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L’astensione elettorale va curata, non sopportata

Appartengo a quella metà dei votanti che è andata al seggio, in queste elezioni europee. Incomincio a sentirmi come l’orso bruno marsicano. Non per il carattere, alquanto schivo, il suo e quindi che non mi si confà. Ma perché è catalogato tra le prime dieci specie di animali in via di estinzione in Italia. A quale percentuale deve arrivare l’astensionismo, per considerarlo un problema serio per la democrazia di questo Paese? A oggi, se ne parla soltanto due settimane prima delle elezioni e una dopo. Fiumi di parole di biasimo, di ricerca di scusanti, di colpevolizzazioni degli assenti, di invocazioni al senso civico per la prossima volta.

Lo statistico Roberto Volpi, nel ricordare che dal 72,9% delle politiche del 2018 si è passati al 63,9% del 2022 e al 49,7 delle europee di quest’anno – quindi un calo “monstre” del 23,2% in 6 anni – invita a non chiamarlo assenteismo, “vocabolo menzognero che fa pensare che gli italiani, debilitati dalle fatiche del voto, scelgano di risparmiarsela con qualche sotterfugio” (Dal 93,84% al non voto, una parabola italiana, La lettura, Corriere della sera, 30/06/2024). Volpi ha ragione; è piuttosto una specie di pandemia per la quale non sembra che ci siano scienziati della politica e politici di professione che investano in conoscenza e proposte per l’inversione della tendenza.

Infatti, non ci sono studi approfonditi, al di là della sondaggistica, che mettano in correlazione la non partecipazione al voto alla condizione reddituale, culturale, professionale, territoriale, di genere e di età. Non c’è stato finora Ministro degli Interni che si sia posto il problema di facilitare la partecipazione. Non c’è notizia che ci sia stato un Presidente del Consiglio che avesse messo al lavoro qualcuno per capire se si tratta di ammutinamento sia pure non organizzato (c’è un magnifico romanzo di José Saramago, Saggio sulla lucidità, ed. Feltrinelli che indaga su questa insinuazione) o di disinteresse verso la cosa pubblica, o di ben altro.

In attesa che qualcuno prenda di petto la questione, si può avanzare qualche considerazione, con la consapevolezza che si tratta di una faccenda complessa e fondamentalmente inedita.  Fino alle elezioni politiche del 2008 in cui votò l’80,5% degli aventi diritto, il tema era inesistente, anche se è stata percentuale lontana dalla punta massima che si raggiunse nel 1953 con il 93,84%. Il crollo è avvenuto con il trionfo dell’antipolitica. Quindi, pur sapendo che si sa poco, ci inoltriamo in questo magma che è il mondo del non voto per almeno tenere aperta la discussione.

Innanzitutto, bisognerebbe sburocratizzare l’esercizio del voto. Niente di risolutivo, ma sicuramente utile a non scoraggiare ulteriormente l’affluenza. Al seggio mi hanno chiesto la carta di identità per votare. Di conseguenza, mi sono chiesto: a che serve la tessera elettorale? Per sapere il numero della sezione in cui devo votare? Basterebbe scrivermela sulla tessera di identità. Per identificare chi ha diritto al voto e chi no? Per questo basterebbe che negli elenchi in mano agli scrutatori risultasse il nome di quel malfattore che per sentenza definitiva è stata privato del diritto al voto. Per di più mi hanno creato un sacco di problemi perché non c’era più posto per il timbro. Ho dovuto alzare la voce per poter procedere verso la cabina, continuando a chiedermi quale valore così essenziale avesse quella attestazione. Quanti vecchietti, quanti giovani, quanti di ogni età non votano perché hanno perso la tessera, perché non hanno mezza mattinata da perdere per procurarsene una nuova, perché scoprono all’ultimo momento dell’ultima ora utile che ne sono sprovvisti?  

Il mondo dei “vorrei ma non posso” si allarga ulteriormente a chi lavora o studia fuori sede. A questi è consentito votare nel luogo dove vivono regolarmente, ma chi glielo ha detto che per farlo devono registrarsi due mesi prima? Nessuno. In una realtà globalizzata dove si sta ampliando l’uso del voto da remoto, del voto con i cellulari, la situazione nostrana sembra volutamente arretrata, ferma ai tempi dell’acculturazione alla democrazia. 

Inoltre, c’è la questione della legge elettorale. Cambiarla in modo frequente, soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra candidato ed elettore, può allontanare e non avvicinare la gente alle urne. Un rapporto che può avere anche la sgradevolezza del clientelismo, ma alimenta un minimo di controllo dal basso dell’attività politica. Invece, chi pensa che il recupero di questo rapporto debba passare attraverso il premierato super dotato di poteri decisori e quindi con un Parlamento azzoppato e un Presidente della Repubblica dimezzato, vuol dire che rema esattamente nella direzione opposta. Non gli interessa creare più empatia tra elettore ed eletto prima, durante e dopo l’atto elettorale. Vuole convincere i più che dato il voto, la delega è una cambiale in bianco, senza momenti di mediazione fino alla nuova tornata elettorale. Così, però, funzionano le democrature, già presenti in giro per il mondo, sia pure con sfumature significativamente diverse le une dalle altre ma con la costante di considerare l’elezione un rito senza anima. Eppure, dovrebbe essere chiaro che il rispetto per il cittadino, per una scelta consapevole che sia determinante per la gestione del potere, sia condizione essenziale per ribaltare la tendenza all’astensionismo.

Infine, c’è un problema di contenuti dell’azione politica. Finita l’epoca delle contrapposizioni ideologiche, si sta affermando il personalismo identitario. Eccelle a destra (ovunque e solo” vota Giorgia”), ci sono tentazioni anche a sinistra (il PD si è per un attimo diviso se lanciare il “vota Elly”). Questa esasperazione del “capo” va bene a chi tifa, ma chi vuole programmi e scelte per valutare su quale simbolo apporre la croce, viene spiazzato. Se poi, l’elettore o l’elettrice si convincono che ciò che ha sempre visto come il cuore del ruolo dello Stato – il lavoro e il welfare – da questo viene sottovalutato, bistrattato o ridimenzionato sempre più, è legittimo che perda fiducia e rinunci alla partecipazione. 

Su entrambi i fronti, i deficit progettuali per gestire i cambiamenti che tutti vedono incombenti, pesano come macigni sulla quadratura del cerchio tra IO e NOI, invogliando alla diserzione. Sul lavoro e il welfare bisogna tornare ad elaborare proposte di medio-lungo periodo, per le quali la regola non può essere che vanno   accontentati tutti, anche perché implicano strategie di sviluppo e di tutela del benessere quantomeno europee, profonde modifiche del sistema fiscale, valorizzazione della qualità dell’educazione di base e permanente dei cittadini, riduzione delle disuguaglianze di genere, sociali, economiche e territoriali. Tutte questioni che, anche se non ci fosse l’alto tasso di astensionismo, andrebbero messe in fila e tradotte in programmi condivisi. 

Soprattutto per le forze politiche progressiste, non è sufficiente lanciare parole d’ordine allettanti. Per essere forze di governo, occorre sia recuperare i voti scappati via (anche in Francia e altri paesi della socialdemocrazia europea una parte consistente degli operai vota a destra), sia rimotivare chi è finito nel mega bacino dell’astensionismo pur non parteggiando per l’antipolitica. C’è la necessità di trovare risposte adeguate a tante questioni cruciali, quelle che alimentano paure e incertezze: le guerre, i capovolgimenti climatici, le violenze urbane, l’immigrazione incontrollata, i fanatismi religiosi. Ma   anche le   tre aree di problemi appena sintetizzate devono essere affrontate senza sotterfugi. 

C’è anche la necessità che i corpi intermedi della società, primi fra tutti i sindacati confederali, intervengano nella costruzione di una coscienza e cultura della partecipazione forte ed unitaria. Purtroppo stiamo assistendo ad un oscuramento del ruolo dell’associazionismo sociale, ad un crescendo di corporativizzazione delle loro istanze; crescenti al crescere delle mancate risposte. Invece, più c’è aggregazione sociale, più c’è mobilitazione riformistica, più netta diventa la qualità delle proposte, meno facile potrà risultare l’offensiva di quanti, indifferenti all’andamento astensionistico, puntano soltanto all’occupazione del potere politico.     

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