I punti più importanti del decreto legge 66/2014 sono di natura fiscale: il bonus per i lavoratori dipendenti, la riduzione dell’Irap, l’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie, l’aumento della tassazione sulla rivalutazione delle quote di Banca d’Italia in possesso delle banche, il finanziamento del fondo per la riduzione del cuneo fiscale.
Le misure sono in parte una tantum, in parte strutturali (rendite finanziarie); sta in questo il principale limite del decreto. Per il fondo per la riduzione del cuneo fiscale sono stanziati e coperti per il 2015 2.685 milioni di euro, 4.680 per il 2016. Per garantirne la strutturalità del bonus bisognerà coprire con la legge di stabilità la parte restante rispetto ai dieci miliardi di costo in ragione d’anno e cifre maggiori per estenderlo.
In merito agli 80 euro, credo che l’affermazione di Landini di non essere mai riuscito ad ottenere un aumento netto in busta paga di 80 euro in una sola volta, ponga fine a ogni polemica sul suo valore (chi ha fatto sindacato e concluso contratti ne é ben consapevole).
Parte della copertura del bonus per il 2014 deriva dall’aumento della tassazione sulla rivalutazione delle quote di Banca d’Italia possedute dalle banche. Il decreto del governo ha portato dal 12% al 26% la tassazione su questa rivalutazione con una maggiore entrata prevista di 1.794 milioni di euro per il 2014. La decisione di procedere alla rivalutazione delle quote di Banca d’Italia, operata dal governo Letta, era stata dettata dalla necessità di compensare le banche per il “prestito” forzoso introdotto con l’aumento al 130% dell’acconto d’imposta da versare nel 2013, aumento reso necessario per trovare le coperture per il mancato pagamento della seconda rata dell’IMU. Se questa era la ragione del provvedimento, i suoi contenuti specifici costituivano un indubbio vantaggio per le banche che hanno goduto di una rivalutazione delle quote da loro possedute pari a 48.000 volte, senza aver svolto negli anni alcuna attività in merito e senza aver minimamente partecipato in termini di risorse aggiuntive rispetto a quelle inizialmente messe, e che avranno la possibilità di percepire in futuro dividendi pari al 6% del capitale e potranno vendere al nuovo valore le loro quote.
L’aumento dell’aliquota al 26% ridimensiona il vantaggio per le banche e, del resto, se si porta l’aliquota di tassazione delle rendite finanziarie al 26%, sarebbe illogico e iniquo lasciare alle banche un’aliquota del 12% su di una rivalutazione che non è mai stata il risultato di una loro attività.
Molti lamenti si sono alzati a fronte dell’aumento della tassazione delle rendite finanziarie, con l’innalzamento dell’aliquota dal 20 al 26%. Come spesso accade molti di quelli che hanno scritto in merito sono soggetti che, per i loro presumibili redditi e relativi risparmi, sono colpiti dal provvedimento. E’ naturalmente lecito che critichino un provvedimento che li colpisce. Meno lecito che si critichi la norma perché colpirebbe le vecchiette e i risparmi dei pensionati poveri ed è scorretto sommare la tassazione delle rendite all’imposta di bollo che costituisce una tassa sul patrimonio.
La tassazione sulle rendite colpisce i “redditi” da capitale, interessi, dividendi e capital gains. Se questi redditi non ci sono o sono minimi, l’aumento dell’aliquota di tassazione produce effetti nulli o minimi. Se ci riferiamo alle vecchiette o ai pensionati poveri, ma anche a molti giovani precari o comunque a famiglie con redditi bassi e medio bassi con risparmi contenuti e depositati in conto corrente, l’effetto dell’aumento dell’aliquota è poco più che avvertibile anche per l’ammontare molto basso degli interessi riconosciuti dalle banche. Se ipotizziamo un deposito di 5.000 euro con interessi dello 0,1%, l’incremento dell’aliquota produrrà un aggravio d’imposta di 0,3 euro l’anno; nel caso di un deposito di 10.000 euro con lo 0,15% d’interesse, l’aggravio d’imposta sarà di 0,9 euro; nel caso di deposito di 30.000 euro con un tasso d’interesse dello 0,3%, l’aggravio sarà di 5,4 euro. Anche ipotizzando in quest’ultimo caso un interesse dell’1% (ma sfido chiunque a trovare conti correnti con questo tasso) si arriva a un aggravio d’imposta di 18 euro annui.
Il 42% dei depositi non supera i 50.000 euro. Su questi depositi l’effetto del decreto sarà minimo e tendente a zero.
Certo per chi ha conti di deposito l’aumento è maggiore. Supponendo depositi di 50.000 o di 100.000 euro con interesse del 2,5% (un po’ al limite oggi), abbiamo un incremento di tassazione rispettivamente di 75 e di 150 euro. E se uno ha risparmi maggiori? Allora usciamo dalla categoria delle “vecchiette e dei pensionati poveri” ed entriamo nelle categorie di ceto medio-alto e di ricchi. Facciamo un salto, passiamo a 300.000 euro in conti di deposito/azioni/obbligazioni e altro, avremo un aumento di tassazione di 450 euro annui, con 1.950 euro d’imposta su 7.500 d’interesse, invece dei 1.500 precedenti. Scandaloso, insopportabile? Se lo stesso soggetto, lavoratore o pensionato, avesse un reddito superiore a 55.000 euro d’imponibile, su di un aumento annuo di reddito pari a 7.500 euro verserebbe al fisco il 41%, ossia 3.075 euro. Con un reddito tra i 28.000 e i 55.000 euro su di un aumento retributivo di qualsiasi ammontare anche questo soggetto subirebbe (considerando la diminuzione della detrazione) un taglio percentuale analogo.
L’aumento della tassazione delle rendite usato non per aumentare le entrate dello stato ma per finanziare, sia pure parzialmente, la diminuzione dell’Irap e il bonus fiscale è una misura di riequilibrio delle imposte a favore del lavoro, riequilibrio più volte invocato. E’ inoltre una misura equa dal punto redistributivo perché incide prevalentemente sugli strati più ricchi della popolazione.
In base alla distribuzione della ricchezza finanziaria, il Tesoro stima che dei 2.800 milioni di euro di maggiori entrare derivanti dal provvedimento 1.500 ricadranno sul decile più ricco della popolazione e solo 200 sui cinque decili più bassi.
Quindi va tutto bene in questa parte del decreto Renzi? A mio avviso no. Negativo, anche se comprensibile, il fatto che l’aumento non abbia riguardato i titoli del debito pubblico. La differenza di tassazione è ora rilevante e non ha giustificazione dal punto di vista economico. Certo l’estensione dell’aumento a Bot e Btp avrebbe colpito solo le famiglie, avrebbe potuto determinare una semplice partita di giro (aumento della tassazione e aumento dei tassi) e siamo in campagna elettorale. Ci sono quindi giustificazioni, ma è una differenza che in futuro dovrà essere ridotta. Vi è poi una differenza tra investitori qualificati e non. Chi tra i primi possiede pacchetti azionari superiori al 2%, portano in tassazione Irpef il 49,72% dei dividendi azionari. Se sono tassati con un’aliquota Irpef del 43% (difficile immaginare possessori di pacchetti azionari superiori al 2% di società quotate con aliquote più basse) i dividendi sono tassati complessivamente con un’aliquota del 21,38%, contro il 26% con cui saranno ora tassati piccoli e medi azionisti. E’ un vantaggio non giustificabile; è augurabile che in parlamento ci sia una modifica in merito, aumentando la quota di dividendi che i grandi devono portare in Irpef.
Certo, alla tassazione delle rendite si affianca l’imposta di bollo del 2 per mille. L’insieme porta a livelli elevati la tassazione del risparmio, tra imposta sul patrimonio e imposta sul reddito. Ma “una” patrimoniale è stata spesso invocata anche da chi oggi critica il provvedimento del governo e il bollo sui depositi e i titoli è una patrimoniale.
Nel quadro di una riforma complessiva dell’Irpef e di tutto il sistema di tassazione italiano che porti a una redistribuzione complessiva tra imposte sul lavoro e altri cespiti e tra redditi e ricchezza, andrebbe certamente affrontata la tassazione complessiva del risparmio, magari valutando l’ipotesi di portare in Irpef i redditi da capitale. E’ vero che buona parte dei paesi europei ha preso un’altra strada, ma in alcuni e negli USA, interessi e dividendi rientrano nell’imposizione sui redditi.
L’Ufficio studi del Senato ha eccepito sulle coperture del decreto. Gli Uffici studi di Camera e Senato sono noti per la loro serietà e capacità, ma alla lettura della notizia mi è venuta subito in mente una celebre frase di Andreotti (a pensare male…). Che ci sia qualche legame tra questa osservazione e l’introduzione di un tetto di 240.000 euro per le retribuzioni del Pubblico Impiego e l’invito di Renzi a Camera e Senato di far proprio questo vincolo?