Sul fatto che la parte del leone, tra i contenuti della contrattazione del welfare aziendale (WA), la facciano gli istituti della conciliazione tra vita e lavoro (magari in senso lato, ricomprendendo i benefits rivolti alle famiglie) non ci piove proprio.
La centralità di questo tema era già emersa nei commenti di Tiziano Treu (2013) a proposito del carattere integrativo della contrattazione del WA rispetto alla carenza di politiche sociali per le famiglie e anche dai dati analizzati dalla ricerca che di recente ha riflettuto su nove anni di accordi di welfare dall’Archivio della contrattazione della Cisl Lombardia, (Ponzellini, Riva, Scippa 2015).
Per avere un’idea quantitativa più precisa, basterebbe d’altra parte consultare i dati dell’ultimo anno dell’Archivio Cisl – che Piergiorgio Caprioli analizza su questo stesso numero monografico della rivista – i quali evidenziano che su 96 accordi ben 59 hanno introdotto istituti che appartengono alle aree tematiche: “Famiglia e cura”, “Promozione della maternità e paternità”, “Conciliazione dei tempi”.
Aggiungo che questo particolare mix di misure è piuttosto differente da analoghi set di benefits applicati all’estero dalle aziende e particolarmente dalle multinazionali anglo-americane, dove invece gli istituti più diffusi risultano da un lato i perquisites di status (smartphone, pc, auto, carte di credito, etc.), dall’altro le misure di salute e wellness (check-up periodici di prevenzione, lotta alle dipendenze, fitness, benessere psico-fisico in generale).
Questa situazione ha le sue intuibili ragioni nel fatto che fin dagli albori la spesa sociale italiana, data la sua impronta prevalentemente familista, è stata poco orientata ai servizi per le famiglie ed è di conseguenza particolarmente in questo ambito che la contrattazione aziendale si è sentita obbligata ad intervenire.
E’ d’altra parte sotto gli occhi di tutti che il gruppo target prevalente di queste misure non sono affatto le donne in generale, e neppure le madri. Quando si parla di convenzioni per asili-nido, di voucher per l’acquisto di servizi di cura, di contributi per soggiorni estivi per bambini e ragazzi, di locali da adibire a dopo-scuola, di borse di studio, etc., il riferimento è evidentemente a tutti i lavoratori che hanno figli o, nel caso, parenti disabili o anziani da curare. Ma anche quando gli accordi parlano di part time o di congedi, di flessibilità dell’orario o di smartworking, le norme non riguardano facilitazioni per le sole madri quanto, più universalmente, per i genitori di bambini sotto una certa soglia d’età. Persino tra gli accordi di sostegno alla maternità e paternità, gli istituti più contrattati negli ultimi tempi risultano i giorni aggiuntivi di congedo di paternità. Si può tranquillamente concludere che, per lo meno nella contrattazione, sia passata anche in Italia la cultura del “caregiver universale” – niente più divisione sessuale tra chi “si prende cura” e chi “procaccia il pane” – di cui parla Ann Shola Orloff (2009) a proposito della svolta, non a caso nominata come “post-maternalista”, dei sistemi di welfare occidentali.
Si può aggiungere, per concludere il quadro, che in molti accordi che introducono misure di conciliazione – specialmente le misure relative alla flessibilità spazio-temporale del lavoro – manca addirittura uno specifico riferimento alla condizione di “caregiver”, alle esigenze di cura o alla famiglia: la contrattazione prende semplicemente atto che una nuova attenzione all’equilibrio tra vita e lavoro è essenziale per tutti, che abbiano o no “carichi di cura”. Anche se poi le statistiche ci diranno che saranno state prevalentemente le donne – e, tra queste, le madri – ad usufruire di queste misure.
Vogliamo allora concludere che il welfare aziendale è “gender neutral”? Niente affatto, se facciamo caso a come si è costruito socialmente. Che sia guidato dalla contrattazione sociale del sindacato o dall’attenzione delle imprese a non disperdere il capitale umano femminile, all’origine delle misure di welfare, o almeno di gran parte di queste, c’è l’entrata nel lavoro retribuito delle donne: le donne, non potendo forse fare altrimenti, hanno portato nel lavoro per il mercato il resto della loro vita – la cura di sé e del mondo – e il lavoro sta cercando di prenderne progressivamente atto. Se per un paio di decenni le politiche erano orientate dall’idea della parità e delle pari opportunità per le donne – misure che consentissero alle donne di poter lavorare e competere nelle carriere “malgrado i loro impegni di cura” – negli ultimi anni le aziende, per rendere più attraenti e produttive le loro organizzazioni, hanno cominciato piuttosto a farsi ispirare dalla diversità delle donne. Ed è proprio la logica del diversity management che porta oggi molte imprese a personalizzare gli schemi di orario per andare incontro alle vite dei dipendenti, a prevenire l’assenteismo con servizi e facilitazioni per le famiglie, a riconoscere permessi che consentono a chi lavora di non mancare ai propri impegni extra-lavorativi: la vita e la cura sono evidentemente entrate nelle fabbriche e negli uffici. E’ curioso che, con una definizione che ancora una volta riporta al mondo delle donne, il linguaggio delle Human Resources alluda all’insieme delle misure di WA come “people care”.
Il sindacato – e dunque la contrattazione – ci ha messo un po’ di più forse a uscire dalla logica della tutela della donna ma, come vediamo negli accordi di WA, anche nella contrattazione questa stagione è finita: gli accordi ormai parlano di cura riferendosi a caregivers donne o uomini, parlano di benessere e di work-life balance riferendosi a tutti i lavoratori. Passando per una diversa attenzione al mondo delle donne, anche il sindacato sembra aver chiuso il cerchio avendo costruita e fatta propria un’altra, più ampia, rappresentazione del “lavoratore”.
Quasi vent’anni fa, su una rivista che non esce più da molti anni, a un articolo sul cambiamento degli orari di lavoro (più auspicati che reali) davo un titolo che si è rivelato profetico: “Dalle donne, una soluzione per tutti”. Mi piace pensare che le donne siano arrivate nel mondo del lavoro, si siano tirate su le maniche (o, semplicemente, abbiano opposto resistenza…) e stiano cercando di trasformarlo. Una trasformazione, fortemente radicata nella differenza femminile, di cui beneficiano ora tutti.
(*) APOTEMA, Etica ed Economia
Bibliografia
Caprioli P. (vari anni), Il Welfare Aziendale in Lombardia, Cisl regionale Lombardia
Orloff A.S. (2009), Farewell to Maternalism? State Policies, Feminist Politics and Mothers’ Employment in the US and Europe. New York: Russell Sage
Ponzellini A.M. (1997) “Tempo di lavoro: dalle donne una soluzione per tutti”, in Il Progetto, 17, sett./ott.
Ponzellini A.M., Riva E, Scippa E. (2015), “Il welfare aziendale: evidenze dalla contrattazione”, in Quaderni di Rassegna Sindacale, n.1
Treu T. (2013), Welfare aziendale. Migliorare la produttività e il benessere dei dipendenti, Ipsoa, Milano