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La strada giusta per la contrattazione della produttivita’

Quando si parla di contrattazione della produttività vengono immediatamente in mente gli accordi aziendali sui premi di risultato. Quelli di noi che li hanno studiati – per quanto mi riguarda fin dalla loro comparsa nella contrattazione, che fu alla fine degli anni Ottanta e comunque prima dell’accordo del ’93 – sanno molte cose di questi accordi: gli indicatori di performance a cui sono collegati, le formule specifiche, l’entità dei premi, le condizioni di distribuzione della retribuzione. E in molti modi hanno tentato di classificarli. Ne sono stati sviscerati le (incerte) proprietà motivazionali e l’impulso dato al sistema di informazione e consultazione dei lavoratori. A suo tempo, non sono state poche le discussioni sollevate in merito all’opportunità del passare dal salario fisso al salario variabile (e, in termini più ideologici, anche in merito alla fine del salario come “variabile indipendente”) anche se, più recentemente, è lo stesso sindacato a far circolare manualetti in cui si spiegano gli indicatori che si possono meglio utilizzare per costruire un buon sistema premiante.

Qualcuno periodicamente si spinge a provare a misurare l’impatto dei premi sulla performance della singola azienda (con esiti incerti) o almeno la relazione che esiste a livello macro tra retribuzioni e produttività (anche qui, con esiti perlomeno ambigui).

Tuttavia, di fronte alla richiesta di riflettere attorno alla produttività e alla sua contrattazione, mi chiedo se abbia senso parlare di “questa” contrattazione… A mio parere no e cercherò di spiegarlo.

Oltre vent’anni di premi di produttività. E la produttività?

Nella contrattazione aziendale della produttività, finora il fuoco è stato sul “retribuire”. Che il premio fosse collegato alla performance – grande intuizione delle relazioni sindacali degli anni Novanta – è via via diventato secondario e simbolico (nel senso che è servito a giustificare il fatto che si trattasse di un “premio” e non semplicemente di un aumento di salario), mentre i fattori che la produttività la determinano sono stati ben poco negoziati. Tutt’al più, sono stati usati come misuratori. In effetti, i sistemi premianti prevedono la scelta degli indicatori più adatti a misurare il raggiungimento (solitamente inerziale) di qualche obiettivo di redditività o di qualità. I sindacati fanno formazione ai rappresentanti aziendali in cui si spiegano gli indicatori. Le aziende propongono l’algoritmo. Le buone formule si propagano dalle aziende maggiori a quelle minori… Tutto bene. Purché non si faccia confusione, pensando che in questo modo si sta contrattando la crescita della produttività: quello che si sta contrattando è solo del salario (per quanto legato ai risultati). In realtà, la negoziazione aziendale non si occupa affatto, o solo molto raramente, di come riorganizzare i fattori produttivi per migliorarli sul serio questi risultati.

Allo stesso modo, considerare – come hanno fatto ripetutamente i nostri governi – la detassazione e la decontribuzione dei premi un modo per aumentare la produttività sembra abbastanza privo di senso, visto che negli accordi i richiami a indicatori di “produttività, efficienza, efficacia, qualità” hanno quasi sempre un valore meramente simbolico. A maggior ragione quando i premi sono costruiti appositamente in funzione di poter accedere agli incentivi di legge: “accordi cosmetici” come sono stati pittorescamente definiti (Antonioli e Pini 2012).

 

Concentrare la contrattazione sugli strumenti per recuperare produttività, non sugli indicatori
Mi sembra chiaro invece che, se si vuole agire sul serio sulla produttività delle aziende, bisogna rispettare una sequenza. Prima definire in che modo, in quali ambiti aziendali, con quali strumenti organizzativi, gestionali, di relazioni di lavoro, etc. si possa recuperare produttività. Dopo collegarvi un sistema premiante. E solo alla fine pensare agli incentivi pubblici, che a questo punto avranno qualche probabilità in più di essere mirati e quindi efficaci.

Le domande che devono porsi le parti sociali – a livello della singola azienda – sono:

1. Come aumentare la performance aziendale?
2. Come collegare la retribuzione alla performance?
3. Come collegare incentivi pubblici alla contrattazione?

In sintesi, il problema attuale delle relazioni industriali a livello d’impresa non è quello di trovare dei buoni indicatori di produttività ma operare in modo da raggiungerla, una buona produttività. Definire semplicemente degli obiettivi di produttività, di redditività o di qualità, come a volte si fa volonterosamente, se tutto resta come prima – il layout, la tecnologia, il sistema di qualità, l’organizzazione delle pause, la rigidità degli orari, il sistema gerarchico – serve assai poco. Al contrario, è l’intero processo di produzione, che si tratti di beni o di servizi, che va vagliato e ottimizzato, fase per fase. Le parti sociali devono seguire tutto il percorso, condividerlo e misurarlo. Ogni azienda deve pianificare il proprio sistema, anche se analisi e diagnosi possono anche essere estese a interi settori e sotto-settori.

In questo modo si ottengono:

aumenti reali e misurabili di produttività
coinvolgimento dei lavoratori e quindi incremento della motivazione e del benessere
partecipazione del sindacato e quindi stabilità e fiducia delle relazioni di lavoro

Nelle esperienze migliori già succede così (a qualche buon esempio di relazioni industriali a livello aziendale faremo riferimento nei paragrafi successivi). Persino nelle pubbliche amministrazioni, nella breve fase di rinnovamento che si è verificata negli anni Novanta (e anche dopo, ma solo in pochi casi virtuosi), è almeno in parte successo così: il sistema premiante è stato la leva – se non il pretesto – per interventi mirati ad alcuni cambiamenti, anche radicali, che erano necessari all’organizzazione aziendale. Bisogna ripartire da queste esperienze.

La sfida della produttività obbliga a innovare radicalmente le relazioni industriali a livello d’impresa
Nel dibattito sulla crisi e sui modi con cui uscirne, l’allarme per la crescente perdita di competitività dell’intero sistema produttivo italiano è in primo piano. Istat ci fa sapere che negli ultimi venti anni la produttività del lavoro italiana è cresciuta pochissimo (lo 0,9% medio annuo tra il 1992 e il 2011) ma soprattutto che la crescita ha cominciato a rallentare a partire da periodi non sospetti ovvero già dal 2003. Che ci troviamo di fronte a problemi di tipo strutturale è reso evidente anche dal fatto che, nello stesso periodo, la produttività del capitale – il grado di efficienza del capitale investito, la qualità del management e della governance aziendale – è addirittura peggiorata (Cipollone 2012). Siccome poi quando si parla di produttività è necessario tener conto anche delle componenti esterne, non va dimenticato che queste ultime appaiono particolarmente critiche nel nostro Paese a causa della bassa efficienza dei servizi pubblici, della mancanza di infrastrutture, della lentezza della giustizia e della farraginosità della burocrazia…

E’ opportuno che le relazioni industriali si facciano carico di tutti i fattori, interni ed esterni, che determinano la produttività. Tuttavia, dato che in questa sede vogliamo aprire una discussione sulla contrattazione aziendale, ci concentreremo sulle componenti su cui le aziende possono avere un controllo diretto: in particolare la produttività del lavoro ma non solo questa. Infatti, la produttività del lavoro (prodotto perora lavorata) dipende da una serie di fattori che vanno dalle competenze dei lavoratori, al know-how complessivo aziendale, dagli investimenti per unità di lavoro all’organizzazione del lavoro e all’efficienza delle strutture aziendali e dei processi.
In modo più ampio, la redditività del lavoro (valore del prodotto per ora lavorata) chiama in causa l’intera struttura aziendale: dal posizionamento competitivo alla valorizzazione del brand, dalle pratiche e capacità manageriali alla innovazione di prodotto, dalla qualità degli inputs alle scelte tecnologiche e alla loro influenza sull’organizzazione e sulla qualità dei prodotti.

Sul governo di questi aspetti – possibilmente di tutti questi aspetti – deve concentrarsi, a mio parere, una “nuova” contrattazione della produttività tra le parti sociali a livello aziendale.
In questo senso, la crisi – e la pressione sul recupero di produttività che ha positivamente innescato – vanno colte come una preziosa opportunità per il lancio di un modo radicalmente nuovo di concepire la contrattazione aziendale e tutto il sistema delle relazioni di lavoro a livello d’impresa.

Quali sono le piste per aumentare le performance delle aziende?

Certamente le relazioni industriali non possono intervenire su tutti i fattori che determinano la performance delle aziende. Su molti di questi però sì. Se guardiamo in senso stretto alla produttività del lavoro, l’elevata correlazione che esiste tra questa e la qualità delle risorse ci richiama l’importanza che hanno ai fini della performance aziendale da un lato il livello di istruzione della forza lavoro e, dall’altro, il volume (negoziabile) degli investimenti formativi: sia quelli più specifici mirati a sviluppare le competenze tecniche di cui l’azienda ha bisogno, sia anche quelli più estensivi indirizzati a migliorare in generale la qualità delle risorse, sviluppando conoscenza dei processi, dei metodi di qualità, capacità di problem solving e auto-responsabilizzazione. Questo aspetto della formazione è stato finora a dire poco sottovalutato dalle parti sociali e dai governi in Italia (mentre va detto per inciso che proprio sugli investimenti formativi si concentrano gli incentivi pubblici previsti dall’accordo sulla competitività recentemente siglato dalle parti sociali in Francia).

Incrementi non indifferenti della produttività del lavoro si ottengono anche attraverso il controllo dell’assenteismo. A questo proposito, va sottolineato che è ben diverso negoziare un incentivo monetario collegato alla riduzione di qualche punto del tasso di assenze, come si usa abitualmente fare nei premi di produttività, rispetto all’analizzare le cause delle assenze e intervenire in modo da farle diminuire. Per esempio, sappiamo che la possibilità di ridurre temporaneamente l’orario di lavoro (part time) o di usufruire di orari flessibili o di giornate di permesso a recupero abbassa drasticamente il tasso di assenza delle madri di figli piccoli. Sappiamo anche che intervenire nel migliorare l’ergonomia di alcune posizioni di lavoro migliora le prestazioni degli operatori e ne riduce le assenze per disturbi muscoloscheletrici (problema, tra l’altro, destinato ad aumentare con l’aumento dell’età di pensionamento). Tutti questi aspetti – il miglioramento delle competenze, le misure di conciliazione, gli interventi sul benessere psicofisico nel posto di lavoro – possono essere parti di un piano di recupero della produttività del lavoro.

Altri interventi possono migliorare l’uso del capitale. Raggiungere una migliore saturazione degli impianti, rendere più fluidi i processi, adattare la programmazione dell’attività produttiva ai cali e ai picchi della domanda di mercato sono obiettivi che possono essere ben supportati da interventi sulla organizzazione del lavoro. Per esempio, l’introduzione di un modello di lean organisation deve portare a sviluppare il lavoro di squadra, che è una modalità di organizzazione del lavoro che presuppone il coinvolgimento degli operatori, lo sviluppo delle loro competenze, un maggiore fungibilità delle diverse posizioni (e che presuppone quindi interventi formazione per aumentare la polivalenza delle competenze). Anche gli investimenti in Information Technology – che hanno un ritorno importante sulla performance aziendale – devono essere accompagnati da paralleli interventi di sviluppo organizzativo e delle risorse. La risposta agli andamenti discontinui della domanda dei mercati è data dalla flessibilità degli orari di lavoro, che può essere negoziata più ampiamente ma in modi che la rendano non penalizzante o addirittura vantaggiosa per chi lavora.

Infine, le capacità del management nell’organizzare la produzione e nel gestire le risorse umane sono altrettanti fattori che influenzano la produttività del lavoro e, sebbene sia difficile che la contrattazione possa intervenire nel migliorare l’accuratezzadella selezione e della formazione del management, essa certamente può intervenire sulla strumentazione usata per la gestione delle risorse umane. Pratiche manageriali orientate a fare crescere i migliori e a collocare le persone giuste al posto giusto, secondo principi di merito, sono cruciali per far crescere i risultati di un reparto o di un ufficio e, indirettamente, hanno un impatto sulla percezione di equità e quindi sulla motivazione dei dipendenti. In un’intervista recente il responsabile HR di McDonald’s includeva la mancanza di attenzione al merito tra i tre principali vincoli alla produttività del lavoro in Italia. Non c’è dubbio che il fatto che chi lavora non abbia certezza – per l’opacità delle regole o, peggio, per le interferenze delle diverse sigle sindacali sulle promozioni – del fatto che se lavora bene le sue capacità saranno sfruttate meglio o sarà promosso a qualche incarico di maggiore responsabilità, è un grave elemento di passivizzazione e demotivazione delle risorse. Allo stesso modo, l’attenzione dei manager a tener conto dei bisogni personali dei dipendenti aiuta a migliorare il clima aziendale ed è un altro elemento importante per migliorare la produttività delle aziende.

Le pratiche di lavoro ad alta produttività (High Performance Workplace Practices)

Da tempo, in USA come in Europa, tra i diversi modi adottati per incrementare la produttività si studiano proprio quelli generati dall’innovazione organizzativa, ovvero dall’introduzione nelle aziende dei nuovi assetti di organizzazione del lavoro e delle nuove pratiche manageriali performanti a cui abbiamo accennato nel paragrafo precedente. E’ interessante concentrarsi sui risultati di questi studi, perché la relazione tra la produttività e il cambiamento organizzativo è indubbiamente uno dei terreni più promettenti per una contrattazione aziendale che voglia contemporaneamente tenere in conto i risultati d’impresa e le condizioni di lavoro. Come ricordava anche Leoni (2012) – che sottolinea l’importanza di “pacchetti integrati” e “ad alto coinvolgimento” di queste pratiche di lavoro – alcuni studi americani attribuiscono addirittura il 30% della crescita dell’industria americana proprio alle HPWP (Lynch 2012).

Con la strategia Europa 2020, l’Europa si preoccupa di ottenere uno sviluppo “smart” attraverso “posti di lavoro di qualità, aziende e settori ad alto valore aggiunto, migliore inclusione sociale attraverso il lavoro”. Le analisi della Fondazione europea di Dublino monitorano periodicamente il raggiungimento di questi obiettivi, attraverso diversi tipi di survey e in particolare attraverso ricerche qualitative sull’innovazione nell’organizzazione del lavoro, iniziate già a partire dal 1997 e periodicamente replicate. Le pratiche di lavoro selezionate da Eurofound come “ad alta produttività” comprendono: lavoro in squadra, formazione, coinvolgimento dei lavoratori nella condivisione delle conoscenze e nella soluzione dei problemi e nuove forme di ricompensa.

L’indagine più recente testimonia che in Europa:

una crescente pressione verso l’innovazione è stata esercitata proprio dalla crisi e soprattutto nel settore manifatturiero
per cambiare, le aziende hanno bisogno di una forte leadership, di una cultura organizzativa che sostenga il processo, di dialogo sociale e di partecipazione dei lavoratori

l’approccio più diffuso al cambiamento, nelle esperienze-pilota analizzate, è stato quello doppio, con una ispirazione manageriale (top-down) all’inizio e un approccio dal basso (bottom-up) nella fase di implementazione delle nuove pratiche .

La conclusione dell’indagine, che conferma altre svolte in precedenza, è che l’uso di queste pratiche – anche singolarmente ma meglio se associate tra loro – ha prodotto incrementi estremamente significativi della produttività del lavoro, riduzione dei costi operativi, maggiore condivisione della conoscenza dei processi produttivi e della soluzione dei problemi (Eurofound 2012).

Nei paragrafi successivi mi soffermerò su due pratiche organizzative che sono l’asse su cui si potrebbe costruire la nuova contrattazione della produttività: il lavoro di squadra e la flessibilità degli orari di lavoro.

Lavorare in squadra ha un enorme impatto sulla produttività ma può anche migliorare la qualità del lavoro e la partecipazione
L’organizzazione del lavoro in teamworking segue l’introduzione del modello della lean

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production, con catena gerarchia ridotta e ampio coinvolgimento dei lavoratori nei processi di lavoro. Il lavoro di gruppo – soprattutto se organizzato in squadre dotate di qualche autonomia – aumenta l’auto-responsabilizzazione dei lavoratori nella ricerca di un miglior funzionamento dei processi, nei piccoli interventi di manutenzione che evitano il fermo-macchina, nel suggerimento di modifiche per migliorare la qualità, nell’ottimizzazione dell’uso dei materiali, nella riduzione degli sprechi e dei costi dell’energia.

Dai risultati della WERS (Workpace Employment Relations Survey) emerge che il 60% delle aziende che organizzano il lavoro in team ritiene di avere una produttività superiore alla media e addirittura il 65% di avere una performance finanziaria superiore alla media (Procter e Burridge 2008), mentre anche altri studi che hanno misurato l’impatto del lavoro in squadra raggiungono risultati analoghi .

Senza andare lontano, Elica – un’azienda italiana che produce cappe aspiranti da cucina – dopo aver introdotto il lavoro di squadra mettendo al centro del suo sistema WCM la partecipazione dei lavoratori e i loro suggerimenti, ha realizzato in un impianto una riduzione dei costi di produzione del 300% in un solo anno (Sidiqui, Allinson, Cox 2012).

Il teamworking trascina tutta l’organizzazione verso una qualità più elevata: allarga la conoscenza dei processi di lavoro, sollecita i lavoratori a risolvere i problemi quando si presentano e in molti casi anche a fornire i loro suggerimenti per il miglioramento continuo. Inoltre, molto spesso l’introduzione del teamworking viene accompagnata da un cospicuo intervento formativo che serve ad incrementare la polivalenza e ha un importante impatto sulla la qualità delle risorse.

C’è quindi da chiedersi perché il lavoro in squadra risulti ancora così poco diffuso in Italia (è stato introdotto a macchia di leopardo e quasi solo nelle multinazionali di casa- madre tedesca o nordica). Dato il grado di fiducia tra le parti presuppone una organizzazione basata su gruppi di lavoro, forse una risposta sta nel nostro modello di relazioni industriali, caratterizzato da una cultura più conflittuale che partecipativa (Campagna e Pero 2011).

La “nuova” contrattazione aziendale per la produttività potrebbe essere una leva per favorire questa forma efficace di organizzazione del lavoro, soprattutto attraverso la diffusione del modello dei gruppi semi-autonomi, che sono quelli dove, oltre ad un impatto positivo sulla produttività, si registra il grado più elevato di soddisfazione del lavoro, di miglioramento della qualità e di riduzione delle assenze (Eurofound 2012).

La contrattazione italiana potrebbe prendere esempio dalla Germania, dove il lavoro in squadra è molto diffuso – soprattutto, ma non solo, nel settore metalmeccanico (a cominciare all’auto) – e dove in molti casi si accompagna a forme di partecipazione dei lavoratori molto ampie, che non coinvolgono solo gli aspetti produttivi ma anche il disegno della distribuzione delle mansioni, la definizione dei ritmi e delle pause, l’orario (e persino i permessi dei componenti della squadra).

La flessibilità degli orari è la pratica organizzativa che ha l’impatto più significativo sulla produttività
La pressione più forte al cambiamento organizzativo a cui le nostre aziende, soprattutto manifatturiere, sono sottoposte in questi anni riguarda la flessibilità degli orari di lavoro. E’ una partita cruciale, visto che molta della competitività delle aziende (specie le esportatrici) si gioca sulla capacità di tener dietro alla variazione della domanda dei mercati. Ed è un punto di snodo organizzativo consistente (e spesso arduo) per le imprese, come si evidenzia anche dagli studi manageriali che testimoniano come, più che in altre pratiche lavorative innovative, la proporzione di dipendenti con orari flessibili sia “fortemente e positivamente correlata a cambiamenti organizzativi radicali” (Beugelsdijk 2008).

Quello che è ormai evidente è che il modello italiano di flessibilità – orari rigidi a cui viene collegato un uso sproporzionato di straordinari – è inadatto a perseguire sia gli obiettivi di produttività (gli straordinari sono spesso di ostacolo all’efficienza organizzativa), sia a maggior ragione quelli di qualità del lavoro. E quindi va cambiato. Questo modello è purtroppo coerente con la strada che gran parte dell’industria italiana ha scelto di percorrere, tentando di recuperare la competitività, invece che attraverso investimenti nel cambiamento organizzativo e nella qualità delle risorse, attraverso la saturazione dei tempi e l’aumento delle ore lavorate. A scapito quindi della qualità del lavoro (e, a volte, anche dell’occupazione).

Riprogettare congiuntamente le organizzazioni introducendo anche orari non-standard (è il caso degli orari ridotti (part-time) nei servizi o anche in sezioni particolari dei processi industriali, della turnistica innovativa, degli orari personalizzati o del lavoro da casa per i professional) comporta qualche studio organizzativo e molta sperimentazione ma può dare risultati insospettabili in termini di saturazione degli impianti, di efficienza dei processi, di just-in-time, di rispetto delle scadenze. Inoltre, quando questi orari sono anche mirati ad incontrare le esigenze dei dipendenti, si aggiungono effetti che vanno dalla riduzione delle assenze e del turn over, al miglioramento della motivazione e del clima organizzativo. Per limitarci a un paio di esempi molto distanti, la riorganizzazione di molti servizi pubblici attraverso l’introduzione di part time lunghi, per esempio quelli aeroportuali e in parte quelli di trasporto, è pienamente riuscita e con ampi recuperi di efficienza. La recente creazione di una turnistica “insolita” (turni fissi 5-13 e 12-20) nel polo logistico di Luxottica, combinandosi meglio con gli orari dei cargo, ha consentito di aumentare considerevolmente i volumi distribuiti dall’azienda e ha incontrato nel contempo anche le preferenze d’orario di gruppi di lavoratori e lavoratrici.

A maggior ragione, va ampliata e migliorata la flessibilità multiperiodale (o plurisettimanale), ovvero il sistema di “superamento e recupero” di orario in coincidenza con i picchi e i flessi della domanda di produzione. La negoziazione qui procede attualmente con la cautela, a volte eccessiva, riservata alle deroghe ma forse, più opportunamente, potrebbe far leva sullo scambio tra esigenze aziendali e bisogni e preferenze dei lavoratori: se si realizzasse questa simmetria – per ora non prevista dai CCNL – i passi avanti anche solo in termini di risparmio sugli straordinari e di qualità del lavoro e conciliazione sarebbero significativi (Pero e Ponzellini 2012). Un’idea di come ancora una volta i nostri sistemi organizzativi e contrattuali “arranchino” nel confronto con la Germania si può avere comparando la filiale italiana e la filiale tedesca di Endress-Hauser (un’azienda metalmeccanica di strumenti di precisione): il contratto aziendale della filiale tedesca prevede un pacchetto di straordinario molto contenuto e destinato alle effettive emergenze mentre le ore di flessibilità multiperiodale sono molte di più di quelle previste dai nostri CCNL ma in compenso esigibili contemporaneamente da azienda e dipendenti (Una Città 2013).

Piani aziendali di produttività condivisi

Per migliorare la produttività delle aziende ci vogliono manager capaci, investimenti da fare, quasi sempre risorse da formare. Bisogna individuare i fattori di successo per la performance delle imprese, verificare le criticità, progettare e pianificare gli interventi organizzativi, le esigenze di flessibilità, le aree di spreco e d’inefficienza, introdurre le innovazioni tecniche, analizzare i cambiamenti da fare nei sistemi di gestione delle risorse umane, nelle norme contrattuali e nelle relazioni impresa-lavoratori… Se le parti sociali condividessero questa proposta, la nuova contrattazione della produttività potrebbe assumere la forma della definizione congiunta di piani di recupero della produttività, da negoziarsi azienda per azienda.

Ma come si possono convincere le imprese ad adottare questa strategia, che significa spostarsi finalmente verso la “via alta” alla competitività? Può servire orientare gli incentivi pubblici verso la progettazione dei piani aziendali di produttività, magari fornendo l’assistenza gratuita di esperti, com’è previsto dall’Accordo francese (e come già abituale in Germania).

E il sindacato? E’ chiaro che il sindacato debba partecipare perché le poste in gioco dell’occupazione e della qualità del lavoro sono oggi più importanti che mai. E perché un progetto di cambiamento organizzativo richiede stabilità delle relazioni di lavoro, fiducia, condivisione degli obiettivi… Tuttavia, è innegabile che, ad oggi, le relazioni sindacali sono un punto delicato di un progetto di questo genere. E’ un problema del sindacato aumentare la produttività delle imprese? Il sindacato deve chiederselo e darsi una risposta. Che si può fare se in alcuni ambienti sindacali “produttività” evoca solo un aumento dello sfruttamento, “partecipazione e coinvolgimento dei lavoratori” un cedimento agli interessi delle imprese, “negoziazione della flessibilità organizzativa” il timore di perdere le tutele del CCNL? (Anche se poi l’esperienza dice che i rappresentanti aziendali di fronte a concreti obiettivi di riorganizzazione sono generalmente disponibili a negoziare.) Come rimontare la mancanza di fiducia – su cui il sistema delle imprese ha ampie responsabilità – che caratterizza le relazioni industriali italiane? Chi potrebbe giocare un ruolo di garante?

Per essere realisti, va aggiunto che in molti casi il sindacato ha perduto la competenzasull’organizzazione del lavoro e le capacità di contrattarla: quindi un piano per la produttività deve verosimilmente partire da lì, da incontri di informazione e consultazione delle RSU e dalla formazione delle competenze dei negoziatori. E poi da un lungo lavoro comune tra management e sindacato, che includa il coinvolgimento capillare dei lavoratori attraverso un’informazione continua e trasparente, la formazione alle nuove competenze trasversali richieste dal lavoro di gruppo e dagli altri cambiamenti organizzativi, agili modalità di raccolta delle preferenze e dei bisogni dei dipendenti, chiarezza delle regole e delle competenze decisionali dei diversi attori, monitoraggio costante e visibile a tutti degli andamenti della produttività. Così già funziona nelle aziende dove le cose funzionano. E forse il supporto pubblico potrebbe consistere proprio nel fornire i sostegni preliminari alla definizione del piano: sviluppo delle competenze necessarie ad entrambe le parti negoziali, assistenza di esperti, formazione capillare dei lavoratori.

Come collegare il sistema premiante

Solo quando si è messo in piedi il piano di recupero della produttività, alla implementazione (tramite indicatori di processo) e agli output (tramite indicatori di risultato) di questi interventi si può collegare un buon sistema premiante.
Ciò che è importante ribadire è che, per ottenere i risultati consistenti di produttività che sono necessari al nostro sistema produttivo non basta influenzare il comportamento discrezionale del lavoratore attraverso incentivi retributivi, come dicono i manuali sui sistemi premianti. Come abbiamo cercato di spiegare, bisogna partire da più lontano: migliorare i processi, ottimizzare l’organizzazione del lavoro in funzione sia delle esigenze del mercato che di quelle dei lavoratori, investire in formazione e addestramento, potenziare la gestione delle risorse migliorando la partecipazione e dando trasparenza e merito alla gestione delle carriere.

Su queste premesse, è naturale che siano da privilegiarsi, rispetto ad indicatori di redditività, gli indicatori gestionali che danno visibilità di obiettivi di performance facilmente controllabili da chi lavora. Solo per fare un esempio, l’ultimo accordo Ferrero collega il 70% del premio ad indicatori di qualità (scarti, resi, igiene, freschezza) (Olini 2012): il sistema premiante comunque non avrebbe senso se in primo piano non ci fosse lo sforzo collettivo a migliorare “tutti” gli aspetti del processo in modo che non si generino questi problemi. D’altra parte, come è stato osservato, la caratteristica dei sistemi retributivi flessibili è proprio quello di essere sempre “in progress: un esperimento da adeguare continuamente in rapporto all’introduzione dei cambiamenti organizzativi e tecnologici e non un dato acquisito da amministrare” (Treu 2010).

Tra l’altro, anche il sistema di remunerazione – quindi lo scambio con la produttività realisticamente programmata – può essere costruito in modo meno banale. Non sempre la risposta può essere solo salario, a volte una remunerazione gradita ai lavoratori (o ad alcuni lavoratori) può essere in termini di tempo o di autonomia (come negli accordi sulla conciliazione), di benefits non salariali (come negli accordi di welfare), di miglioramento del capitale di competenza e di opportunità formative. Il complesso accordo di Luxottica sul welfare aziendale è basato su un patto con i lavoratori per la produttività: gli aumenti di qualità producono incrementi delle risorse messe a disposizione nel pacchetto di welfare aziendale.

Per finire, un commento alla proposta Antonioli-Pini

Può darsi che stabilire a livello nazionale un tasso di produttività programmata, secondo la proposta Antonioli-Pini, si riveli più efficace per la regolazione dei salari che stabilire un tasso d’inflazione programmata o analoghi meccanismi. Ma questo non è il punto, credo. Indubbiamente, un traguardo concertato di produttività ha il potere di rendere visibile un messaggio che invita a uno sforzo complessivo il singolo settore o l’intero sistema Paese e può quindi attivare più agevolmente le indispensabili componenti sistemiche della produttività, come la scuola, la formazione, la ricerca e sviluppo, l’innovazione…

Applicare lo stesso sistema al livello aziendale mi sembra tuttavia insufficiente (se non “cosmetico”): infatti, non è scontato che stabilire degli obiettivi di produttività serva ad ottenere veramente aumenti di produttività, come si vede dal fatto che finora gli accordi sui premi – che in larga misura si appoggiano su sistemi di questo tipo – sembrano non aver raggiunto lo scopo. Inoltre partire da un obiettivo complessivo e non da un “piano” corredato da analisi specifiche e da strumenti ben precisi, può portare ad aumenti dicorto respiro magari ottenuti semplicemente intensificando lo sfruttamento o riducendo gli organici.
Come ho cercato di argomentare in queste pagine, aumentare la produttività non può prescindere da un’analisi seria che deve per forza farsi azienda per azienda (al massimo, comparto per comparto) che consenta di individuare i fattori che tengono bassa la produttività e quelli che al contrario possono farla aumentare. Il problema è che spesso le aziende o non hanno gli strumenti di analisi, o non sono in grado di fare gli investimenti necessari, o trovano nel sindacato un ostacolo a mettere in atto gli interventi che sarebbero utili. Per le parti sociali, concertare la produttività significa prendere il toro per le corna rispetto a tutti e tre questi problemi.

(*) Sociologa del lavoro, già docente di Relazioni industriali e di Organizzazione e gestione delle risorse umane.

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