Un sintetico (e non esaustivo) excursus storico offre una panoramica su quale giustizia si potessero attendere le donne vittime di abusi sessuali o rapite e costrette a matrimoni riparatori sulla base delle legislazioni che si sono susseguite in Italia da secoli. Tale studio pone in risalto come sul tema si siano alternati momenti in cui la donna, almeno a parole, era considerata degna di tutela e di considerazione, ad altri nei quali tali esigenze non vennero riconosciute o assai poco riconosciute soprattutto in nome di un maschilismo sempre imperante nelle coscienze.
In epoca augustea la parola d’ordine dell’imperatore Augusto era combattere la denatalità e ristabilire l’ordine e la morale delle famiglie che aveva come corollario la repressione degli adulteri: ne fanno fede la lex Iulia de maritandisordinibuselalex Iulia de adulteriiscoercendisapprovatealla fine del I secolo a.C.
La prima riguardava la limitazione dei matrimoni tra diverse classi sociali e puniva i celibi che venivano per tale scelta sottoposti a tassazione; la seconda puniva non solo l’adulterio ma anche tutte le relazioni sessuali intercorse tra persone libere al di fuori del matrimonio: ciò è reso evidente dal linguaggio adoperato in quanto stuprume adulterium sono termini usati indifferentemente e stanno a significare relazione sessuale fuori del matrimonio.
La legislazione dunque puniva a vario titolo entrambi i partners per il semplice fatto della relazione sessuale sulla base del solo dato oggettivo; in altre parole, la donna che avesse subito una violenza doveva sottostare ad un giudizio penale e solo in quella sede cercare di convincere il giudicante che lostuprum/adulterium era avvenuto contro la sua volontà.
I più acuti giureconsulti vissuti tra il I e il II secolo d.C. rilevarono una lacuna nella legge sulla repressione degli adulteri sia perché essa trascurava la coartazione cui poteva essere sottoposta una donna sia perché assimilarono la fattispecie della violenza sessuale al rapimento di donne e fanciulli sanzionato autonomamente da un’altra legge (lex Iulia de vi publica).
Pertanto, una donna che aveva subito violenza sessuale dovette attendere i responsi dei giureconsulti più illuminati Marciano, Ulpiano e Papiniano per essere considerate vittima di tale delitto che prevedeva l’esilio a carico del condannato. Secondo il giureconsulto Giulio Paolo – vissuto nel II-III secolo d.C.- la pena per violenza sessuale consumata era la pena capitale e la pena della deportazione in un’isola nel caso di condanna per tentata violenza sessuale.
L’imperatore Costantino nel 320 d.C. punì severamente con la pena capitale gli autori del rapimento delle donne soggette alla potestà genitoriale (nonché i loro fiancheggiatori quali le governanti delle ragazze), che ritenne corresponsabili se consenzienti al ratto e punite allo stesso modo dei loro rapitori. ovvero punibili sia pure con una sanzione mitigata, l’esclusione dalla successione ereditaria, se non avevano opposto adeguata resistenza.
Proprio perché ritenne il ratto un crimine da perseguire senza alcuna indulgenza, Costantino vietò categoricamente il cd. “matrimonio riparatore” punendo severamente i genitori della rapita che vi avessero consentito.
Nella legislazione di Costantino si assiste ad una implacabile severità nei confronti dei rapitori e di quanti li avevano favoriti o quanto meno non ostacolati, tuttavia tale rigore non era direttamente riferibile alla tutela della donna quanto a ragioni di ordine delle famiglie e in genere di ordine pubblico.
Per queste ragioni le donne continuavano ad essere discriminate in quanto considerate inattendibili.
La situazione cambiò quando Giustiniano divenne imperatore. Egli considerò il ratto un vero e proprio crimine contro la persona senza alcuna distinzione in base alla condizione sociale e allo status della donna; in altre parole, la donna era la vittima e il rapitore l’autore di un delitto così grave da meritare la pena di morte al pari di un omicida. Inoltre il patrimonio del condannato doveva essere confiscato a favore della donna rapita.
Giustiniano confermò la condanna dei fiancheggiatori e il divieto assoluto del “matrimonio riparatore” punendo anche i familiari della donna che l’avessero consentito o avallato.
Dopo Giustiniano la situazione politica dell’Occidente precipitò e in Italia calarono i Longobardi.
Dapprima l’Editto di Rotari del 643 d.C. sanzionò il rapimento di vergini o vedove con multe di varia entità, metà delle quali spettavano alle donne rapite; viceversa il ratto della moglie altrui era punito con la pena di morte.
Nel periodo carolingio Ludovico il Pio aggiunse alle pene già previste la sanzione dell’esilio del rapitore.
Un duro colpo alla severità manifestata da Costantino e da Giustiniano riguardo al divieto del “matrimonio riparatore” lo si deve ad alcune decisioni canoniche secondo cui, se un matrimonio nullo per vizio di consenso poteva essere sanato con il consenso successivamente espresso, altrettanto doveva valere per il matrimonio tra rapitore e rapita qualora quest’ultima fosse stata consenziente.
Malgrado la Chiesa considerasse il ratto un grave crimine, l’introduzione di numerose eccezioni al divieto di celebrare il matrimonio riparatore indeboliva grandemente ogni elemento deterrente.
Il quadro non cambiò molto nell’epoca dei Comuni, ognuno dei quali legiferava in modo proprio il tema della violenza sulle donne. Per non dire poi dei principi dello iuscommune – derivato dal diritto romano attraverso la compilazione giustinianea – che era considerato diritto universale che concorreva dunque con le normative comunali. A titolo di esempio, va segnalato che a Roma gli StatutaUrbis del 1363 comminavano la pena di morte per impiccagione a chiunque avesse commesso il crimine di ratto di fanciulli e fanciulle sia per libidine sia per ridurli in schiavitù sia per chiederne il riscatto in cambio della loro restituzione.Pertanto, nei secoli brevemente esaminati una donna rapita e/o violentata poteva in un caso trovare adeguata giustizia; in un altro non essere ritenuta attendibile a causa della sua volubilità e leggerezza di giudizio; in un altro assisteva umiliata ad una sentenza che condannava l’aggressore al pagamento di una multa; in un altro riusciva a riscuotere solo una parte della multa; in un altro doveva dimostrare ad ogni pie’ sospinto la sua onestà; in un altro assistere beffata all’assoluzione dell’imputato non essendo riuscita a dimostrare la propria innocenza.
Le cose andarono diversamente nel Mezzogiorno d’Italia a partire dalla prima metà del XII alla metà del XIII secolo allorquando Ruggero II d’Altavilla, una volta consolidato il suo potere sui territori dell’Italia meridionale e sulla Sicilia, li riunificò nel 1130 assumendo il titolo di re di Sicilia e nel 1140 promulgò un corpo di leggi definite Assise di Ariano.
Ruggero sancì l’obbligo della pubblicità del matrimonio (grosso modo assimilabile alle pubblicazioni, che solo nel 1215 vennero rese obbligatorie dal Concilio Lateranense IV) sia per dare certezza ad unioni che si basavano sulla convivenza sia per consentire agli interessati di segnalare impedimenti ostativi alla celebrazione del matrimonio stesso. Re Ruggero stabilì poi che il matrimonio per essere valido dovesse essere celebrato davanti ad un sacerdote il quale per quell’atto era assimilato ad un ufficiale di stato civile ed anche in questo caso precorse i tempi se è vero che solo nel 1563 nel corso del Concilio di Trento il decreto Tametsi stabilì a pena di nullità che il matrimonio doveva essere celebrato davanti al parroco in presenza di due testimoni e che era necessaria la firma di entrambi gli sposi in un apposito registro.Per quanto concerne il tema della violenza sulle donne re Ruggero, dimostrando sensibilità e saggezza, vietò l’uso della violenza nei confronti delle prostitute alle quali impose soltanto di non coabitare con donne di buona reputazione.
Ma è con Federico II di Svevia che si assiste ad una netta inversione di tendenza a favore della tutela delle donne, unica nella storia.
L’imperatore Federico infatti, oltre a recepire la legislazione normanna ereditata dai suoi avi materni, volle a sua volta innovarla in modo significativo.In primis, abolì l’istituto del duello fino ad allora praticato come strumento per la definizione dei processi riguardanti la violenza esercitata sulle donne considerandolo un danno in aggiunta alla sua aleatorietà.
Conseguentemente, una volta abolito il duello, dovette disciplinare il processo indiziario, legittimando i giudici nei casi di flagranza ademettere sentenza di condanna a pena capitale senza chiedere il suo assenso.Quando invece la prova non era evidente elencò gli elementi che potevano consentireil riconoscimento della colpevolezza: l’attentato alla pudicizia di una donna mediante gesti o altri comportamento, il rifiuto di costei reiterato per tre volte unitamente all’intimazione di astenersi da simile condotta; le grida della donna e le sue invocazioni di aiuto durante la colluttazione; la fuga dell’uomo dalla casa della donna urlante; la sopraffazione e la coartazione della donna e le grida della stessa prima che potesse diffidare l’aggressore. In questi casi Federico II stabilì che la causa, pienamente discussa e corredata dalle prove predette o da altre simili, fosse rimessa al suo giudizio affinché il processo avesse la dovuta conclusione attraverso il giudizio nella sua autorità ricevuta dalla mano di Dio.Contestualmente l’imperatore decise che l’accusato fosse nel frattempo affidato alle fedele custodia di garanti o ristretto in un carcere.
Relativamente al rapimento di vergini e di donne coniugate Federico si uniformò alle costituzioni dei predecessori Costantino e Giustiniano punendo tale crimine con la pena capitale e – sempre richiamandosi ai citati imperatori – considerò del tutto decadute le consuetudini fino ad allora esistenti in diverse parti del Regno di Sicilia secondo cui si permetteva ai rapitori di sottrarsi alla pena capitale o sposando la rapita o dandola in sposa ad altri: in altre parole Federico II abolì il cd. “matrimonio riparatore” considerandolo un’ulteriore offesa per la donna rapita trattata alla stregua di merce da comprare o da scambiare con altri acquirenti.
Tuttavia, dove Federico II raggiunge l’apice della giustizia è nel trattamento delle prostitute alle quali, in molti statuti comunali italiani ed europei non veniva riconosciuta alcuna tutela degna di questo nome. Nel confermare e fare propria una costituzione promulgata dall’antenato Guglielmo di Altavilla, egli così si esprime: “Anche le sventurate che per i turpi guadagni, sono considerate prostitute, godano della nostra benevolenza. Ci siano grate del fatto che nessuno le possa obbligare, contro la loro volontà, a soddisfare il suo desiderio. Siano condotti all’estremo supplizio i violatori di questa disposizione generale, confessi e colpevoli”.
Inoltre Federico sanzionò con una forte multa tutti coloro che non avessero prestato aiuto o soccorso ad una donna che invocava aiuto nel corso di una violenza, fatta eccezione per gli zoppi e i sordi; mosso invece dall’esigenza di garantire a tutti un “giusto processo” istituì “ante litteram” una forma di gratuito patrocinio in favore delle vedove, degli orfani e degli indigenti ampliando di gran lunga le agevolazioni disposte dall’imperatore Costantino quasi novecento anni prima.
Di converso, contrastò con la massima severità la malizia di non poche donne che per raggiungere obiettivi illeciti o per vendicarsi di torti, veri o presunti, presentavano false denunce di violenza sessuale allo scopo di farsi sposare o di estorcere denaro ai presunti aggressori in cambio del ritiro delle accuse: stabilì che la donna fosse condannata a morte perché “percepisca di cadere nella fossa preparata per altri” .
In sintesi, Federico II considerò i delitti di ratto e di violenza sessuale come crimini contro la persona e abolì il matrimonio riparatore anticipando di secoli le legislazione italiana.
In tema di matrimonio riparatore una via intermedia fu percorsa da Eleonora d’Arboreache nella veste di giudicessa (questo era l’appellativo che le competeva in quanto sovrana del giudicato omonimo) introdusse tra le ordinanze “sui furti e sulle malefatte”, la norma che stabiliva che qualora un uomo avesse usato violenza sessuale su una donna sposata e fosse stato riconosciuto colpevole era condannato a pagare un’ammenda di cinquecento lire (cifra molto considerevole per l’epoca) e che, in caso di mancato pagamento entro quindici giorni, avrebbe subito l’amputazione di un piede (“segad’unopee pro modu ch’illuperdat”).
Se la donna fosse stata nubile l’ammenda scendeva a duecento lire ma l’uomo era tenuto a chiederla in sposa; tuttavia il matrimonio sarebbe avvenuto soltanto se la donna fosse stata consenziente.
Nel caso di rifiuto della proposta di matrimonio, il colpevole era invece obbligato a farla maritare fornendole una dote commisurata alla condizione sociale della donna stessa e del suo futuro sposo: ciò detto, nel caso di inottemperanza a tale obbligo, il reo era soggetto all’amputazione del piede
Per la violenza commessa su donna vergine erano poi previste una pena e un’ammenda ma il colpevole non aveva l’obbligo di sposare la sua vittima.
In tema di matrimonio riparatore è rilevante la posizione assunta dal Concilio di Trento che nella Sessione XXIV, cap. VI “Sulla riforma del matrimonio” affermò:“Ha deciso il Sinodo che non possa sussistere un valido vincolo matrimoniale tra rapitore e rapita fino a quando costei rimanga nella potestà del primo, ragione per la quale, se la rapita abbia acconsentito a prendere l’uomo per marito quando invece si trova lontana dal rapitore e collocata in luogo sicuro e libero, allora il rapitore può legittimamente prenderla in moglie … In caso contrario, sussiste un impedimento dirimente”.
Riguardo agli effetti scaturenti dal matrimonio riparatore Prospero Farinacci, uno dei più eminenti penalisti del XVII secolo che rivestì molti incarichi importanti nello Stato pontificio – sua è la difesa di Beatrice Cenci – sostenne che per il crimine di ratto seguito da un valido matrimonio tra rapitore e rapita il giudice non era obbligato ad infliggere al reo la pena capitale ma una sanzione mitigata che tenesse conto di tutte le circostanze, oggettive e soggettive, del reato ed anche dell’eventuale dissenso dei genitori della donna al matrimonio.
Passando in rassegna i codici penali preunitari in vigore nel XIX secolo si può cogliere con chiarezza quanto fosse stata a cuore dei governanti la tutela della donna rapita e/o abusata.
Il codice penale del Regno delle Due Sicilie prevedeva infatti per lo stupro violento consumato la pena della reclusione e per il ratto violento o fraudolento la pena della rilegazione.
Il codice penale del Ducato di Parma per lo stupro violento prevedeva i lavori forzati a tempo e per il ratto violento o fraudolento la pena della reclusione.
Il Regolamento applicabile a tutti i territori dello Stato pontificio stabiliva la pena della reclusione da 10 a 15 anni sia per il reato di stupro violento sia per il ratto violento.
Il codice penale austriaco applicabile al Lombardo-Veneto comminava invece la pena da 5 a 10 anni di carcere duro per il reato di stupro violento e della pena da 10 a 20 anni di carcere duro qualora la donna avesse subito un grave pregiudizio alla sua salute; per il ratto violento stabiliva invece la pena da 5 a 10 anni di carcere duro.
Il codice penale toscano comminava per la violenza carnale la casa di forza da 4 a 8 anni se la donna era libera e prevedeva la pena della casa di forza da 5 a 10 anni se la donna era coniugata o religiosa; lo stesso codice prevedeva per il ratto violentola carcere da 2 a 5 anni se ad esso non fosse seguito abuso sessuale e in caso contrario comminava le stesse pene previste per la violenzacarnale.
Il codice penale del Ducato di Modena e Reggio sanzionava lo stupro violento con i lavori forzati fino a 7 anni; sanzionava invece il ratto violento con i lavori forzati da 5 a 7 anni se la donna era coniugata e con i lavori forzati da 1 a 3 anni se la donna era vedova o nubile.
Infine, il codice penale del Regno di Sardegna sanzionava con la pena della relegazione fino a 10 anni sia lo stupro violento sia il ratto violento.
Quanto al matrimonio riparatore della rapita con il rapitore, va segnalato che il Regolamento pontificio e il codice austriaco applicabile al Lombardo-Veneto non gli riconoscevano alcun effetto giuridico per cui il rapitore doveva soggiacere alle pene stabilite per il ratto e a quelle previste per lo stupro violento qualora commesso dopo il rapimento.
Gli altri codici preunitari operarono invece una distinzione: se la rapita era una donna libera, il matrimonio susseguente impediva l’esercizio dell’azione penale per il crimine di ratto; se invece era soggetta a patria potestà o tutela il procedimento avrebbe potuto essere intentato con apposita istanza del genitore o del tutore.
Tuttavia, va sottolineato con forza che nessuno dei codici preunitari riconobbe al matrimonio riparatore l’effetto di estinguere il crimine di violenza carnale (o stuproviolento) con la conseguenza che il violentatore era sempre chiamato a rispondere del reato da lui commesso anche se avesse in seguito sposato la donna abusata.
Questa era la situazione che rimase in vigore fino al 1861.
Dopo l’unificazione dell’Italia e soprattutto dopo il 1870, al territorio italiano fu esteso il codice penale del Regno di Sardegna, mentre restò in vigore il codice del Granducato di Toscana per la sola Toscana essendo stato riconosciuto molto evoluto.
Fu invece il primo codice penale del Regno d’Italia promulgato nel 1889 a far ripiombare la nazione nei secoli più bui dando la risposta più cinica, irrispettosa della dignità della donna e più biecamente maschilista: mi riferisco al codice penale Zanardelli che, con riferimento ai reati di violenza carnale (art. 331), atti di libidine (art. 333), corruzione di minore (art. 335), ratto di donna maggiorenne o emancipata (art. 340), ratto di minore o di donna coniugata (art. 341), affermò che il colpevole di tali reati“va esente da pena, se, prima che sia pronunziata la condanna, contragga matrimonio con la persona offesa; e il procedimento cessa per tutti coloro che sono concorsi nel delitto, ferma, ove ne sia il caso, le pena per gli altri reati.Se il matrimonio si contragga dopo la condanna, cessa l’esecuzione e cessano gli effetti penali di essa” (art. 352 c.p.).
Dunque, dopo l’unità d’Italia sul tema dei reati di violenza sulle donne il codice Zanardelli mise da parte le più avanzate legislazioni (mi riferisco soprattutto a quella napoletana e a quella toscana) e fece diversi passi indietro anche rispetto al codice penale del Regno di Sardegna ritornando indietro nei secoli bui ad una disciplina in cui la donna era senza diritti e la sua persona oggetto di scambio quale corrispettivo dell’impunità del colpevole mediante la proposta di matrimonio, frequentemente corredata da minacce o da offerte di denaro alla vittima o ai suoi parenti. Il matrimonio della violentata o della rapita con il suo aggressore garantiva poi l’impunità non solo a quest’ultimo ma anche ai suoi complici. Nessuna parola spese il codice per verificare le condizioni di tempo e di luogo in cui il matrimonio era avvenuto; nessun accenno fece alle condizioni psico-fisiche della donna per l’accertamento della validità del consenso al matrimonio.
Ciò che contava era solo chiudere in fretta “la pratica” con un matrimonio e mettere la sordina. Suona ancora come una vera e propria beffa l’ultima parte dell’art. 352 “ferma, ove ne sia il caso, la pena per gli altri reati” per cui una lesione anche di non particolare gravità cagionata alla donna in conseguenza dell’aggressione era punibile ma non l’offesa alla dignità morale della persona.
E il codice Rocco del 1930 seguì pedissequamente il codice Zanardelli su questa scia.Infatti, prima che venisse abrogato dalla legge 5 agosto 1981, n. 442, l’art. 544 codice penale ricalcava l’art. 352 del codice Zanardelli secondo cui“Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’art. 530, il matrimonio che l’autore del reato contragga con la persona offesa, estingue il reato, riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”.
Tale inaccettabile arretramento giuridico e culturale è rimasto colpevolmente in vigore nel nostro ordinamento per ben 33 anni dall’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica: tutti i reati commessi con violenza contro la donna (violenza carnale (art. 519), atti di libidine violenti (art. 521), ratto a fine di matrimonio (art. 522), ratto afine di libidine (art. 523), ratto di persona minore di anni 14 o inferma, a fine di libidine o di matrimonio (art. 524), corruzione di minorenni (art. 530), rientravano nella previsione dell’art. 544 e tutti coloro che li avevano commessi non erano perseguibili nel caso di matrimonio tra aggressore e aggredita.
Nessuna delle preoccupazioni che avevano ispirato i provvedimenti di Federico II, nessuna delle cautele che aveva suggerito Prospero Farinacci sul tema del cd. matrimonio riparatore (e che erano state in buona parte accolte nei codici preunitari) trovarono il minimo ascolto e le sopraffazioni dei rapitori e dei violentatori vennero legittimate e incoraggiate mediante il ricorso al matrimonio, in molti casi equiparabile a una seconda prevaricazione in danno della donna.
Non si vuole qui negare il fenomeno delle “fuitine” preordinate da entrambi i partners e talvolta incoraggiate dai genitori della donna magari per motivi economici (in tal modo si risparmiava, tra l’altro, il costo del ricevimento di nozze), ma la realtà ha dimostrato che molti rapimenti avvenivano contro la volontà delle donne: la cronaca nera ha ampiamente illustrato i casi in cui una donna – nonostante le minacce, i ricatti, le lusinghe (spesso avallate dai suoi parenti) e avendo contro buona parte dell’opinione pubblica – con grande coraggio e lasciata sola reclamava a gran voce che non intendeva subire un’altra violenza e questa volta per tutta la vita.
Il maschilismo dominante e l’atteggiamento retrogrado e ostile a qualunque rivendicazione di libertà della donna di non soggiacere alla richiesta-ricatto di matrimonio (che, duole dirlo, è stato avallato anche da tante donne delle passate generazioni) hanno quindi permesso che una delle peggiori pagine della legislazione fascista continuasse impunemente a sopravvivere nell’ordinamento repubblicano. Occorre attendere la legge 15 febbraio 1996, n. 66 per assistere al ritorno al passato: infatti fino a quel momento il codice Zanardelli del 1889 e il codice Rocco del 1930 avevano considerato il reato di violenza sessuale e il ratto come delitti contro la libertà sessuale collocandoli all’interno dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, ma solo con la predetta legge – che riformò integralmente la materia – tali crimini tornarono ad essere considerati reati contro la persona, proprio come secoli prima li avevano qualificati e sanzionati Giustiniano e Federico II.
Questo gravissimo ritardo non fa onore al parlamento che, detto per inciso, non intervenne neppure per abrogare quella odiosa norma (art. 559 c.p. del codice del 1930) che puniva solo l’adulterio della moglie e solo eccezionalmente quello del marito con il pretesto tutto maschilista di non minare l’unità familiare.
Dovette pensarci la Corte costituzionale (sentenza 19 dicembre 1968, n. 126) a dichiarare incostituzionale il trattamento privilegiato riservato al marito affermando che per l’unità familiare costituiscono un indubbio pericolo sia l’adulterio della moglie sia quello del marito e non solo quello della donna.
Per non dire del delitto d’onore (art. 587 c.p. del codice del 1930) che puniva con pene irrisorie chiunque “cagiona la morte del coniuge, della figlia, della sorella nell’atto in cui ne scopre l’illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia”ovvero uccideva, nelle dette circostanze “la persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella”analogamente a quanto aveva disposto l’art. 377 del codice Zanardelli del 1889 in forza del quale «Per i delitti preveduti nei capi precedenti (capo I dell’omicidio e capo II della lesione personale: N.d.S.), se il fatto sia commesso dal conjuge, ovvero da un ascendente, o dal fratello o dalla sorella, sopra la persona del conjuge, della discendente, della sorella o del correo o di entrambi, nell’atto in cui li sorprenda in flagrante adulterio o illegittimo concubito, la pena è ridotta a meno di un sesto, sostituita alla reclusione la detenzione, e detenzione da uno a cinque anni».
Questa forma di mascherata licenza di uccidere in considerazione del mite trattamento sanzionatorio andava ben oltre le previsioni del diritto romano che, in flagranza del reato di adulterio, consentiva l’omicidio della donna soltanto al padre di lei e non al marito (al quale permetteva solo di uccidere l’amante); inoltre superava di gran lunga anche la legislazione di Federico II che legittimava all’omicidio della coppia di amanti solo il marito della donna.
Infatti, il codice Rocco ampliò notevolmente la platea dei giustizieri che diventarono un quartetto: il padre (o la madre), il marito, il fratello (o sorella) e la moglie (sì anche la moglie perché il termine coniuge si riferisce sia al marito che alla moglie) e costituisce una ben magra consolazione rilevare che il codice del 1930 aveva depennato gli ascendenti (nonno e nonna) inclusi invece dal codice Zanardelli quali possibili legittimati a compiere il delitto d’onore.Anche per il delitto d’onore occorre attendere gli anni ottanta del secolo scorso quando la legge n. 442/1981 lo abrogò insieme al matrimonio riparatore.
Conclusioni
Molte tra le legislazioni antiche e più recenti passate in rassegna, pur con tutti i limiti derivanti da pregiudizi, situazioni sociali, economiche e istituzionali assolutamente differenti e irripetibili, avevano in qualche modo fornito risposte e modelli su cui meditare, alcuni discutibili altri condivisibili, al tema della violenza sulle donne e avevano evidenziato la preoccupazione di fondo di tenere conto della loro condizione per sottrarla alla soggezione all’uomo.
Tuttavia, il codice Zanardelli (promulgato alla fine del secolo XIX) e il codice Rocco (promulgato nel XX secolo) non dimostrarono altrettanta sensibilità e anzi la rinnegarono intenzionalmente.
Sarebbe da chiedersi perché e quali forze politiche e sociali consentirono questo ritorno alla barbarie e in nome di quali principi.
Nel corso dei secoli si era parlato di volubilità dell’indole femminile, della necessità di tutela e protezione della donna, della sua incapacità a testimoniare proprio in quanto donna o quanto meno di considerare poco attendibili e poco veritiere le sue deposizioni testimoniali, ma dopo l’Illuminismo non pochi intellettuali e molte legislazioni si erano discostati da tali pregiudizi.
Evidentemente, tuttavia, il maschilismo continuava a covare nelle coscienze; basti pensare allo sfruttamento delle donne nei luoghi di lavoro e al mancato riconoscimento di diritti elementari, quali un’equa retribuzione e l’istruzione.
Per non dire della repressione delle campagne per l’ottenimento del diritto di voto e così via.
Ebbene, di tali pregiudizi si fecero interpreti ministri e parlamentari dell’Italia liberale di fine Ottocento e non può sorprendere che essi furono fatti propri dal regime fascista negli anni trenta del Novecento.
Premesso quanto sopra, è doloroso e preoccupante constatare che la violenza sessuale è stata riconosciuta a pieno titolo come delitto contro la persona solo nel 1996 e che il matrimonio riparatore sia stato definitivamente cancellato dal nostro ordinamento solo nel 1981, segno questo che il maschilismo covava ancora tra tanti italiani ad onta del principio di uguaglianza sancito dalla Carta costituzionale nel 1946.
Aggiungasi che il legislatore avrebbe avuto l’opportunità di intervenire in sede penale così come lo aveva fatto nel 1975 in sede civile con la riforma del diritto di famiglia.
La legge 19 maggio 1975, n. 151, approvata a larga maggioranza con voto contrario del Movimento sociale, aveva infatti riconosciuto alla donna la condizione di piena parità rispetto all’uomo all’interno della famiglia.
Conseguentemente, erano cadute disposizioni anacronistiche e vessatorie come la dote; era stato possibile alla madre nubile di ricercare la paternità; era stata garantita la tutela dei figli nati fuori del matrimonio; era stata consentita la comunione dei beni tra coniugi; la moglie poteva finalmente ereditare i beni del marito defunto e così via.
Quale migliore occasione per riconoscere alla donna, oltre alla parità di diritti all’interno della famiglia, anche il diritto ad essere considerata persona e come tale destinataria di ogni tutela in sede penale contro soprusi e sopraffazioni?
In altre parole quale migliore occasione per abolire l’odiato istituto del delitto d’onore e l’altrettanto odiato istituto del matrimonio riparatore?
Ma soprattutto, perché continuare a disconoscere che la violenza sessuale è un delitto contro la persona che non ha nulla a che vedere con la moralità pubblica?
Questi sono gli interrogativi a cui è necessario rispondere in un periodo in cui proliferano i femminicidi, forse frutto di menti malate ma certamente intrise di maschilismo mai sopito e mai sufficientemente combattuto nelle famiglie, nelle istituzioni scolastiche, nella vita sociale e politica.
*Magistrato della Corte di Appello di Roma in pensione; ha scritto numerosi libri di storia giuridica