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La Google generation criminale

Scriveva Riccardo Orioles nel 1983: «I bambini russi sono intelligentissimi. A dieci anni sono già campioni di scacchi. I bambini americani sono ancora più intelligenti. A nove anni già manovrano il computer. I bambini napoletani sono i più intelligenti di tutti. A otto anni già sopravvivono» (I Siciliani).

La sopravvivenza è la prova quotidiana da superare affrontando un ineluttabile destino di crimini e delitti. Una sovraesposizione continua al tocco velenoso della camorra/medusa. Negli ultimi 15 anni sono stati uccisi 36 minorenni, 25 dei quali tra 0 e 12 anni. Nel 2004 il prefetto Profili, con un’ordinanza, impediva la vendita di coltelli per disarmare i giovani killer. Nel 2007 il cardinale Sepe invitava i camorristi a deporre le armi all’interno delle chiese napoletane. Eppure, dal 2013, omicidio dopo omicidio, siamo chiamati a riflettere sulla violenza scatenata dalle «paranze dei bambini». Nel 2015 sono stati arrestati 43 giovanissimi affiliati alla camorra e sono stati compiuti più di 40 omicidi tra i quali si annoverano almeno 5 minorenni (Luigi Galletta, Genny Cesarano, Maikol Giuseppe Russo, Ciro Colonna) vittime delle cosiddette stese di camorra.

La morte è parte del vissuto quotidiano dei guagliuni ‘e miezze ‘a via, non tutti criminali ma sicuramente con un profilo borderline: incensurati, ma pienamente inseriti nelle logiche dei clan, che svolgono attività illegali nell’indotto criminale o che hanno frequentazioni e rapporti di amicizia con esponenti della camorra dal cui fascino sono suggestionati. La presenza dei minori all’interno delle dinamiche dei clan metropolitani è un dato di lunga durata. Talmente persistente da aver sviluppato una sua specifica letteratura e cinematografia dando luogo ad un immaginario collettivo dentro cui si collocano diverse generazioni di giovani delinquenti: dal contrabbando della Golden age al narcotraffico della Globalizzazione.

Quanti libri e film ci hanno raccontato le storie di ragazzi marginali che sceglievano la camorra per eludere la fatica del lavoro manuale e dello studio ripiegando sull’immediato benessere criminale? Verso la fine degli anni Settanta il cantante neomelodico, ancora minorenne, Patrizio cantava:

 

«Tribunale! Questa condanna che mi dai, la dai alla miseria di Napoli e a tutta la società! La colpa non è mia se non sono andato a scuola e sono cresciuto sul marciapiede. Cosa ho studiato, te lo voglio raccontare: le scuole elementari a fare lo scugnizzo, la prima media a rubare, la seconda a scippare, la terza a rapinare. Cosa potevo fare se la scuola del marciapiede questo ci insegna? Tribunale, non mi dare un’altra condanna, dammi una penna tra le mani, insegnami a studiare… L’italiano non lo conosco, per me è una lingua straniera, non riesco a comprenderlo».

 

Questo testo è il capostipite di tutti i giustificazionismi pauperisti e vittimari che ancora dominano il racconto del contesto criminale napoletano. Eppure in questo lamento plebeo si riconosce allo Stato non solo la capacità repressiva (il Tribunale) ma anche quella preventiva (la Scuola); anzi si reclama lo studio come forma di emancipazione civile. Proviamo a fare un raffronto con una canzone dell’ultimo decennio: «’A società», interpretata da Gino Ferrante.

Nell’incipit del videoclip c’è un ragazzino di circa 10 anni che sta uscendo di casa. La madre lo rincorre e dice: «Devi andare a scuola»; lui le risponde: «Ma’ a me la scuola non ha dato niente». Nella scena successiva quel bambino è diventato un giovane boss a capo di una paranza che spaccia droga e commette omicidi contro adulti «infami». Il suo unico mondo è «’a società», ovvero il clan che ha preso il posto della famiglia naturale: una fratellanza di sangue con un’ organizzazione criminale fondata sul fattore «trasfusionale», più efficiente di quello biologico.

A trent’anni di distanza dalla canzone di Patrizio, notiamo che questi ragazzini vedono solo la funzione repressiva dello Stato: non c’è più l’aspirazione all’emancipazione meritoria, ma solo il richiamo ad una ricchezza materiale che ti può condurre verso due sole strade: il Tribunale o il cimitero. La strada e il suo immaginario sono eretti a modello di vita ideale da cui trarre una via d’uscita autonoma per assumere ruoli da protagonisti nella guerriglia metropolitana. Non so se questa Google generation criminale si possa ancora definire camorrista (nel senso subculturale del termine). Mi sembrano piuttosto dei dannati «nigger» italiani, ovvero giovani violenti ammassati nel carnaio urbano, allo stesso modo dei «fratelli americani» con cui condividono la violenza di strada, il controllo militare del territorio, lo spaccio pubblico, la morte prematura, l’organizzazione per gang e persino la mania dell’hip hop. Sono questi i riferimenti a cui si ispira la fratellanza di sangue, tanto è vero che uno delle parole più diffuse per riconoscersi è quella tipica del ghetto nordamericano, «Bro’», cioè l’abbreviazione di Brother, e non il termine della tradizione gergale mafiosa di «compare». Proprio come i neri dei ghetti, gli adolescenti della camorra degradano la lingua napoletana in slang al fine di fondere identità criminale e identità territoriale, nel senso più ampio del termine. Un idioma «glocale» che salda il territorio urbano, la comunità locale e la mentalità criminale alla sfera dei new media (incorporando l’immaginario sedimentato dagli old media). Se proprio vogliamo trovare una definizione per questa lingua/stile di vita deviante, potremmo dire che si è passati dalla napoletanità al napoletanismo, attraverso la napoletaneria del secondo Novecento.

Il gergo di questi adolescenti violenti è la manifestazione plastica di un integralismo culturale chiuso al confronto tra identità locale e dimensione nazionale, ma contemporaneamente aperto alle influenze della globalizzazione digitale. Un fondamentalismo che traccia i confini tra il dentro e il fuori, che cementa l’identità territoriale alla identità marginale/deviante, rovesciando il vittimismo postunitario nell’orgoglio criminale della Globalizzazione, e che mette radici nella crisi degli stati nazionali come se fosse una jihad criminale generazionale. Un integralismo violento giustificato dall’idea stereotipata del riscatto sociale che in realtà è solo un’effimera corsa al denaro, prima ancora del potere.

                                      

 (*) Docente di Public History presso l’Università di Salerno.

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