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La strategia digitale di Draghi: un campo largo in open source

La tournée americana della presidente del Consiglio Meloni è stata la più esplicita e discriminante risposta al rapporto Draghi .

Il capo della maggioranza del governo ha completamente rovesciato il paradigma strategico del lavoro dell’ex presidente della BCE. Tanto Draghi ha insistito sull’autonomia dell’Europa dalle piattaforme tecnologiche e finanziarie americane, come premessa e conseguenza di una nuova bussola di politica economica che dovrebbe spingere il vecchio continente a trovare competitività e ruolo proprio distanziandosi dalle rotte delle potenze atlantiche, tanto Giorgia Meloni ha voluto ancorare il suo esecutivo, ma più ancora un filone politico culturale che sbrigativamente denominiamo sovranismo conservatore ad una piena identificazione con i monopoli statunitensi.

Quanto sta accadendo nella corsa alla Casa Bianca, ci spiega bene come ormai la geografia politica globale veda componenti consistenti del dispositivo industriale e tecnologico di quel paese stabilmente schierati con le forze più oltranziste capeggiate da Donald Trump.

Da una parte si chiarisce l’equivoco sul libertarismo della Silicon valley, dall’altra si scompone ancora di più lo scenario del dollaro. Una scissione che vede separarsi componenti essenziali del nuovo partito sovranista digitale, guidato da Elon Musk, con spezzoni consistenti del circuito tecnologico di Wall street, come l’elenco dei sottoscrittori della candidatura di Trump documenta, e dall’altra componenti più         esplicitamente liberal come alcuni settori legati al mercato metropolitano, delle grandi città del mondo, come Microsoft, Facebook ma anche il fondo finanziario BlackRock.

Una frattura che ci pare di cogliere persino in casa nostra, con l’annuncio delle pulsioni politiche dei rampolli di Berlusconi, che sembrano interessati a mettere in campo un progetto di radicalismo moderato, che gli permetta di accreditarsi in Paesi come Francia e Germania, dove hanno piani di forte espansione aziendale.

Non ha caso Marina Berlusconi ha incontrato Draghi proprio all’indomani della presentazione del suo piano, che ci ha proposto più di una intrigante sollecitazione.

 “L’Europa si è lasciata sfuggire la rivoluzione digitale trainata da Internet e gli aumenti di produttività che ne sono conseguiti: infatti il divario di produttività fra EU e USA è in gran parte dovuto proprio al settore tecnologico”. E’ uno snodo chiave dell’elaborazione dell’ex inquilino di Palazzo Chigi, che ci mostra chiaramente quale sia l’ispirazione che lo guida.

I dati su cui poggia il documento parlano chiaro: proprio la fragilità della domanda aggregata, in particolare quella dei grandi spezzoni pubblici, come scuola, sanità e difesa, rendono il comparto digitale e, ma più in generale l’intera architettura economica dell’Unione del tutto inadeguato alla competizione globale con Stati Uniti e Cina. Solo 4 delle 50 grandi imprese che guidano il mercato tecnologico sono europee. Ma soprattutto è la subalternità complessiva alle tutele americane sia in campo appunto digitale e sia della sicurezza, che Draghi mette in discussione.

Il nodo che un uomo della cultura atlantica di Draghi è costretto a mettere in discussione è specificatamente Il legame fra il deficit computazionale e le altre due emergenze denunciate dal rapporto quali la questione energetica indotta dalla decarbonizzazione e le strategie di difesa. Un deficit che Draghi considera sotto il profilo dell’efficienza e dello sviluppo potenziale prima che di una visione culturale o addirittura ideologica. Per recuperare margini di dinamismo nella produzione e di equilibrio nei servizi, si sostiene nel report, è necessario un protagonismo europeo forte e discontinuo rispetto alle politiche americane. 

Si stanno tracciando ora i confini delle future supremazie. Non a caso proprio nel suo dibattito con Trump, la candidata democratica Kamala Harris ha esplicitamente indicato la supremazia americana nel quantum computing e nell’A.I.

Questa constatazione è un dato non da poco per un atlantista convinto quale è stato   Draghi, in tutta la sua carriera.  Tanto più che parla nel pieno di un ulteriore tornante   che ci sta conducendo ad una nuova metamorfosi tecnologica, con l’avvento delle risorse di intelligenza artificiale che minacciano di allargare ancora di più il fossato che divide la comunità europea da Washington e Pechino. 

Non sono in discussione solo i primati fra sistemi o ritrovati tecnologici, quale il computer più potente del mondo, o il data center meno ingombrante. Stiamo parlando della sanità, o della scuola, o degli assetti delle fabbriche manufatturiere che sempre più saranno organizzate attorno a queste risorse computazionali.

Basti pensare che solo nel 2021 l’insieme delle imprese private europee ha speso in ricerca ed innovazione 270 miliardi in meno delle imprese americane. Il buco nero   individuato è il legame fra sistema di ricerca e formazione, gli apparati universitari in sostanza, e il mondo delle aziende. Un legame che non produce valore né rispetto alle attività accademiche né tanto meno rispetto alla semina industriale. Per il nostro paese torna la sentenza pronunciata nei giorni scorsi dal Governatore della Banca d’Italia che ha denunciato che l’Italia è l’unica nazione europea a spendere per gli interessi sul debito più di quanto non investa nella scuola. Quei pochi casi in cui il corto circuito funziona, in mancanza di una strategia di copertura e sostegno, si trasferiscono in California, come ha fatto più di un terzo degli unicorni, le start up che arrivano a superare un miliardo di capitalizzazione.

In nodo dunque è di ricostruire il dinamismo europeo all’insegna di un keynesismo tecnologico. Non a caso Draghi ha parlato di risorse da impegnare, circa 800 miliardi di euro all’anno, equivalenti ad almeno il doppio del piano Marshall che rimise in pieni i paesi  che uscivano dalla guerra. 

Una traccia che la sinistra dovrebbe cogliere ed approfondire: un’Europa che investa sulla sua autonomia per svilupparsi e non per affermare questioni ideologiche. Ma se dobbiamo mettere in campo una quantità tali di risorse pubbliche che strategia dobbiamo seguire? Dobbiamo riprodurre il modello americano, sostituendo al venture capital privato le finanze comuni oppure dobbiamo mutare completamente direzione rendendoci conto che la Silicon Valley non è un sistema riproducibile? 

Qui il rapporto diventa quanto mai vago e generico.  Infatti è questo il punto di rottura su cui ricostruire prospettive e alleanze socio politiche: chi sono i soggetti portanti di questa strategia che vede nel quantum computing e nell’intelligenza artificiale una nuova fase di ristrutturazione delle relazioni personali e produttive? Il grande assente nell’elaborazione di Draghi è l’open source, una strategia che sta già riclassificando lo stesso mercato americano, aprendo spazi nella personalizzazione e finalizzazione degli algoritmi generativi di rilievo , dando all’offerta tecnologica flessibilità e  spazi di riprogrammazione artigiana. 

SU questo sarebbe indispensabile mettere in campo le voci della sinistra a partire dalle forze organizzate e dal sindacato, ma anche dalle associazioni professionali e dal mondo della ricerca. Il campo largo non potrà non essere un campo digitale.

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