome spurie. Quella legge ha infatti introdotto sia una norma che, in presenza di certe condizioni  (durata superiore a otto mesi annui  per due anni consecutivi;  corrispettivo superiore all’80% dei corrispettivi annui  percepiti in due anni consecutivi; postazione di lavoro fissa presso il committente) riconduce la partita Iva ad una co.co.pro., per i redditi inferiori a 18.000 euro,  sia una norma che  riconduce la associazione in partecipazione ad un rapporto di  lavoro subordinato a tempo indeterminato se iI numero degli associanti è superiore a tre,  se non vi è effettiva partecipazione agli utili, se la  prestazione non è connotata da competenze elevate. Crediamo si tratti della direzione giusta.  

Ora il decreto legge appena varato dal Presidente Renzi e dal Ministro Poletti  da una parte continua nella direzione di allentare le condizioni di utilizzo del contratto a termine, dall’altra opera una semplificazione dell’apprendistato. Quindi la direzione è  ancora una volta quella di favorire le flessibilità buone. 

Riteniamo però necessarie una serie di garanzie, a partire da una limitazione del numero di possibili proroghe del contratto a termine e  da una diversa connotazione della percentuale massima sull’organico, che va riferita a tutte le tipologie flessibili e non al solo contratto a termine. Inoltre va individuato un meccanismo che consenta uno scambio tra maggiore flessibilità e maggiore retribuzione e va incentivata la trasformazione a tempo indeterminato. Sull’apprendistato  siamo preoccupati che si confonda tra semplificazione e depotenziamento. Mentre è importante che per l’apprendistato di primo livello le ore di formazione siano retribuite solo in parte, come avviene nei sistemi duali europei, e che le percentuali di stabilizzazione non siano rigidamente stabilite per legge quando potrebbero essere affidate alla contrattazione collettiva,  è invece un errore eliminare l’obbligo di forma scritta del piano formativo individuale nonché l’obbligo di integrare la formazione aziendale con la formazione pubblica.  

Nell’auspicio che si possano introdurre alcuni correttivi durante l’iter di conversione del decreto, quello che resta da fare è riprendere con forza una politica di contrasto  al falso lavoro autonomo. 

Innanzitutto si deve verificare se le norme della legge Fornero per contrastare le flessibilità cattive siano sufficienti o no. Noi riteniamo che siano norme buone, ma da rafforzare, soprattutto sul piano dei costi delle imprese. Vale a dire che per scoraggiare una volta per tutte l’utilizzo di forme di lavoro parasubordinato e autonomo bisogna parificare i costi contributivi e retributivi di queste forme a quelle del lavoro dipendente, come si sta facendo gradualmente con le co.co.pro., che in qualche anno si sono notevolmente ridotte. Immediatamente dopo va avviato un ragionamento sull’estensione delle tutele, in base alla contribuzione. A partire dall’estensione dell’Aspi ai co.co.pro., in sostituzione dell’indennità di cui godono attualmente, che è a carico della fiscalità generale e slegata dalla contribuzione, ed ai co.co.co., che, annidati nella Pubblica Amministrazione,  paradossalmente sono tra i lavoratori meno tutelati.

In sintesi, chiediamo di completare il percorso  già intrapreso, favorendo il lavoro flessibile “buono”, come il contratto a termine e l’apprendistato,  ben tutelato da legge e contrattazione, che rappresenta  un valore aggiunto per l’economia, e contrastando le forme che rappresentano solo un  modo per ridurre costi e diritti.

Non crediamo, invece, che serva una revisione della normativa su vasta scala, né che sia utile introdurre il contratto a tutele crescenti, il quale darebbe avvio ad  una improduttiva discussione ideologica, mentre  le energie del nostro Governo e del Paese andrebbero indirizzate altrove.

 

 (*) Segretario Confederale CISL

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