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Finanziare investimenti a rendimenti stabili

In queste settimane la Legge di Stabilità domina il dibattito politico-parlamentare.  Le previsioni di crescita attese dal governo sono di gran lunga insufficienti a determinare un percorso di fuoriuscita reale dalla crisi che da anni sta segnando come una piaga la nostra economia. Se i vincoli del quadro europeo, determinati dalle politiche di austerità, condizionano pesantemente la capacità di spesa, le scelte di fondo su cui si sta muovendo il Governo non sono caratterizzate da interventi di politica industriale capaci di favorire i necessari investimenti, pubblici e privati, finalizzati a sciogliere i nodi strutturali del nostro sistema economico. Anzi, la linea generale sembra andare in direzione contraria alle necessità del sistema, insistendo (e anche malamente) sul lato dell’offerta e non adeguatamente sulla domanda.

In questa sede intendo soffermarmi su un punto, cioè il legame che esiste tra rendimento del risparmio previdenziale e crescita dell’economia, per sottoporre nuovamente al dibattito il tema del ruolo positivo che possono svolgere i fondi di previdenza integrativa.

Sollevando la questione dell’utilizzo delle risorse dei fondi pensione, nelle sue modalità e nelle sue finalità, la Fiom ha sottoposto alla discussione pubblica da alcuni anni una proposta concreta per affrontare, in modo parziale ma rilevante, il grande tema delle risorse da destinare allo sviluppo, evidenziando la relazione stringente tra politiche di austerità e controriforme sociali e, quindi, indicando una possibile inversione di tendenza. Proviamo innanzitutto a descrivere sommariamente l’argomento di cui trattiamo.

I fondi pensione si suddividono grosso modo in due fattispecie: i fondi chiusi (o negoziali), e i fondi aperti e le polizze.

Nel primo caso i soggetti che costituiscono questi fondi sono parti contrattuali attraverso accordi collettivi, contratti collettivi nazionali di lavoro e accordi aziendali. Nel secondo caso, i soggetti costitutori possono essere banche, società di gestione del risparmio, società di investimento mobiliare e società di assicurazioni.

Le differenze sono significative. I fondi negoziali sono associazioni senza fini di lucro, mentre gli altri sono soggetti di intermediazione finanziaria con fini di lucro. Ne consegue che i primi hanno una struttura di governo indipendente mentre i secondi hanno quella del soggetto costitutore; i primi minimizzano i costi di gestione, i secondi comprendono la remunerazione del soggetto costitutore nelle commissioni; i primi sono gestiti da organismi rappresentativi degli aderenti, gli altri no.

All’insieme di questi fondi pensione attualmente sono iscritti il 25% dei potenziali aderenti, mentre l’ammontare del patrimonio che gestiscono è di oltre 100 miliardi di euro. Ed è un patrimonio costantemente in crescita: infatti, il flusso annuo di contributi è di circa 12 miliardi di euro.

Accade, però, che il risparmio previdenziale amministrato da tutti i fondi pensione ha un ritorno, in termini di investimenti nel nostro Paese, irrilevante. Infatti, i fondi pensione amministrano il risparmio previdenziale dei lavoratori e delle imprese guardando in gran parte all’estero; la parte che rimane in Italia è investita fondamentalmente in titoli del nostro debito pubblico. Un dato rende esplicito questa caratteristica: i fondi negoziali investono in titoli di aziende italiane meno del 1% delle risorse gestite; quelli aperti, il 3%.

È sulla base di ciò che la Fiom ha avanzato una proposta tendente ad affrontare i limiti specifici della natura degli investimenti e a rilanciare la necessità di definire politiche industriali capaci di intervenire sulle condizioni strutturali che limitano gli investimenti per lo sviluppo.

L’idea è quella di realizzare nuove possibilità di investimento dei Fondi pensione attraverso attività creditizie presso lo Stato, pensate ad hoc, con l’obiettivo preciso di far si che una parte consistente delle risorse amministrate venga investita nel nostro Paese e possano aiutare a realizzare strategie concordate di politica industriale.

È bene chiarire subito che il presupposto della nostra proposta risiede nel fatto che, trattandosi di investimenti – come si dice – dedicati, occorre ottimizzare i rendimenti e la stabilità delle prestazioni.

È possibile sottrarre quel risparmio, o una parte di esso, alla instabilità e alle oscillazioni dei mercati finanziari non ricorrendo solo a scelte di investimento prudenti (come fanno i fondi negoziali per le regole a cui sono sottoposti e le scelte di indirizzo che si sono dati), ma agendo sulla definizione dei rendimenti che potrebbe essere resa possibile in cambio dell’ampliamento delle fonti di finanziamento verso lo Stato che la canalizzazione di cospicue risorse finanziarie dei fondi determinerebbe (avvenga ciò in forma diretta o in forma indiretta attraverso il coinvolgimento, ad esempio, della Cassa depositi e prestiti). I capitali canalizzati, direttamente o indirettamente, verso il settore pubblico dovrebbero avere una destinazione concordata tra mondo del lavoro, dell’impresa e decisore pubblico per essere investiti su progetti capaci di intervenire sui fattori di sistema che da anni incidono negativamente sulla competitività del nostro sistema economico.

Come si evince, non mi affascina la discussione, e anzi la ritengo sbagliata e pericolosa per la tutela e la valorizzazione del risparmio previdenziale, circa gli investimenti diretti verso le aziende. La dico secca: non si può spostare il rischio dall’impresa ai lavoratori, caricandolo sui loro risparmi. E poi, la stessa esperienza derivante dalle recenti scelte della BCE, ci dice che il problema non è rappresentato dall’acqua, semmai dal cavallo che non vuole (o non è nelle condizioni di) bere.

Ma con altrettanta nettezza va anche detto che, con l’introduzione del metodo contributivo, i rendimenti della pensione pubblica sono legati all’andamento del PIL e nel medio e lungo periodo, se non si introdurranno significativi correttivi, il perdurare della crisi determinerà un ridimensionamento secco delle prestazioni e si rafforzeranno le tendenze che vogliono rendere sostitutiva e non aggiuntiva la previdenza integrativa. A questo problema, serissimo e scritto nelle cose, occorre dare soluzione.

 (*) Segretario generale Fiom Cgil

 

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