L’attività di formazione è chiamata a fornire ai magistrati, oltre al sapere tecnico-giuridico, strumenti culturali e occasioni di confronto. Al “servizio giustizia” va garantita, infatti, accanto all’indispensabile indipendenza del giudice, l’alta capacità professionale e la necessaria apertura alla società e alle sue esigenze.
Da qui discende la straordinaria importanza del sistema formativo dei magistrati, all’esordio e lungo l’intero percorso dell’esperienza giurisdizionale.
Le linee guida dell’attività didattica svolta negli anni di avvio della Scuola, confermate e sviluppate nel programma dei corsi di quest’anno, si muovono in questa direzione.
L’offerta formativa valorizza, infatti, il dialogo e il confronto con realtà e istituzioni che operano sui temi della giurisdizione. Questo consente ai magistrati, per un verso, di svilupparne la conoscenza, per l’altro, di maturare la capacità di approccio critico a molteplici problemi e fenomeni, proposti da una società sempre più complessa, in relazione ai quali la magistratura è chiamata a intervenire.
In tale contesto, appare essenziale, tra l’altro, approfondire questioni di grande attualità, dai temi eticamente sensibili ai rapporti tra diritto ed economia, particolarmente rilevanti nel quadro delle nuove condizioni sovranazionali a carattere globale. Questioni non sempre affrontate nei pur impegnativi studi richiesti ai magistrati.
L’efficienza del sistema è indispensabile per rendere effettiva la possibilità dei cittadini di agire in giudizio per tutelare i propri diritti, previsti dalla legge, ma decisiva è la qualità della giustizia, che dipende in larga misura dalla professionalità di coloro che la esercitano.
Per ogni magistrato la formazione rappresenta, quindi, una delle condizioni di sostanziale legittimazione del suo operato.
L’autonomia e l’indipendenza assicurate al giudice dalla Costituzione non rappresentano, difatti, una garanzia meramente formale, ma si consolidano con l’acquisizione di una accurata preparazione tecnico giuridica, nonché con la consapevolezza del ruolo e dell’etica della funzione del giudice, accompagnate da attenzione costante agli effetti della propria attività, quali che siano i diversi settori della giurisdizione in cui essa si svolge.
Anche nelle raccomandazioni del Consiglio d’Europa sui giudici, la formazione non viene intesa come una facoltà, lasciata all’iniziativa individuale del magistrato, ma come un vero e proprio dovere deontologico, volto all’aggiornamento e alla crescita professionale. Crescita che deve essere assicurata a tutti da una struttura adeguata e indipendente.
Tale è la Scuola superiore della magistratura, come disegnata dal legislatore, in considerazione dello specifico status dei magistrati nonché dei principi costituzionali della libertà di insegnamento e dell’autonomia delle istituzioni di alta cultura, dettati dall’art. 33 della Costituzione.
La formazione permanente, nel diversificato programma di iniziative delineato dalla Scuola, assicura a tutti i magistrati un arricchimento della loro cultura professionale attraverso l’aggiornamento e l’approfondimento continuo, nell’ambito di un ordinamento nazionale in continuo, veloce mutamento e straordinariamente variegato per l’affiancarsi, alla normativa interna, della legislazione sovranazionale e delle tutele previste dalle Carte dei diritti.
Essa consente, inoltre, di studiare nuovi e gravi fenomeni che attraversano la nostra epoca, come le migrazioni e il terrorismo; di confrontare e discutere orientamenti giurisprudenziali e procedure talvolta difformi da ufficio a ufficio; di mettere a fuoco esperienze, approcci ermeneutici, prassi virtuose da condividere.
In questa prospettiva la Scuola ha avviato fin dallo scorso anno l’attività di formazione, prevista dalla legge, per coloro che aspirano a ricoprire incarichi direttivi.
La diffusione della cultura dell’organizzazione è, difatti, fondamentale per concorrere a restituire al sistema efficienza ed efficacia piena.
Le analisi recentemente svolte dal Ministero della giustizia inducono a ritenere, infatti, che una inversione di tendenza, nella tempistica della conclusione dei procedimenti civili e penali pendenti, non è soltanto collegata a nuove leggi o a nuovi investimenti, ma anche, in buona misura, a una gestione razionale del singolo ufficio. Dai dati statistici degli uffici giudiziari, emergono i risultati positivi raggiunti da alcuni di essi, e si evince che, con l’adozione di metodi di lavoro più funzionali, si può ridurre sensibilmente quel carico di lavoro arretrato che costituisce il “debito giudiziario” del Paese.
Il tempo non è una variabile indifferente per l’esercizio della giurisdizione e per il riconoscimento dei diritti. E’ auspicabile, quindi, che si affronti, con determinazione, questo problema: gli Uffici giudiziari sul piano organizzativo e gestionale, Parlamento e Governo sul piano legislativo e su quello delle risorse, ricercando la massima condivisione.
La formazione iniziale riservata ai magistrati in tirocinio presenta caratteristiche necessariamente peculiari.
Essa deve consentire non soltanto di riprendere una formazione teorica, già abbondantemente compiuta prima del concorso, ma soprattutto di acquisire i “requisiti” del giudicare, che richiedono (oltre alla preparazione tecnica) imparzialità, correttezza, riserbo, equilibrio, senso della responsabilità, capacità di esercitare, nei limiti della norma, l’attività interpretativa fedele ad essa.
Il metodo del dibattito guidato, adottato dalla Scuola, riveste particolare importanza per i giovani magistrati in tirocinio, ai quali deve essere offerto un modello di cultura professionale che si alimenta anche di una riflessione organica sull’esperienza pratica compiuta negli uffici, di scambio di punti di vista, di apertura a saperi diversi, di conoscenza delle nuove tecnologie. Strumento indispensabile, questo, per agevolare e rendere sempre più veloce ed efficiente il lavoro giudiziario.
La giustizia non può essere vista come un problema perché rappresenta una risorsa per il Paese. Proprio per questo richiede continui interventi per assicurarne il buon funzionamento.
Sono sempre più convinto che sia dovere di tutti noi, di tutti i cittadini, aver cura della Repubblica. Ai magistrati è affidata in particolare, la cura di uno degli aspetti fondanti del nostro Stato: la tutela dei diritti, della giustizia, delle libertà. Senza questi non c’è democrazia, non c’è uguaglianza, non c’è dignità della persona, in altre parole non c’è Repubblica.
La giustizia è un servizio e un valore: le istituzioni dello Stato devono saperla assicurare con efficienza e rigore. Diversamente si genera sfiducia e si concede spazio all’illegalità e al malaffare.
Dobbiamo continuare a spezzare le catene della corruzione e delle complicità. La corruzione è un male gravissimo della nostra società che inquina le fondamenta del vivere civile. Va combattuta senza equivoci o timidezze.
Le istituzioni, la magistratura, le forze dell’ordine sono impegnate nella prevenzione e nel contrasto del crimine: il loro lavoro e i loro successi costituiscono un servizio prezioso al nostro Paese.
Occorre una grande alleanza tra tutte le forze sane per sviluppare ulteriormente gli anticorpi necessari. Si tratta di un impegno politico, sociale, culturale, che deve coinvolgere l’intera comunità. Perché gli anticorpi – che in Italia esistono, e non dovunque è così – sono più efficaci quando sono presenti in tutti gli strati della società, dalla scuola al mondo economico, dai corpi intermedi alle istituzioni locali.
Combattere la corruzione è un impegno di sistema, non di un solo corpo dello Stato, che non sarebbe sufficiente.
Gli attori della politica, per la loro parte, devono aggiungervi la consapevolezza che la corruzione in quell’ambito è più grave perché, nell’impegno politico, si assume un duplice dovere di onestà, per sé e per i cittadini che si rappresentano.
Per raggiungere risultati duraturi occorre favorire le sinergie: la magistratura ha il compito di perseguire i reati, le istituzioni politiche quello di agire per prevenire e sconfiggere i fenomeni corruttivi. E quello, insostituibile, di perseguire l’interesse comune, definendo le regole di legge, e quello di dotare il sistema giustizia di norme chiare ed efficaci e di mezzi adeguati.
Per questo comune obiettivo occorre perseguire forme di collaborazione istituzionale. La Magistratura non è e non vuole essere un’alternativa alle istituzioni politiche.
Ripercorrendo, oggi, alcune considerazioni che ho svolto nel dicembre scorso, in occasione dell’incontro di fine anno con i rappresentanti delle istituzioni, vorrei rammentare che la nostra democrazia è connotata dal pluralismo istituzionale e dal mutuo bilanciamento dei poteri. Ciascun potere opera in coordinamento con gli altri, dei quali è chiamato a riconoscere responsabilità e funzioni.
L’ordinato svolgimento della vita istituzionale rafforza il senso dello Stato e il suo impegno contro il malaffare. Accresce la fiducia dei cittadini, i quali per primi si attendono, con ragione, che anche le varie articolazioni della Repubblica esprimano coesione.
Va sottolineato che questa collaborazione viene abitualmente praticata. Talvolta si registra invece competizione, sovrapposizione di ruoli, se non addirittura conflitto, e questo genera sfiducia, oltre a indebolire la società nel dispiegarsi delle sue potenzialità e a disorientarla riguardo al concreto esercizio dei diritti.
Il conflitto, inoltre, indebolisce tutte le parti in contrapposizione.
La dialettica proficua tra poteri si esprime, nella libertà di manifestare opinioni, in confronto leale e costruttivo. Gli ambiti di spettanza dei diversi poteri non sono fortilizi da contrapporre gli uni agli altri.
Vanno rispettati i confini delle proprie attribuzioni, senza cedere alla tentazione di sottrarre spazi di competenza a chi ne ha titolo in base alla Costituzione.
“Il rispetto delle competenze altrui costituisce del resto la migliore garanzia per la tutela delle proprie attribuzioni”.
A quanto osservato allora credo che si possa aggiungere che l’equilibrio fra i poteri dipende anche dalla capacità di ciascuno di essi di assumersi la responsabilità del proprio agire.
I provvedimenti adottati dalla magistratura incidono, oltre che sulle persone, sulla realtà sociale e spesso intervengono in situazioni complesse e a volte drammatiche, in cui la decisione giudiziaria è l’ultima opportunità, a volte dopo inadempienze o negligenze di altre autorità. Per questo l’intervento della magistratura non è mai privo di conseguenze.
La valutazione delle conseguenze del proprio agire non può essere certo intesa in alcun modo come un freno o un limite all’azione giudiziaria rispetto alla complessità delle circostanze.
E’, comunque, compito del magistrato scegliere, in base alla propria capacità professionale, fra le varie opzioni consentite, quella che, con ragionevolezza, nella corretta applicazione della norma, comporta minori sacrifici per i valori, i diritti e gli interessi coinvolti.
La ragionevolezza non è soltanto un canone costituzionale che deve improntare l’azione del legislatore, ma è anche un parametro che deve guidare il giudice a operare il bilanciamento spesso richiesto dai diversi valori tutelati dalla Costituzione.
La nostra magistratura, in tante circostanze, ha dimostrato di avere tutti gli strumenti per garantire il riconoscimento dei diritti, senza condizionamenti. E’ un bene che sia sempre più consapevole della sua funzione insostituibile, ma anche della grande responsabilità che grava sulle sue scelte.
Ricordavo, poc’anzi, che il sistema delle fonti è oggi sempre più ampio, poiché ai limiti, ai vincoli, alle disposizioni, talvolta non ben definite, a causa della coesistenza di significati diversi nel linguaggio normativo, si aggiungono quelli dovuti all’integrazione nell’Unione europea e nel sistema del Consiglio d’Europa.
In presenza di queste condizioni, è assegnato al giudice il compito di ricomporre l’intricata trama normativa, divenendo artefice del “diritto vivente” attraverso l’attività di interpretazione.
Nell’esercizio della funzione ermeneutica il giudice si misura anche con il divenire della realtà, riempiendo di significato concreto i principi e i valori delle Carte, i cui margini di relativa indeterminatezza sono funzionali a consentire alla norma la possibilità di regolare condizioni mutate nel corso del tempo.
Nell’applicare la legge al caso concreto, il magistrato, in presenza di una pluralità di possibili interpretazioni consentite, è chiamato a operare una scelta sulla base di principi e di elementi non esplicitati con precisione nei meri enunciati normativi ma pur sempre interni all’ordinamento.
Sempre tenendo conto, in massima misura, della esigenza di certezza del diritto, della previa conoscibilità, da parte dei cittadini, dei criteri di valutazione giudiziaria. In questo è essenziale il ruolo della Corte di Cassazione, cui deve, sollecitamente, essere assicurata la possibilità, effettiva, di svolgere appieno la sua funzione nomofilattica.
L’esercizio del compito, affidato ai magistrati, di applicazione delle norme di legge, con la loro corretta e puntuale interpretazione, non si esaurisce, quindi, in una mera operazione meccanica né può trasformarsi in una lettura “creativa” della norma. Dovrà essere governato, in un bilanciamento tra esigenze diverse, da rigore metodologico, conoscenze, competenze e sensibilità che possono essere assicurati soltanto da una formazione ampia, qualificata e costantemente alimentata.
Questa Scuola è il necessario strumento per mirare a questo obiettivo e per rafforzare così il ruolo della magistratura quale istituzione di garanzia al servizio del Paese.
Con l’auspicio che i risultati già conseguiti siano ulteriormente sviluppati, auguro buon lavoro al Comitato Direttivo, di recente insediatosi, al personale della Scuola e, soprattutto, ai partecipanti ai corsi, a partire dai giovani magistrati in tirocinio, cui rivolgo un augurio molto cordiale di buon lavoro.
(*) Intervento del Presidente della Repubblica all’inaugurazione dei corsi della Scuola Superiore della Magistratura per l’anno 2016, Scandicci 28/04/2016