In Italia, la percentuale di 30-34enni con un titolo di studio terziario è del 32,5% per le donne rispetto al 19,9% per gli uomini (Istat 2017) e le performance accademiche femminili sono migliori a parità di percorso di studi (Almalaurea 2017). Subito dopo la laurea, il divario si ribalta: solo il 59,2% delle donne neolaureate lavora contro il 64,8% per gli uomini (Istat 2017). Soprattutto nel caso delle donne quindi parte del capitale umano maggiormente qualificato si disperde e con esso si perde un potenziale incremento nella produttività e nei consumi di prodotti e servizi, sia generici grazie all’aumento di famiglie a doppio reddito, sia dedicati esclusivamente alle donne.
Oltre al generale beneficio di avere più donne nella forza lavoro, un altro fattore rimane cruciale per crescita e uguaglianza: la posizione che le donne ricoprono all’interno del mercato del lavoro. Le carriere femminili infatti rimangono in media qualitativamente peggiori: a parità di posizione, guadagnano meno dei colleghi uomini; a parità di curriculum progrediscono più difficilmente e lentamente, rimanendo sottorappresentate nelle posizioni dirigenziali e apicali (vedi grafico in Figura 1). Tutt’oggi in Italia è drammaticamente basso il numero di donne manager: nelle aziende private si attestano al 22% (la media europea è del 29%) e guadagnano il 3% in meno (BCG 2017).
Figura 1. Proporzione di donne e uomini con istruzione terziaria in posizioni manageriali e professionali, 2017 (% laureati, % laureate)
Fonte: nostre elaborazioni su dati EU-LFS (Employment Statistics, Eurostat). 2017
Note. Per gli uomini, popolazione di riferimento sono i laureati occupati; per le donne, le laureate occupate. Posizioni manageriali e professionali corrispondono rispettivamente alle categorie 1 e 2 della International Standard Classification of Occupations (ISCO). I paesi sono in ordine decrescente in base alla percentuale di laureate in posizioni apicali.
Per valorizzare la partecipazione femminile al mercato del lavoro, è quindi necessario colmare il gender career gap e gender pay gap. Questi due divari infatti da un lato generano effetti cumulativi durante la carriera: le donne ricevono meno chance di essere promosse e pertanto di maturare quell’esperienza e quel network necessari a proseguire negli scatti successivi di carriera; dall’altro lato questi divari hanno un effetto deterrente sia sulle scelte scolastiche/accademiche, sia sulle scelte lavorative iniziali. Inoltre numerose ricerche hanno evidenziato come le donne al vertice, grazie al loro stile manageriale (definito “transformational style” dalla psicologa americana Alice Eagly) possano portare risultati positivi in aziende di molti settori. Un recente rapporto di McKinsey (2017), per esempio, ha mostrato che la diversificazione di genere in posizioni manageriali sia associata a migliori performance delle imprese. Infine, il divario salariale, insieme alla mancata partecipazione femminile al mercato del lavoro, rappresenta un’enorme perdita di ricchezza per i paesi, che in Europa si attesta intorno ai 50 trilioni (World Bank 2018).
Il cambiamento tecnologico e la digitalizzazione nel mercato del lavoro possono contribuire alla chiusura di questi divari tra uomini e donne. Da un lato, infatti, l’introduzione sempre più diffusa di tecnologia sia nel settore produttivo sia nel terziario favorisce la creazione di nuove figure professionali ed opportunità lavorative, a cui hanno potenzialmente accesso anche le lavoratrici con competenze STEM. Secondo le previsioni di Cedefop (2015) tra 2015 e 2025, in Italia, il numero di professionisti ICT aumenterà del 15%, mentre i posti di lavoro per figure professionali tecniche nei settori ingegneristici e scientifici incrementeranno del 9%. Dall’altro lato la trasformazione digitale nelle aziende può contribuire alla diffusione di soluzioni lavorative flessibili, in termini di orari e di impegno, che permettano una redistribuzione del tempo all’interno delle coppie e una migliore conciliazione – per le lavoratrici soprattutto – non solo tra lavoro e famiglia, ma anche tra carriera e famiglia.
Esempi di “smart working” sono soluzioni di job sharing (condivisione del posto di lavoro), il telelavoro, il part-time e la possibilità di concordare orari flessibili individuali. In Italia i “lavoratori agili” sono cresciuti del 14% tra 2016 e 2017, e le grandi imprese con progetti strutturati di smart working sono circa il 36% (Osservatorio Smart Working 2017). Inoltre, se la digitalizzazione venisse applicata anche ai processi di selezione del personale, questi potrebbero diventare più oggettivi sia per le aziende sia per laureate in cerca di lavoro, riducendo il rischio di discriminazione e incentivando le donne a candidarsi. Recentemente negli Stati Uniti sono nate numerose start-up, tra cui Gap Jumpers ed Entelo, i cui algoritmi processano dati da numerose fonti con l’obiettivo di raccogliere più informazioni possibili non solo su esperienze educative e lavorative, ma anche su personalità e compatibilità con le posizioni vacanti. I datori di lavoro possono quindi selezionare in maniera più informata, e trasparente, da un gruppo eterogeneo di candidati.
L’accesso ai vantaggi di cambiamento tecnologico e digitalizzazione per la partecipazione e la progressione di carriera delle lavoratrici non è però senza ostacoli. In primis, le donne sono fortemente sottorappresentate già all’università nei campi tecnologici e scientifici (vedi grafico in Figura 2) e la loro partecipazione in settori affini è scoraggiata da scarse opportunità di carriera, atteggiamenti discriminatori e mancanza di role models. Se in Europa in media le donne scienziate e ingegnere si attestano al 40%, in Italia sono solo il 32% (Eurostat 2016). Con una partecipazione così bassa l’accesso alle nuove posizioni scientifico-tecnologiche è limitato, mentre il rischio di technological displacement– ovvero che la propria figura professionale non sia complementare alle nuove tecnologie, ma sostituibile da esse – si innalza.
Figura 2. Laureati e laureate a.a. 2015/2016 per settore di studi e genere
Fonte: Elaborazioni su dati Almalaurea, 2016
In secondo luogo, sebbene soluzioni lavorative flessibili favoriscano la conciliazione lavoro-famiglia e – quindi – la partecipazione femminile, queste rischiano di essere un compromesso più che un’opportunità qualora le donne siano costrette a sceglierle e nel caso in cui inibiscano la progressione di carriera. In posizioni dirigenziali ed apicali, infatti, la flessibilità esiste ma implica spesso orari di lavoro ben oltre lo standard giornaliero, rendendo la conciliazione famiglia-carriera difficile.
La presenza fisica rimane inoltre un requisito non negoziabile non solo per il coordinamento delle attività, ma anche per il mantenimento della leadership: se le donne leader fossero meno presenti in ufficio rischierebbero di “perdere terreno” rispetto a uomini sempre disponibili al lavoro. Infine, in Italia la diffusione dello smart working è limitata alle grandi aziende del settore privato, mentre solo il 7% delle PMI offre soluzioni flessibili strutturate (Osservatorio Smart Working 2017). In terzo luogo, metodi di ricerca e selezione del personale “informatizzati” si stanno già diffondendo nelle grandi aziende, soprattutto negli Stati Uniti. In Italia – invece – le aziende digitalizzate sono poche, i processi di selezione sono spesso basati su network “locali” di candidati e il divario di genere nell’utilizzo del digitale anche in ambito lavorativo è ancora ampio (IWE 2017).
Affinché il “lavoro 4.0” e le nuove professioni tecnologiche rappresentino un’opportunità concreta per colmare i divari salariali e di carriera tra uomini e donne, bisogna agire su più fronti.
Da un lato sono necessarie politiche e iniziative che avvicinino ai percorsi STEM le studentesse interessate attraverso per esempio borse di studio e orientamento precoce, e che contengano la dispersione all’ingresso del mercato del lavoro anche favorendo processi di selezione più informatizzati all’interno di piccole e medie imprese.
Dall’altro serve un cambiamento nella cultura del lavoro, soprattutto in quella maschile, perché si dia più peso alla redistribuzione del tempo tra lavoro e famiglia, più alla produttività individuale e meno alle ore passate fisicamente sul luogo di lavoro. A questo proposito, un recente studio dell’economista statunitense Claudia Goldin (2014) ha stimato che la disparità di genere sarebbe notevolmente ridotta se le aziende non avessero incentivi così forti a valorizzare in maniera sproporzionata i lavoratori che lavorano più a lungo e oltre l’orario ordinario.
Infine, per colmare i divari di genere è cruciale ripensare la strategia comunicativa: non basta parlare di e alle donne. Bisogna coinvolgere attivamente anche gli uomini, promuovendo un cambiamento nel loro comportamento sul lavoro e nello loro scelte occupazionali, affinché sempre di più condividano con le donne lo spazio e il tempo non solo famigliare, ma anche lavorativo.
*24 Ore.it 03/07/2018